Chi crea e chi produce

I sostenitori delle stampanti 3D e degli strumenti per la progettazione digitale sono convinti che queste tecnologie cambieranno il modo in cui produciamo le cose. Ma il movimento dei “creatori” è effettivamente in grado di produrre di più, oltre le cover dell’iPhone e i gioielli?

di David Rotman

Questa stampante 3D Shapeways sta elaborando un disegno digitale per creare un oggetto con il nylon.

Non è sorprendente che la stampa 3D abbia catturato l’immaginazione di così tanti tecnici. Create un file con un disegno digitale o scaricatene uno dai numerosi siti ora presenti sul Web, adattate qualche configurazione, premete “crea” e una macchina stamperà lentamente l’oggetto, depositando con precisione degli strati ultrasottili di materiale (di solito una plastica economica), fino a che l’oggetto del vostro disegno non si sarà materializzato davanti ai vostri occhi. Si tratta di un’immagine riconoscibile all’istante, per qualsiasi lettore di letteratura scientifica.

La tecnologia di base esiste da decenni: un gruppo di ingegneri del MIT brevettò delle “tecniche di stampa tridimensionale” nei primi anni Novanta. Aziende come la General Electric hanno utilizzato produzioni additive, come vengono spesso definite le versioni industriali della tecnologia, per la realizzazione di prototipi e di parti complesse delle turbine degli aeroplani e di strumenti medici. Ma il motivo di tanta eccitazione è dovuto alla graduale diffusione di stampanti tridimensionali accessibili al consumatore, quanto meno a quelli con mille o più dollari da spendere.

Il potere apparentemente magico di “convertire i bit in atomi”, come amano definirlo i sostenitori, ha fatto delle stampanti tridimensionali degli strumenti iconigrafici per un numero sempre crescente di persone, dedite alla produzione “fai da te”. Secondo alcuni, possono venire paragonate ai primi, accessibili personal computer dell’inizio degli anni Ottanta, o persino ad Internet.

La comunità dei makers

In Makers: The New Industrial Revolution, Chris Anderson, descrive la crescente comunità determinata a dare vita alle proprie creazioni utilizzando stampanti tridimensionali, macchine per ritaglio laser, tecnologie avanzate per la progettazione e hardware open-source. Anderson, che fino a pochi mesi fa era redattore capo della rivista “Wired”, descrive il “movimento dei makers” con un entusiasmo incontenibile, alludendo alla proliferazione degli “spazi creativi” in cui le persone possono condividere strumenti ed equipaggiamenti per realizzare i loro progetti e descrivendo i raduni di massa denominati Maker Faires, incluso un evento annuale che si tiene nella città di San Mateo a Silicon Valley, a cui partecipano circa 100mila persone.

Nel Queens, precisamente attraversando l’East River dal centro di Manhattan, un’azienda che si chiama Shapeways ha creato quella che definisce la Fabbrica del Futuro, equipaggiata con 30 stampanti tridimensionali industriali, per produrre i vari progetti dei suoi clienti digitali.

Sebbene molti dei prodotti realizzati sinora in questo modo siano costituiti da pezzi unici originali e da piccoli oggetti decorativi personalizzati, Anderson insiste sul fatto che il movimento è molto più di una rassegna amatoriale di competenze artigianali a elevata innovazione tecnologica. Ne apprezza, in particolare, lo spirito di condivisione dei progetti e di collaborazione all’interno delle comunità on line, proprio come avviene sul Web.

La capacità delle persone e delle piccole start-up di progettare oggetti e di stamparli, oppure di inviare i file digitali per farli produrre, costituisce già di per sé un cambiamento nel modo di produrre, dichiara Anderson, sostituendo la produzione in serie con la produzione personalizzata. “Il concetto di fabbrica, in poche parole, sta cambiando”.

Quale futuro potrebbe riservarci il movimento dei makers? Anderson immagina che “per i paesi occidentali come gli Stati Uniti, ciò potrebbe comportare la riconquista della propria perduta capacità produttiva, ma più che attraverso i grandi gruppi industriali, attraverso la proliferazione di migliaia di piccole aziende che attingono ai mercati di nicchia”.

La debolezza di questa tesi è data dalle scarse motivazioni che Anderson adduce per spiegare come una comunità di individui creativi ed entusiasti o di piccole start-up, possa dare luogo a un movimento industriale capace di trasformare e rivitalizzare la produzione. Le sue analisi appaiono spesso incomplete: “a causa delle competenze, delle attrezzature e dei costi per produrre beni su vasta scala, l’industria ha quasi sempre dato origine a grandi aziende e professionisti altamente qualificati.

Ciò sta per cambiare. Perché? Perché la produzione è diventata digitale: gli oggetti fisici oggi traggono origine dai progetti sugli schermi dei computer e questi disegni possono venire condivisi on line sotto forma di file”. Il lettore continua a chiedersi: come può la condivisione di progetti digitali cambiare il fatto che la maggiore parte dei beni che desideriamo e da cui dipendiamo, dagli iPhone ai jet, richiedono tuttora le competenze e le disponibilità finanziarie dei grandi produttori? In maniera altrettanto inadeguata, Anderson si affida spesso a improbabili paragoni storici, suggerendo che i creatori sarebbero la versione odierna degli inventori da garage, come il Club Homebrew Computer di Silicon Valley che negli anni Settanta dette origine a Apple II. Il semplice fatto di condividere i principi e lo spirito di quei celebri innovatori difficilmente può essere garanzia di altrettanto successo per il movimento dei makers.

Artigiani industriali?

