Il segno di Zohr

Cosa cambia nel Mediterraneo

di Luca Longo

Era ancora sulle prime pagine la notizia della scoperta del giacimento gigante di gas individuato da Eni nell’offshore egiziano a fine agosto, che l’amministratore delegato Claudio Descalzi – in una audizione davanti alle commissioni riunite Attività produttive della Camera e Industria del Senato tenutasi il 9 settembre – ha rilanciato annunciando che la maxi scoperta potrebbe riservare altre sorprese.

I primi dati hanno dimostrato che il pozzo Zohr IX – dove è stato trovato il giacimento di classe supergiant più grande del Mare Mediterraneo e forse uno dei più grandi al mondo – offre un potenziale stimato in 850 miliardi di metri cubi di gas (pari 5,5 miliardi di barili di olio equivalente) e un’estensione di circa 100 chilometri quadrati. Il giacimento sembra avere caratteristiche definite “incredibili” dall’AD En nella sua audizione: “non c’è anidride carbonica, non c’è zolfo, è praticamente metano puro che non richiede particolari purificazioni”. Inoltre, si trova già “ad alta pressione, a una temperatura relativamente bassa” e si trova solo a poche decine di km dal centro Eni di Al Gamil per il trattamento del gas. Ma i tecnici Eni hanno trovato indizi che dimostrerebbero come proprio sotto questo giacimento, risalente al Miocene Inferiore, se ne possa trovare un secondo risalente al Cretaceo e di dimensioni ancora non definite.

Il primo obiettivo di Eni sarà verificare e quantificare questa possibilità: la nave esplorativa Saipem 10000 sta avviando nuove perforazioni in quell’area proprio a questo scopo. Ma non meno importante è la definizione di un piano di sviluppo serratissimo che permetta il rapido sfruttamento del giacimento scoperto e la sua integrazione nella rete di infrastrutture esistenti per l’estrazione, il trattamento e la distribuzione del gas. Eni non si è sbilanciata in stime sul ritorno economico dell’investimento, ma analisti esterni ipotizzano che si possano ricavare da 3 a 5 miliardi di euro, in funzione dell’estrema volatilità attuale del prezzo di vendita degli idrocarburi. Descalzi prevede che già a dicembre saranno ultimate le procedure di richiesta di sfruttamento della concessione e si sarà insediato il board che gestirà l’investimento. Il cronoprogramma sarà comunque strettissimo su richiesta delle stesse autorità egiziane che vogliono poter raggiungere l’emancipazione energetica nel più breve tempo possibile.

La scoperta, infatti, è stata un’ottima notizia per il premier egiziano Abdel-Fattah al-Sissi all’inizio del suo secondo anno di governo. Quando la produzione sarà avviata, si prevede che potrà più che soddisfare la domanda interna egiziana. Dallo sfruttamento, Eni – operatore unico perché altri potenziali partner, scoraggiati dalla profondità dell’esplorazione avevano (sfortunatamente per loro) rifiutato di esercitare un’opzione entro la deadline scaduta alla fine di luglio – confida di ricavare dai 30 ai 35 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Questo dovrebbe rappresentare il 65-70% della produzione totale egiziana permettendole di tornare a coprire completamente la propria domanda interna, che si aggira sui 45-50 miliardi di metri cubi/anno, riservando il surplus all’esportazione e – si auspica – al miglioramento della qualità della vita dei cittadini e agli investimenti pubblici in infrastrutture, salute ed educazione.

Infatti, nel 2003 – dopo la scoperta di nuove riserve e la realizzazione di gasdotti ed infrastrutture per il Gas Naturale Liquefatto (LNG) – l’Egitto ha iniziato a esportare gas verso Giordania, Israele e Siria. Ma il governo Mubarak nutriva piani ambiziosi per l’esportazione fino al Libano ed alla Turchia. Questa stagione coincise con un aumento della domanda interna: secondo un rapporto del German Marshal Fund, fra il 2000 ed il 2012 il consumo energetico interno egiziano è salito del 5.6%, ma in particolare la domanda di gas è salita del 8.7%. Mentre nel 2000 il gas naturale soddisfaceva il 35% del fabbisogno energetico nazionale, nel 2012 aveva già superato il 50%. Anche se nel frattempo la produzione era aumentata, era inevitabile che prima o poi la crescita della domanda avrebbe superato la produzione interna. Proprio in aprile 2015, l’Egitto ha iniziato a importare gas da Israele attraverso una compagnia americana con prevedibili ripercussioni politiche ma anche economiche. Infatti, i prezzi delle forniture israeliane (stimate in 8 miliardi di metri cubi all’anno) risultano molto più alti di quelli che nel decennio precedente erano stati praticati per l’esportazione lungo la stessa pipeline ma in direzione opposta. Inoltre, proprio a febbraio 2015 l’Egitto ha iniziato a valutare insieme a Cipro la possibilità di realizzare un nuovo gasdotto sottomarino che permetta di ricevere gas anche da quell’isola.

