Il chirurgo che ci vuole connettere ad internet per mezzo di un impianto cerebrale

Secondo Eric Leuthardt siamo prossimi al giorno in cui permetteremo ai medici di inserire elettrodi nel nostro cervello che ci permettano di comunicare direttamente tra di noi e con i computer.

di Adam Piore

Eric C. Leuthardt, scienziato e neurochirurgo della Washington University di St. Louis, è convinto che, nei prossimi decenni, impianti cerebrali capaci di connetterci direttamente a computer ed altri individui diverranno comuni quanto chirurgia estetica e tatuaggi.

Leuthardt è specializzato in operazioni su pazienti affetti da forme di epilessia senza cura. Questi pazienti, inevitabilmente, passano diversi giorni prima dell’operazione a letto, annoiati, con elettrodi impiantati nella corteccia cerebrale per raccogliere informazioni sulle attività neuronali che precedono un attacco.

Da circa 15 anni Leuthardt chiede a questi pazienti di partecipare ad esperimenti volti a studiare l’attività neuronale del cervello umano e comprendere come il cervello codifichi i nostri pensieri e le nostre intenzioni. L’obbiettivo finale di queste ricerche è utilizzare i segnali del cervello per controllare dispositivi esterni all’individuo.

La precisione delle moderne tecniche chirurgiche rende più sicuro l’impianto di elettrodi nel cranio. Nelle parole di Leuthardt, “Vedremo un’integrazione neuronale fluida,” spiega. “Che avvenga tra 10 o 100 anni, si tratta di un passo evolutivo significativo per gli esseri umani.”

Leuthardt non è l’unico ad avere ambizioni nel campo delle interfacce cervello-computer. Lo scorso marzo, Elon Musk, fondatore della Tesla e della SpaceX, ha inaugurato la Neuralink, il cui obbiettivo è la creazione di dispositivi capaci di facilitare l’amalgama tra mente e macchina.

Mark Zuckerberg di Facebook ha rivelato la scorsa primavera che 60 ingegneri della sua società stanno studiando la realizzazione di interfacce capaci di permettere la composizione di messaggi con la sola mente.

Bryan Johnson, fondatore della Braintree, sta impegnando il proprio patrimonio al finanziamento della Kernel, una società che mira allo sviluppo di protesi neuronali capaci di aumentare intelligenza, memoria ed altro.

Gli ostacoli che questi progetti devono affrontare sono innumerevoli. I dispositivi che Musk e Zuckerberg desiderano realizzare non necessitano solo di hardware sufficientemente evoluto da sostenere una connessione fluida tra computer in silicio e la caotica massa organica del cervello umano. I dispositivi dovranno anche avere un’elevata capacità computazionale, sufficiente a decifrare l’ammasso di dati che può originare quando consistenti porzioni dei circa 100 miliardi di neuroni del cervello umano si attivano contemporaneamente. Per non parlare del fatto che, in realtà, ancora non conosciamo il codice utilizzato dal cervello, nonostante gli scienziati sappiano da tempo che movimenti, sensazioni e pensieri sono il prodotto dell’attivazione dei neuroni. Ancora non sappiamo leggere ed interpretare il pensiero.

↳Negli anni ‘80, un ingegnere di nome Apostolos Georgopoulos della Johns Hopkins, aprì le porte all’attuale rivoluzione nel campo delle interfacce cervello-computer identificando i neuroni responsabili di determinati movimenti. La sua scoperta si rivelò significativa in quanto dimostrò che questi segnali potevano essere registrati ed utilizzati per predire la direzione e l’intensità del movimento che ne sarebbe risultato. Alcune delle sequenze d’attivazione di questi neuroni della corteccia motoria superiore, studiati da Georgopoulos, risultarono responsabili del comportamento coordinato di innumerevoli altri neuroni dei livelli inferiori a loro volta responsabili del movimento di singoli muscoli.

