Le navi bandiera della ricerca europea

è giunto il momento che l’Unione Europea si dia dei programmi che rendano scienza e tecnologia sostenibili sul piano socio-economico, andando oltre i tradizionali paradigmi del dominio dell’uomo sulla natura. Il principio di simulazione e di esperimento virtuale globale, una sorta di grande macchina in grado di processare l’intera società umana in tutte le sue interazioni, dovrà giocare un ruolo di primo piano.

di Bruno Giorgini

Quando si parla di rivoluzioni scientifiche, il pensiero corre subito alla Rivoluzione Copernicana, che anche il titolo di un famoso libro di Thomas S. Kuhn. Lo stesso Kuhn scrisse La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), dove si definivano due fasi per lo sviluppo scientifico. La prima è quella della scienza normale, quando esistono uno o più paradigmi ben stabiliti soggiacenti il lavoro della comunità scientifica che, su quella base e attorno a quella intelaiatura condivisa, studia i fenomeni sia per via sperimentale sia per via teorica, li modella e, eventualmente, scopre le leggi di natura che li governano.

A volte però, ci dice Kuhn, accade che nella scienza avvenga una vera e propria rivoluzione, quando per un concorso di motivi, anomalie sperimentali inspiegabili secondo i paradigmi dominanti e/o spostamenti culturali e metodologici e/o innovazioni tecnologiche che allargano il campo osservativo ben oltre i confini precedenti, i vecchi paradigmi vengono abbandonati e ne nascono di nuovi che modificano drasticamente la nostra concezione e visione del mondo al di là dei risultati scientifici strettamente specialistici. Una rivoluzione che però non distrugge il vecchio paradigma, ma piuttosto ne elabora uno nuovo e del tutto imprevisto che allarga il territorio della conoscenza scientifica, letteralmente scopre e permette di esplorare un nuovo mondo.

L’esempio tipico che al solito si fa, oltre alla rivoluzione copernicana, è il passaggio dalla fisica classica a quella quantistica. La cosiddetta catastrofe ultravioletta, per cui la fisica classica prevede nel caso di un corpo nero una emissione del tutto discordante dai risultati empirici, nonché infinita, violando la conservazione dell’energia, viene invece evitata se si fa l’ipotesi (Max Planck) di una emissione discreta (quanti di energia), ipotesi che spiega assai bene lo spettro sperimentale. Da qui si diparte la rivoluzione dei quanti, con il principio di indeterminazione per quanto attiene la misura dei fenomeni, e l’equazione di Schroedinger per quanto attiene la teoria e la capacità di predizione, in particolare per la struttura atomica.

Ma il paradigma classico rimane in campo, per esempio, quando si lancia un satellite o quando si studia la caduta dei gravi sulla terra oppure la corrente elettrica. Inoltre non sempre la rivoluzione scientifica appare così limpidamente conforme alla descrizione di Kuhn, o più precisamente non sempre è misurabile con un mutamento delle formule (dalle equazioni di Newton a quella di Schroedinger) e dei principi di misura (dall’esattezza classica all’indeterminazione quantistica). E bisogna anche aggiungere che lo sviluppo scientifico e tecnologico negli ultimi cento anni almeno è dilagato come un torrente in piena, andando oltre i confini delle tradizionali scienze naturali e dell’ingegneria, fino a investire le varie forme di vita (biotecnologie) e l’uomo sia come essere sociale (la moderna sociologia quantitativa) che come sistema biologico (l’ingegneria genetica), sia come essere pensante (le scienze cognitive), che come essere senziente (le neuroscienze).

Infine sempre più si è fatta strada la consapevolezza che molti fenomeni non erano facilmente confinabili né in una logica deterministica e/o lineare e neppure potevano essere trattati con approssimazioni all’equilibrio o quasi stazionarie, perché piccole cause potevano produrre enormi effetti. Inoltre, innumerevoli problemi sfuggivano alla delimitazione disciplinare tra fisica, chimica, matematica, ingegneria, biologia, urbanistica, sociologia, psicologia eccetera, richiedendo per essere affrontati un alto tasso di interdisciplinarità. Siamo nell’ambito dei cosiddetti fenomeni complessi, dalla propagazione di un’epidemia alle crisi finanziarie, dai conflitti geostrategici alle congestioni del traffico, dalla gestione del rischio nelle emergenze alla questione energetica, dalle grandi migrazioni alle mutazioni climatiche. è in questo quadro che nell’ambito dell’Unione Europea (UE) sono nati i cosiddetti flagships, una sorta di progetti «visionari» fortemente volti al futuro, in qualche modo «rivoluzionari», rispetto e accanto ai progetti di «normale» Ricerca e Sviluppo (R&S) che pure l’UE incoraggia e finanzia.