Ma non è possibile trascurare le ricadute di questa scoperta sul piano politico in uno scacchiere così instabile. Dopo la primavera araba del 2011 e la deposizione di Hosni Mubarak, il successivo presidente Mohamed Morsi era stato politicamente indebolito anche da una serie di collassi energetici che avevano messo in ginocchio il Paese prima del colpo di stato del luglio 2013 che portò al potere al-Sissi. L’attuale governo egiziano, quindi, comprende molto bene l’esigenza di fornire energia alla popolazione a prezzi adeguati proprio per garantire la propria stabilità. Anche l’esercito sta investendo in questo settore e sta costruendo una propria infrastruttura energetica per garantirsi il rifornimento di elettricità.

Inoltre, l’annuncio della scoperta ha provocato un vero terremoto finanziario nelle compagnie impegnate nelle esportazioni verso l’Egitto: le azioni della israeliana Delek sono crollate del 12% registrando la caduta più vertiginosa dall’attacco alle Twin Towers del 2001, e anche quelle della statunitense Noble hanno registrato un profondo rosso. Entrambe le compagnie sono impegnate nello sfruttamento del non ancora operativo giacimento Leviathan, il cui sviluppo è stato bloccato da problemi di regolamentazione. Yuval Steinitz, ministro dell’energia israeliano, è arrivato a dichiarare che la scoperta dell’Eni è “un doloroso memento che, mentre Israele sta muovendosi come un sonnambulo ritardando l’approvazione del piano di sviluppo nel settore gas, il mondo sta cambiando di fronte ai nostri occhi, incluse le implicazioni sulle nostre esportazioni.”.

Ora il fattore chiave è quando Zohr diventerà produttivo e quanto costeranno i lavori per avviare lo sfruttamento: il governo egiziano stima 6-7 miliardi di dollari mentre Descalzi al Senato ha indicato in 10 miliardi una cifra più realistica.
Ma un fattore non secondario è l’instabilità della zona. Il terrorismo ad oriente già influenza duramente le attuali forniture da Israele a causa dei continui attacchi ai gasdotti nella zona del Sinai, mentre ad occidente vede l’Egitto in prima linea contro la minaccia ISIS.

Come se non bastasse, i prezzi del Gas Naturale Liquefatto, attualmente l’unica possibilità di commerciare gas al di là di un ambito locale, stanno scendendo a causa di una varietà di fattori. Prima di tutto il Giappone, che è diventato uno dei più grandi consumatori di LNG dopo il disastro di Fukushima, ora sta riavviando i suoi reattori nucleari, riducendo quindi la domanda di gas. Inoltre, le nuove scoperte in tutto il mondo mandano in circolazione un quantitativo crescente di gas mettendo sotto pressione i prezzi, e quindi le prospettive egiziane di ritorno commerciale.

Infine, dopo il raggiungimento dell’accordo sul nucleare iraniano, lo Stato guidato da Hassan Rouhani sta iniziando ad investire proprio nelle tecnologie LNG con l’obiettivo di diventare un grande fornitore su scala regionale. Già l’India ha riproposto un vecchio accordo per ricevere 22 miliardi di dollari in LNG, accordo bloccato ormai 10 anni fa dalle sanzioni contro l’Iran.

Se tutto andrà bene, forse già nel 2017 il giacimento Zohr potrebbe diventare produttivo, e questo vorrebbe dire che Eni centrerebbe un ulteriore primato mettendo a frutto la scoperta in un tempo record rispetto alla media del settore. Media che Eni ha già dimostrato di sapere battere in situazioni molto simili a quella egiziana. Infatti, il campo off-shore Eni di Nené Marine in Congo, ha avviato la produzione in soli 16 mesi dalla scoperta e 8 mesi dall’ottenimento del permesso di sfruttamento. Ma anche nelle acque profonde dell’Angola, Eni ha scoperto, in una zona lungamente e inutilmente battuta anche da altri operatori, il giacimento Cinguvu ed è riuscita ad avviarne la produzione 44 mesi dopo la dichiarazione di scoperta e con due settimane d’anticipo sul cronoprogramma stabilito. Infine, il campo Perla in Venezuela, il più grande giacimento nell’offshore dell’America Latina (480 miliardi di metri cubi) è stato avviato alla produzione all’inizio di luglio 2015 a soli cinque anni dalla scoperta.

In tutti questi casi, Eni può contare non solo sulla prossimità con impianti esistenti ma su solide competenze e tecnologie proprietarie di eccellenza sviluppate internamente per lo sfruttamento di giacimenti convenzionali in aree che Eni conosce da tempo battendo concorrenti che avevano già esplorato in precedenza le stesse aree con esiti fallimentari.

In questo quadro l’Italia potrà avvantaggiarsi in tre modi. Potranno beneficiarne le piccole e medie imprese (localizzate soprattutto in Emilia), che vendono impianti e servizi ad alta tecnologia all’industria mineraria e che rappresentano eccellenze nel settore. Inoltre, il nostro Paese potrebbe assicurarsi un ulteriore accesso all’energia in uno scenario in cui molti Paesi produttori sono soggetti a forti instabilità politiche. Infine l’Italia potrebbe finalmente realizzare l’obiettivo di diventare l’HUB del Mediterraneo per la distribuzione di energia verso l’Europa settentrionale.

(MO)

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