Georgopoulos utilizzò array composti di dozzine di elettrodi per seguire questi segnali e dimostrare di poter prevedere sia come una scimmia avrebbe mosso un joystick nello spazio tridimensionale, sia a quale velocità.

Negli anni ’90, uno studente di Georgopoulos, Andrew Schwartz, ora neurobiologo alla University of Pittsburgh, portò avanti questi studi ed arrivò a dimostrare che è possibile impiantare elettrodi nei cervelli delle scimmie ed insegnare loro a controllare arti robotici con il solo pensiero. Questi studi convinsero Leuthardt a dedicare un anno al problema delle cicatrici nei topi.

Con il passare del tempo, infatti, gli elettrodi utilizzati da Schwartz e colleghi provocavano infiammazioni al cervello o finivano inglobate da cellule e rese inutilizzabili. Leuthardt arrivò alla conclusione che fosse necessario trovare una tecnica di registrazione completamente nuova. ‘Hey, io ho a disposizione un flusso costante di umani con elettrodi impiantati nel cervello!’” si disse Leuthardt. “Perché non usare loro per condurre esperimenti?”

Whitten Sabbatini Georgopoulos e Schwartz avevano raccolto dati facendo uso di microelettrodi posizionati accanto alle membrane cerebrali di singoli neuroni per rilevarne i cambiamenti di voltaggio. Gli elettrodi utilizzati da Leuthardt, impiantati nei pazienti in previsione di operazioni per curare l’epilessia, erano più grandi e posizionati sulla superficie della corteccia cerebrale, sotto lo scalpo, su strisce di plastica, da dove registravano i segnali emanati contemporaneamente da centinaia di migliaia di neuroni.

Questi elettrodi erano connessi a cavi che uscivano dalla testa del paziente per essere connessi a macchine capaci di analizzare i segnali da essi raccolti. Questo genere di elettrodi era stato in uso per decenni per individuare con precisione l’esatta origine nel cervello delle crisi epilettiche.

Molti dubitavano che questi elettrodi potessero raccogliere abbastanza informazioni da permettere il controllo mentale di una protesi.
Per capire se fosse possibile, Leuthardt reclutò Gerwin Schalk, scienziato informatico del Wadsworth Center, un laboratorio del New York State Department of Health. In pochi anni, i pazienti di Leuthardt si dimostrarono capaci di giocare a Space Invaders con il solo pensiero, per poi passare a muovere un cursore in uno spazio tridimensionale su schermo.

Nel 2006, Schalk ricevette un’offerta da parte di Elmar Schmeisser, program manager del U.S. Army Research Office. Schmeisser voleva scoprire se fosse possibile decifrare il “dialogo immaginato”, quelle parole che non vengono vocalizzate, ma solo pensate nel silenzio della propria mente, per realizzare caschi tramite cui i soldati potessero comunicare con il pensiero.
Leuthardt reclutò 12 pazienti epilettici e chiese loro di pronunciare prima e quindi solo pensare a 36 parole come “bet,” “bat,” “beat,” o “boot,” scelte per la loro semplice struttura: consonante – vocale – consonante. Raccolti dati a sufficienza per essere sicuro di saper identificare i segnali sensoriali del cervello, Leuthardt inviò quanto raccolto a Schalk perché potesse analizzarlo.

I software utilizzati da Schalk si basano su algoritmi capaci di riconoscere schemi ricorrenti. Il numero di variabili che si ottengono da un migliaio di letture al secondo registrate da 50-200 elettrodi non sono poche. Più elettrodi si utilizzano per meno neuroni, migliori sono le probabilità di identificare schemi ricorrenti significativi, ma servono computer all’altezza del compito. “Più alta è la risoluzione, meglio è, si tratta di un minimo di 50,000 numeri al secondo,” spiega Schalk. “Non è facile selezionare il singolo dato a cui sei interessato.”