Che cosa sono i flagships

L’idea nasce da un gruppo di lavoro sulle tecnologie emergenti del futuro (FET, Future and Emerging Technologies) nell’ambito delle ICT (Information and Communication Technologies), fortemente interdisciplinare, presieduto dal francese Michel Cosnard e dall’italiano Paolo Dario, direttore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. I criteri enunciati sono chiari: i FET flagships (letteralmente: navi ammiraglie, ma anche fiori all’occhiello), tra i tre e i cinque, dovrebbero essere «ambiziosi, volti alla produzione scientifica su larga scala, mirati a iniziative che aspirino a fare scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche senza precedenti, che richiedono una ricerca essenzialmente transdisciplinare e uno sforzo comune della UE, degli stati membri e, se del caso, partner globali». Con un tempo di dieci anni, e un bilancio dell’ordine di cento (100) milioni di euro l’anno, per un totale di un miliardo a progetto.

Ma al di là di questi pure importanti bilanci di previsione in tempo e denaro, quali sono le nervature metodologiche, teoriche e pratiche, insomma le linee guida, o, se si vuole, il corpo dei paradigmi soggiacenti che ispirano la proposta, definendo anche i campi di applicazione della stessa? Per un verso il flagship deve nascere in un’area scientifica e tecnologica dove la ricerca europea fondamentale è avanzata e forte, nel senso preciso che esistono le competenze essenziali e molti buoni risultati, sebbene in genere ancora dispersi e frammentati tra i diversi centri di ricerca, le diverse istituzioni accademiche, i diversi stati nazionali spesso competitivi fra loro. Allora un salto di qualità è possibile se questi rivoli confluiscono nello stesso fiume costruendo una sinergia positiva, ovvero se si mette in atto una strategia di coordinamento europeo in grado di portare il sistema alla massa critica necessaria per competere a livello mondiale.

Per l’altro bisogna pensare all’impatto sociale nonché economico dell’innovazione scientifica e tecnologica, mettendo mano ai problemi che più inquietano, preoccupano, interessano la società europea. Sono in genere problemi che, per essere affrontati, esigono programmi di ricerca e sviluppo transdisciplinari, con la convergenza cooperativa di molte e diverse competenze ed expertises. Per dirla con le parole del documento di lavoro European Challenges and Flagships 2020 and beyond (2009), «bisogna sviluppare radicalmente la capacità di cooperare tra settori, di rompere le barriere e di creare nuovi mercati». La bussola è in qualche modo la volontà e necessità di costruire una società sostenibile, e la consapevolezza che per questo non basta l’attuale fisiologica innovazione e crescita della conoscenza, bensì bisogna introdurre innovazioni radicali. Si vuole insomma favorire l’invenzione di qualcosa di completamente nuovo, a partire da quegli ambiti dove la ricerca è più dinamica e i bisogni sociali più netti e corposi.

Il grande capitale dell’Europa è la conoscenza, in specie scientifica e tecnologica. La sfida è quella di svilupparla con progetti pilota che diventino il volano di una dinamica complessiva, le navi ammiraglie capaci di indicare la rotta di un più generale progresso e le possibilità concrete di far fronte agli immani problemi dell’umanità attuali, dal mutamento climatico ai conflitti sociali fino a quelli strategici. In termini generali, i criteri proposti per identificare un flagship sono la qualità dell’obiettivo, il suo impatto, la novità, l’ambizione che lo anima, la ricerca interdisciplinare, le risorse umane e finanziarie, la plausibilità, e infine la sostenibilità.

Vogliamo qui sottolineare l’accento continuamente posto sulla necessità di una ricerca inter o trans o pluri disciplinare (le distinzioni ci sono, ma in prima approssimazione possiamo prendere come sinonimi i diversi termini). Un flagship, per essere, deve essere ab origine interdisciplinare, l’interdisciplinarità deve essere contenuta nel suo DNA, a partire dalla definizione del suo programma di R&S. Questo significa che le scienze o le discipline non possono più essere gelose l’una dell’altra e/o arroccate nella loro identità, rinchiuse dentro il recinto della loro storia, per quanto gloriosa – si pensi per esempio alla fisica – difendendolo dalle contaminazioni in una sorta di orgogliosa purezza e solitudine.

