C’era una volta il tempo

In una intervista, il filosofo Giulio Giorello analizza l’affascinante prospettiva di un universo senza tempo. Confrontandosi con lo storico della scienza, Julien Barbour, vengono passate in rassegna le teorie prevalenti sulla natura dello spazio-tempo posteinsteiniano.

di Massimiliano Cannata

è possibile pensare il mondo al di fuori del tempo? Quali rischi si corrono se si prova a dare corpo al sogno dell’uomo di ricercare l’eterna giovinezza, superando ogni limite? Una cosa è certa: questo antico interrogativo concettuale, già presente dagli albori del pensiero filosofico e scientifico, da Agostino a Bergson, da Parmenide a Einstein, continua a occupare la mente dell’uomo contemporaneo. Gli sviluppi recenti della ricerca stanno ponendo nuove sfide. La fisica quantistica ci insegna che il tempo ha, infatti, una struttura diversa da quella che sperimentiamo nel quotidiano. Nell’infinitamente piccolo gli scienziati hanno ormai imparato a fare a meno del tempo, che pare destinato a rimanere “una grossolana nostra personale esperienza”, per usare una definizione di Carlo Rovelli, fisico teorico dell’Università di Marsiglia, che ha recentemente pubblicato un originale saggio intitolato Che cos’è la scienza: la rivoluzione di Anassimandro (Mondadori, 2011), in cui sostiene che “siamo noi a costruire il tempo, che è contenuto dentro capsule di vissuto, che esprimono quel presente di cui abbiamo esperienza”. Su una posizione ancora più estrema si colloca Julian Barbour, che il pubblico italiano conosce per lo stimolante volume La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura (Einaudi, 2003). Proprio a partire dalla tesi di Barbour , Giulio Giorello ha aperto un confronto che ha coinvolto la comunità scientifica internazionale. Tra i pensatori italiani più noti all’estero, Giorello è titolare della prestigiosa cattedra di filosofia della scienza presso la Statale di Milano dove ha operato il grande epistemologo Ludovico Geymonat.

Prof. Giorello, i moderni tentativi di unificare le maggiori teorie della fisica del ventesimo secolo, a partire dalla relatività generale di Einstein fino alla meccanica quantistica, ci spingono a pensare che il tempo sia una ben fondata illusione? Ha dunque ragione Barbour?

Quella del tempo è la sfida maggiore alla comprensione umana. Perché mai ci dovrebbe essere un qualcosa che “trascorre” o – come diceva Newton – “fluisce”, e perché le cose dovrebbero cambiare? Perché non è possibile concepire un cosmo completamente “fermo”? Un insieme di istantanee per le quali le cose non tanto mutano, ma si differenziano, magari lievemente, l’una dall’altra? Julian Barbour fa parte di una corrente intellettuale che estremizza l’atteggiamento che aveva a suo tempo il grande fisico matematico Hermann Weyl, amico e collaboratore di Einstein. Weyl diceva che lo scorrere del tempo è un’illusione “per noi fisici veri credenti”.

Quali sono le conseguenze di questa teoria che mette in crisi la fisica classica, mandando in soffitta l’orologio di Newton?

Al contrario di chi immerge lo scenario fisico nel continuum spazio-temporale, Barbour ritiene che la “sostanza primaria” della fisica siano i corpi e lo spazio-tempo sia solo una struttura secondaria che emerge dalle configurazioni reciproche dei corpi stessi. Filosoficamente, gli antenati di questa posizione sono l’irlandese George Berkeley, il tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz e per certi versi il dalmata Ruggiero Boscovich. Il principale assertore ne è stato, all’inizio del Novecento, il grande fisico e fisiologo Ernst Mach, col principio che porta il suo nome. Per Barbour si può risalire addirittura a Eraclito e a Parmenide, non così in conflitto come sembrerebbe almeno nei manuali tradizionali di storia della filosofia. Nulla “trascorre” nel mondo eleatico di Parmenide; ma nemmeno “tu puoi bagnarti nello stesso fiume”, per dirla con Eraclito. Da un istante (o istantanea) all’altro non c’è lo stesso fiume! E, come ho obiettato a Barbour, non c’è nemmeno un “tu”. Barbour chiama Platonia il suo statico universo governato dall’equazione quantistica nota come “equazione di Wheeler-DeWitt”. Io lo battezzerei piuttosto Humeania, perché comporta la fine non solo delle sostanze fisiche, ma anche dell’identità personale (come Barbour mi ha gentilmente riconosciuto, rendendo omaggio al grande David Hume).

Come la mettiamo con la coscienza dell’individuo che percepisce lo scorrere del tempo, scandito dall’inesorabile passaggio dalla giovinezza alla vecchiaia, dalla vita alla morte?

Sotto il profilo esistenziale il punto è un altro: per dirla con Jorge Luis Borges, “negare l’Io o lo stesso Universo astronomico è una disperazione apparente, ma anche una consolazione segreta. Il nostro destino non è spaventoso perché è irreale; è spaventoso perché è irreversibile. Noi siamo fatti di tempo”. Per dirla ancora con Borges, “il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco”.