Schalk non trovò sorprendente notare il fatto che pronunciare le parole coinvolgesse sia l’area della corteccia motoria associata ai muscoli necessari per parlare, sia la corteccia auditiva. Più degno di nota fu il fatto che gli schemi d’attivazione neuronale relativi all’immaginazione della parola non apparissero che lievemente differenti. Il sistema non è perfetto: il programma di Schalk ci azzecca il 45 percento delle volte.

Convinti che questa percentuale non possa che crescere con il raffinarsi dei sensori, invece di cercare di migliorare questo dato, Schalk e Leuthardt hanno preferito dedicarsi alla decodifica di componenti del linguaggio sempre più complesse. Schalk si è concentrato sulla capacità di distinguere un discorso dall’altro, mentre Leuthardt, si è dedicato all’identificazione di come il cervello codifichi concetti intellettuali su più regioni. È opinione Leuthardt che i suoi laboratori possano aver raggiunto il limite di quanto possibile alle attuali condizioni tecnologiche.

Secondo Leuthardt, con i giusti finanziamenti si potrebbe già portare al mercato generico un impianto prostetico capace di permettere agli utenti di muovere un cursore su di uno schermo, accendere e spegnere le luci o il riscaldamento, con il solo pensiero. Si potrebbe persino arrivare ad offrire una forma di rudimentale percezione sensoriale o la capacità di tradurre semplici pensieri in messaggi.

“Ma quanti sarebbero interessati a comperare un simile prodotto in questo momento?” spiega. “Penso sia importante procedere a piccoli passi per condurre la popolazione verso il traguardo a lungo termine.” Ecco perchè Leuthardt ha fondato la NeuroLutions, una società il cui compito è dimostrare l’esistenza di un mercato per dispositivi che connettono mente e macchina e cominciare a farne uso per dare una mano laddove necessario.

La NeuroLutions ha già raccolto diversi milioni in finanziamenti e prodotto un’interfaccia non invasiva, già in fase di test clinici su esseri umani, per vittime di ictus che abbiano perso l’utilizzo di un lato del corpo. Il dispositivo è composto di elettrodi che dallo scalpo sono connessi ad un tutore robotizzato per il braccio, a cui inviano i segnali emessi dal cervello con l’intenzione di muovere l’arto.

Questi segnali neurali originano nell’area del cervello dal lato opposto a quello solitamente rovinato da un ictus. Connettendosi a questi segnali rimasti illesi, Leuthardt è riuscito ad aiutare alcuni pazienti nel recupero di movimenti autonomi, senza necessità di interventi chirurgici, a dispetto dei limiti di ricezione propri ad elettrodi posti esternamente al cranio.

Non è facile far accettare un intervento di chirurgia cerebrale elettivo, né ai pazienti né agli investitori. Quando Leuthardt e Schalk fondarono la NeuroLutions, nel 2008, speravano di poter restituire la capacità d muoversi ad individui paralizzati proprio per mezzo di simili interventi. Il disinteresse degli investitori si dimostrò alimentato dal limitato successo di simili dispositivi nonostante un paio di decenni di ricerche (“Implanting Hope”) e dall’insufficiente numero di potenziali utenti.

Uno dei risultati positivi rilevati con l’utilizzo di dispositivi dotati di elettrodi esterni al cranio, è stato un sostanziale incoraggiamento a recuperare l’utilizzo autonomo dell’arto compromesso da parte del paziente. Una volta stabiliti nuovi percorsi neurali, infatti, il cervello si è dimostrato capace di rimodellarli ed espanderne le capacità fino a riuscire a comunicare comandi motori sempre più complessi all’arto. Schalk si dichiara convinto che ciò che veramente manca alla realizzazione di interfacce cervello-computer sia un progresso nella tecnologia dell’ecografia, qualcosa che permetta la lettura di più neuroni contemporaneamente.

Adam Piore è autore di The Body Builders: Inside the Science of the Engineered Human, pubblicato lo scorso marzo.

(LO)

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