Non sarà facile affermare questa nuova idea di una scienza non disciplinare, una sorta di scienza globale dei fenomeni naturali e sociali e/o, come qualcuno dice, una scienza della complessità. Si pensi soltanto alle rigidità della nostra accademia, con le cattedre compartimentate per settori disciplinari. Questa enfasi sulla ricerca interdisciplinare costituisce già una rivoluzione dall’esito non scontato, rispetto al pensiero scientifico tradizionale. Tra l’altro qualcuno può pensare che questa interdisciplinarità si traduca nella notte in cui tutte le vacche sono nere, o in un discorso meramente culturale, come spesso si vede. Ma i flagships hanno buone probabilità di essere indenni da queste obiezioni, perché ancorati a un obiettivo preciso, a tempi definiti, a finanziamenti ingenti che vanno cercati non solo nell’ambito delle istituzioni europee, ma anche sul mercato e tra investitori privati, e a una richiesta sociale, a bisogni sociali di dimensione europea.

Nel mondo dei flagships la parola Europa ha un senso molto preciso: i progetti sono talmente ambiziosi che un solo paese difficilmente potrebbe farsene carico. Sono progetti che si muovono nel senso di realizzare, o almeno contribuire a una visione comune del futuro, e nella loro completa dizione: progetti internazionali centrati sull’UE, tendenzialmente globali. Ora, se è vero che la collaborazione internazionale è una qualità della ricerca scientifica da molti anni – per esempio il CERN è certamente uno dei frutti migliori scaturito da questa vocazione – i flagships propongono un salto di qualità, non trattandosi di costruire un solo grande centro in cui tutti convergono, ma invece un’azione di ricerca e sviluppo coesa e diffusa al tempo stesso, una rete transnazionale e nazionale insieme.

Inoltre, gli estensori del documento di lavoro sono coscienti che l’applicazione dell’ICT alla società non sarà una operazione neutra: facendo l’esempio delle dinamiche di mercato certamente sviluppate in modo esponenziale via ICT, sottolineano che ciò può portare a un aumento della ricchezza, ma anche a una crisi economica mondiale senza precedenti (quella dentro cui siamo immersi). Ovvero il programma di ricerca sul problema ha anche implicazioni sociali che fanno parte del problema stesso, rendendolo complesso già nella sua definizione e formulazione.

Oltre a interdisciplinarità, un altro paio di parole ci danno la misura della novità: sostenibilità e visionario.

La sostenibilità significa che la cultura scientifica che informa la proposta dei flagships ha ormai acquisito il senso del limite: la ricerca deve darsi programmi che la rendano sostenibile sul piano sociale, economico e del rapporto uomo-natura. Detto in altri termini, forse andando oltre gli intendimenti degli estensori, il paradigma che sottende il rapporto uomo-natura non è più quello del dominio dell’uomo sulla natura, dove l’uomo usa la natura come un reservoir infinito di ricchezza, da quella energetica a quella dei metalli preziosi, con il solo problema dell’estrazione e modellazione di questa ricchezza, ma comincia a diventare quello di un contratto di equità tra uomo e natura, e di equità interattiva nei confronti della società.

La parola «visionario» suggerisce o evoca qualcosa che va oltre la scienza normale, è un termine proprio dell’immaginario sociale o individuale, addirittura proprio ai fenomeni di trance e/o mistici, un bisogno di vedere al di là e oltre la realtà limitata dall’orizzonte presente, la voglia, il desiderio di disegnare un futuro a lungo termine, quasi improponibile se ci si confinasse al buon senso quotidiano.

Leggiamo laddove i due termini si coniugano: «un FET flagship è una nuova e visionaria iniziativa europea ICT che concretizza una visione europea per una società futura sostenibile». In linguaggio filosofico si direbbe: una utopia concreta, e anche questo concreto bisogno visionario segnala una rivoluzione scientifica e tecnologica, se non in atto almeno in potenza.

Elenchiamo, per titoli, le aree tematiche selezionate come sensibili, i mari che le ammiraglie una volta varate dovrebbero/potrebbero solcare: la comprensione della vita, l’anticipazione delle crisi per via di simulazione e il governo dei sistemi complessi, le tecnologie dell’elaborazione per l’informazione e la comunicazione, le tecnologie per risolvere i problemi del futuro, i robot compagni dei cittadini. A questo punto, invece di specificare meglio i singoli temi, preferiamo raccontare come una possibile flagship sta definendo il suo scopo, l’equipaggio, il capitano e la rotta.