La previsione di Anderson secondo cui molti consumatori si sposteranno dai beni di produzione di massa a basso costo verso i prodotti degli “artigiani industriali”, un giorno potrebbe diventare realtà. Ma, di nuovo, le motivazioni che adduce non sono convincenti: “Basta pensare solo all’alta moda e ai vini pregiati”, scrive. Questi però sono mercati di nicchia. Per quanto riguarda per lo più gli altri beni, i consumatori preferiscono le versioni prodotte in serie perché costano meno e sono standardizzate nella qualità, anche se non sempre di livello.

Anderson suggerisce che “ciò che il nuovo modello produttivo rende possibile è un mercato di massa per prodotti di nicchia”, però non prova a quantificare l’impatto economico di un tale cambiamento sui prodotti artigianali. Indica quella che definisce “l’economia della felicità”, piuttosto che la macroeconomia convenzionale, come la vera ragione della produzione personalizzata: “è interessante che una simile iper-specializzazione non corrisponda necessariamente a una strategia di massimizzazione del profitto”.

Forse l’elemento più problematico per le sue affermazioni è lo scarso interesse che dimostra per il modo in cui la maggior parte delle cose vengono effettivamente prodotte. Secondo Anderson il vero valore della sub-cultura consiste nella creazione e condivisione di progetti digitali per la produzione. Non è interessato a ciò che potrebbe succedere dopo: “Inviate il progetto alla vostra stampante 3D o caricatelo su un servizio cloud e poi inviatelo a un produttore a contratto in Cina”. Mentre le stampanti 3D diventeranno senza dubbio più versatili ̶ alcuni modelli avanzati sono già in grado di trattare una impressionante quantità di materiali, inclusi alcuni tipi di metalli ̶ la produzione additiva resterà, almeno per un po’ di tempo, più adatta alla produzione di componenti piuttosto che alla costruzione di macchine o dispositivi finiti.

Il risultato è che l’idea della rivoluzione industriale di Anderson è troppo spesso circoscritta alle cose che possono essere fabbricate con una stampante 3D e una macchina laser, o facilmente assemblate da un produttore che funge da servizio cloud.

Ciò è frustrante, perché negli Stati Uniti c’è un disperato bisogno di rinnovamento nel modo in cui si produce. Il paese è tuttora una potenza industriale, ma secondo alcune stime, oggi segue la Cina come principale produttore mondiale di beni. Forse il fatto ancora più preoccupante è che si trova dietro a molti paesi asiatici ed europei per quanto riguarda la produzione tecnologicamente avanzata.

In Producing Prosperity: Why America Needs a Manufacturing Renaissance, Gary P. Pisano e Willy C. Shih, professore presso la Harvard Business School, fanno un elenco delle più importanti tecnologie in cui gli Stati Uniti hanno perso o stanno rischiando di perdere la propria competenza produttiva. Fra queste ci sono le batterie ricaricabili, i display a cristalli liquidi e i semiconduttori (il 70 per cento della capacità produttiva mondiale è concentrata a Taiwan). Non è più possibile costruire lettori a inchiostro negli Stati Uniti, sebbene la tecnologia vi sia stata inventata.

Shih contesta l’idea che i prodotti innovativi possano di fatto concretizzarsi, una volta che i progetti vengano inviati ad altri per farli produrre. “Piuttosto”, suggerisce, “lo sviluppo di prodotti veramente rivoluzionari di solito si verifica quando progettisti e inventori conoscono bene i processi produttivi”. “Si può creare un disegno CAD, ma è necessario sapere ciò che un processo produttivo è in grado o non è in grado di fare”. Molte tecniche di produzione richiedono un’esecuzione esatta e sequenziale di una complessa serie di passaggi e di processi.

La selezione di materie prime e tecnologie appropriate costituisce la chiave per ottenere risultati di alta qualità e a basso costo. Se i progettisti non conoscono i processi produttivi e i materiali che sono necessari, non saranno mai in grado di mettere alla luce nuovi prodotti innovativi e competitivi. è una lezione che è stata imparata più volte, nel corso dell’ultimo decennio, con lo sviluppo di nuove tecnologie a basso impatto ambientale. Gli innovatori sono senz’altro in grado di progettare tecnologie intelligenti, come quella dei pannelli solari, ma il fatto di ignorarne i costi e i dettagli concreti coinvolti nella produzione costituisce di per sé un percorso certo verso il fallimento.

Forse sarebbe troppo aspettarsi che i creatori di Anderson abbiano un forte impatto sulla produzione di beni ad alta tecnologia. Però disseminate all’interno del movimento dei makers ci sono molte idee intelligenti sulla condivisione, collaborazione e creazione di progetti rivolti al consumatore, che potrebbero contribuire a rivitalizzare il nostro pensiero sul modo di produrre le cose (pensiamo, come precedente, all’esempio citato da Anderson su come il software open-source, prima dominio delle comunità di singoli programmatori, è stato in seguito adottato dalle grandi aziende). Inoltre, si potrebbe ipotizzare che l’industria possa beneficiare dell’entusiasmo imprenditoriale e dell’istinto creativo dei creatori ritratti da Anderson, così come delle sue fantasiose applicazioni della stampa tridimensionale.

Tuttavia, per tentare di avvicinarsi in qualche modo all’ambizioso traguardo posto dalla rivoluzione industriale di Anderson, i singoli creatori e le piccole start-up dovranno collaborare non solo fra di loro, ma anche con i grandi gruppi industriali. E per fare ciò il movimento dei makers dovrà essere più curioso e informato sul modo in cui le cose vengono effettivamente prodotte.

Related Posts
Total
0
Share