Tempo evolutivo, biologico, storico, esistenziale, economico. Quali di questi attributi è a suo avviso più importante e degno di attenzione? Esiste una predominanza del tempo finanziario ed economico, che rischia di schiacciare le altre prospettive?

Si tratta di un bell’elenco di attributi del tempo. Come se volessimo dire che la tigre di cui sopra è bene adattata, biologicamente perfetta, dura come l’acciaio, terribile come ogni belva che si rispetti e “brilla splendida nella notte” delle illusioni a cui ci condanna quella triste scienza che è l’economia. Ognuno scelga l’aggettivo che più gli piace.

Nel dibattito con Barbour in occasione del Festival delle Scienze di Roma ha citato Giordano Bruno, disegnando un excursus che ci ha portato dalla rivoluzione copernicana alla teoria quantistica dell’universo. Quali sono le posizioni scientifiche dominanti?

Ho già indicato, riferendomi all’idea di Weyl e di Barbour, che il tempo è in fisica il banco di prova dell’audace tentativo di conciliare il punto di vista quantistico e quello della relatività generale. Bruno insegnava, sulla scia di Agostino d’Ippona, che Dio va cercato dentro noi stessi e non nei cieli, visto che proprio la fisica di allora aveva mostrato che “noi siamo cielo alla Luna così come la Luna è cielo a noi”. La domanda esistenzialmente più profonda si rivolgeva alla nostra interiorità proprio perché il mondo esterno era retto da alcune leggi e non da altre. Analogamente, la risposta ci porterà a rivoluzionare alcune delle nostre intuizioni fondamentali circa spazio e tempo.

L’atteggiamento prevalente della fisica teorica sembra quello di fare a meno del tempo. Così facendo, non si corre il rischio di allontanare la ricerca scientifica e la riflessione filosofica dalle esigenze dell’uomo di oggi?

Il testo di Barbour contiene un’interessante sezione dedicata a spiegare non la freccia del tempo, ma perché noi percepiamo qualcosa come una freccia del tempo. Anche teorie del tempo meno radicali, per esempio quelle esposte nello splendido libro di Sean Carroll Dall’eternità a qui (Adelphi, 2012), si propongono un obiettivo del genere. Detto in parole povere, per Boltzmann viviamo già in un universo che globalmente è nello stato di “morte termica” e solo localmente alcune fluttuazioni giustificano il fatto che percepiamo il tempo scorrere in una precisa direzione: tecnicamente, quella dell’entropia crescente ovvero quella della “disgregazione” dell’energia. Ma a questa spiegazione si può obiettare che più riconosciamo strutture ordinate intorno a noi (ove si verificano ancora trasformazioni da una forma di energia all’altra), più appare improbabile questa minima fluttuazione dallo stato entropico finale. Di qui la tendenza a considerare un “multi-verso” assai più variegato, in alcune zone (o sotto-universi) del quale l’entropia può diminuire anziché aumentare e la freccia del tempo “andare al contrario”!

“Il tempo è un nulla d’aria. Scorre diverso passo secondo le persone”. Ricordando i versi di Shakespeare, quale “spessore”, quale “dignità” pensava che il tempo potesse avere in una società dominata dal fattore tecnologico?

Tutta la dignità che gli conferiscono quei novelli Shakespeare che sono i grandi scienziati, dai cosmologi ai fisici quantistici, per non dire dei biologi dell’evoluzione.

Nel rapporto tra tempo ed eternità, entrano in gioco anche le religioni, il mito la metafisica, le moderne teorie sulla formazione ed evoluzione dell’universo. Ma tempo ed eternità in che rapporto stanno?

Mi sembra che abbia centrato l’obiettivo Sean Carroll, che chiamava in causa Da qui all’eternità, un classico della narrativa e del cinema. Se Barbour e altri si mettono invece dal punto di vista dell’eterno, il loro problema diventa quello di ritornare al “qui e ora”.

In conclusione vorrei rivolgerle la stessa sollecitazione da lei proposta a Barbour. Se si nega il tempo, l’identità, la dimensione del singolo e della relazione, a quale destino si va incontro?

Stiamo attenti a non dimenticare in tutta questa affascinante cosmologia del tempo la questione del linguaggio. L’irreversibilità – come ha scritto una volta il matematico René Thom – struttura persino frasi apparentemente innocenti come “Il gatto mangia il topo”. Non mi pare facilmente concepibile che pezzi di topo escano dalle fauci del gatto e ricostruiscano intera la cara bestiola. Abbiamo cominciato con la tigre divoratrice di Borges. Concluderei un po’ meno drammaticamente con il cartone animato di Gatto Silvestro: c’è sempre Speedy Gonzalez, il topo più veloce del Messico, che elude qualsiasi tentativo felino di tramutarlo… in pietanza.

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