Il prezzo delle promesse tradite

Nonostante le stime riportino che circa un quinto delle riserve mondiali di petrolio e di gas siano nascoste sotto i suoi ghiacci, l’Artico rappresenta una terra difficile da affrontare per quasi tutte le grandi compagnie petrolifere mondiali, anche a fronte dell’opposizione ambientalista e del più recente dietro front della Casa Bianca.

di Paul Betts (Fonte Abo/Oil)

Da tempo l’industria petrolifera punta in alto: le attività di esplorazione al largo dell’Alaska condotte da Royal Dutch Shell rientrano certamente tra le più grandi scommesse della storia recente.

Mentre gran parte della concorrenza aveva abbandonato la ricerca di petrolio e di gas negli inclementi mari artici, Shell è andata avanti e, dopo un investimento complessivo di circa 7 miliardi di dollari, ha gettato la spugna, abbandonando le prospezioni nel mare dei Ciukci dopo aver ottenuto una prima produzione di petrolio e gas inferiore agli standard necessari per giustificare la prosecuzione delle attività.

Poiché non è inusuale trovare un pozzo sterile nella fase iniziale di esplorazione, la decisione della società di abbandonare la campagna nell’Artico dopo un solo tentativo non scaturisce esclusivamente dalla rivalutazione del vero potenziale della prospezione.

La questione è molto più ampia. A fronte di prezzi del petrolio inferiori ai 50 dollari a barile, per molti colossi del settore è diventato difficile giustificare i rischi legati alle ricerche nell’Artico. Per giunta, sulla scia della debolezza dei prezzi e della domanda, di recente tutte le grandi compagnie hanno annunciato misure di contenimento dei costi, tra cui strategie di esplorazione più limitate e mirate.

Una terra che sfida l’uomo

Nell’Artico il problema non è solo trovare petrolio e gas in quantità tali da giustificare lo sviluppo dei progetti: la sfida (e la scommessa economica) sta nel portare le risorse a riva. Eni e la compagnia partner Statoil stanno sviluppando Goliat, il primo grande giacimento nell’Artico, nel mare di Barents.

L’avvio della produzione si avvicina, ma non senza ritardi e un considerevole sforamento del budget: ammesso che tutto vada come da programma, ci sono voluti 15 anni per arrivare a produrre dopo la scoperta.

Le trivellazioni offshore in Alaska implicano inoltre rischi politici e di reputazione molto significativi per Shell e altri colossi del settore. 

L’opposizione politica e ambientale alla perforazione nell’Artico statunitense è stata particolarmente aspra. Dopo aver appoggiato con forza nuove politiche per favorire le attività nell’Artico e sfruttarne le abbondanti risorse potenziali, di recente il Presidente Obama ha ridimensionato la sua posizione: alcuni dei suoi consulenti più fidati si sono dichiarati scettici sulla possibilità di condurre attività di perforazione nell’Artico in condizioni di sicurezza. Hillary Clinton, Segretario di Stato e, con tutta probabilità, futura candidata democratica alle presidenziali, è dichiaratamente contraria.

Lo sfruttamento dell’Artico deve attendere

Per questi motivi, solo una settimana prima che Shell abbandonasse la costosa impresa offshore in Alaska, Fatih Birol, nuovo direttore esecutivo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia ed economista per il settore energetico molto influente, aveva ammonito che “sfruttare il petrolio dell’Artico non è possibile oggi e non lo sarà domani: potrebbe esserlo dopodomani”.

In un’intervista a un quotidiano, ha spiegato che le attività di esplorazione in questo ambiente offshore estremo sono “difficili dal punto di vista geologico e tecnologico, presentano una molteplicità di ostacoli ambientali e costi di produzione elevatissimi, soprattutto alla luce dei livelli di prezzo attuali”. Ha inoltre sostenuto che, nonostante le sfide sul fronte del cambiamento climatico, nei prossimi decenni si continuerà a fare largo uso del petrolio e saranno i dati economici a decidere se le forniture arriveranno dal Medio Oriente, da altri giacimenti consolidati, dai depositi di gas di scisto o dall’Artico.

Costi ancora troppo elevati

Dato l’attuale livello dei prezzi, oggi l’approvvigionamento di petrolio dall’Artico non ha molto senso dal punto di vista economico. Gli esperti del settore fanno notare che mentre produrre un barile di greggio costa circa 5 dollari in Medio Oriente, nell’estremo nord il costo potrebbe salire a 100 dollari o più, a seconda della zona e della profondità del mare. Shell ha continuato a puntare sull’esplorazione nell’Artico quando i prezzi del petrolio si aggiravano attorno ai 100 dollari a barile e oltre, confidando che i blocchi nel mare dei Ciukci potessero produrre circa 35 miliardi di barili di petrolio, una quantità che avrebbe compensato ampiamente e per molti anni la diminuzione delle riserve. E invece ora sta acquisendo con un’operazione da 70 miliardi di dollari BG Group, che ha accesso a risorse offshore promettenti, in particolare al largo della costa brasiliana.

L’operazione può forse contribuire a controbilanciare il calo
delle risorse, ma non è paragonabile al successo che la compagnia avrebbe messo a segno in Alaska. L’acquisizione di BG Group potrebbe aprire una nuova fase di consolidamento del settore, con un rafforzamento dei legami tra le società petrolifere indipendenti, desiderose di reintegrare le riserve, e le società petrolifere nazionali, che di riserve sono ricche.

Nonostante tutto, l’Artico, che secondo le stime nasconde circa un quinto delle riserve mondiali di petrolio e di gas, continuerà a suscitare l’interesse delle compagnie petrolifere. L’Alaska è già stata terra di successi e fallimenti: negli anni 70, la scoperta del giacimento di Prudhoe Bay nella North Slope, negli anni 80 il fallimento del pozzo di Mukluk, nel mare di Beaufort, considerato il pozzo sterile più costoso del settore, almeno fino a quando, la settimana scorsa, Shell ha annunciato l’interruzione delle attività al pozzo Burger J, a poche centinaia di miglia da Mukluk.

Con l’attuale avversione al rischio dell’industria petrolifera e la fiacchezza dell’economia mondiale, comunque, è probabile che le ricche risorse dell’Artico resteranno sepolte nel sottosuolo, come l’uomo dei ghiacci dell’Alaska. L’articolo è disponibile anche su abo.net

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(sa)

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