Il futuro acceleratore sociale ICT

Parlandone un po’ grossolanamente, così come negli acceleratori si studiano sciami di particelle elementari, si vorrebbe costruire una «macchina» che abbia le stesse capacità per quanto attiene la dinamica sociale degli esseri umani. Più precisamente, l’idea è quella di progettare e mettere in grado di funzionare un simulatore atto a fare esperimenti virtuali globali, ovvero capace di tenere in conto e processare circa dieci miliardi di individui (agenti) con le rispettive interazioni. Se si vuole: una grande macchina che simula l’intera società umana. Qui il principio di simulazione e di esperimento virtuale acquista un senso forte, diventa un nuovo paradigma, e si può in tutta tranquillità parlare di vera e propria rivoluzione scientifica e tecnologica, il cui successo ovviamente non è scontato. è una grande narrazione che si vuole scrivere nelle pagine della scienza operativa e concreta, e non soltanto nel libro dei sogni e/o delle grandi utopie, e per convincercene vediamo in breve le tappe che permettono di formulare un’idea nell’ambito di un programma di sviluppo scientifico e tecnologico.

Nel 1969 T.C. Schelling, per spiegare i meccanismi dell’esclusione sociale, formulò un modello, implementandolo in un calcolatore e facendo i primi esperimenti di dinamica sociale virtuale (T. S. Schelling, Models of Segregation, Am. Ec. Rev. 59, 2-1969). Il successo fu grande, l’innovazione venne subito percepita come radicale rispetto alla sociologia classica, e anche aspramente criticata. Da allora si può dire comunque che l’uso di simulazioni per studiare fenomeni sociali e economici è andato crescendo, fino a diventare oggi un paradigma generalmente accettato dalla comunità dei sociologi, almeno come serio terreno di discussione. Nel frattempo nasceva la scienza dei sistemi complessi, intrinsecamente pluridisciplinare dato che molti fenomeni diversi, fisici o sociali, di comportamento umano o della cellula e via dicendo potevano essere descritti in modi comuni (si pensi alle leggi di scala e di potenza che valgono tanto per i terremoti o le valanghe quanto per i sistemi sociali: legge di Zipf, di Pareto, di Levy), con strumenti matematici assai potenti, come gli automi cellulari o le reti, e particolarmente adatti a essere implementati su calcolatore.

Cresceva anche la potenza di calcolo delle macchine, per cui simulare il comportamento di centinaia di migliaia di individui virtuali cognitivi e in grado di prendere decisioni diventava, se non facile, fattibile. La simulazione poi mostrava tutta la sua potenza conoscitiva nello studio delle criticità del sistema, che spesso sono inaccessibili in situazioni reali (per esempio una folla in preda al panico può esser simulata, osservando in un esperimento virtuale la dinamica e come questa a un certo punto, per certi valori dei parametri di controllo, può degenerare nel panico caotico, ma certo non è lecito indurre il panico dentro una folla reale per studiarne i comportamenti).

Ma il principio di simulazione va modulato col principio di realtà, altrimenti si rischia di fare una «scienza» soltanto dell’immaginario e/o del virtuale, magari bellissima, ma non proprio scientifica. E qui interviene il terzo salto tecnologico, lo sviluppo e la crescita esponenziale in numero, qualità e precisione di strumenti di localizzazione e movimento spazio-temporale per gli individui, dai telefoni cellulari ai GPS, mentre la diffusione dei calcolatori implicava la nascita di una società sempre più interconnessa e del mondo della rete con i vari social networks che lo popolano.

Questa massa di dati permette sia analisi statistiche del mondo reale, sia, quando iniettata nei modelli, una validazione degli stessi in funzione della loro capacità predittiva, la capacità di prevedere cosa succederà almeno in senso probabilistico, e quindi di prendere ove possibile le opportune misure di prevenzione e/o di governo del fenomeno in studio. In questo quadro nasce all’ETH di Zurigo il CCSS (Coping with Crises in Complex Socio-Economics Systems) con lo scopo di far fronte alle crisi sempre più incalzanti, spesso impreviste come quella economica e finanziaria in cui ci troviamo attualmente immersi, senza sapere quando e come finirà. Dirk Helbing fisico, scienziato del traffico, sociologo (all’ETH è stato chiamato per la cattedra di sociologia per la modellizzazione e la simulazione) a partire dal CCSS lancia il flagship che abbiamo chiamato acceleratore sociale ICT (in inglese più precisamente Future ICT Knowledge Accelerator).

Helbing, il capitano in pectore della nave ammiraglia che sta mettendo in cantiere, parte dalla constatazione che c’è una discrasia tra l’enormità di problemi quali l’instabilità economica, la distruzione ambientale, i cambiamenti climatici, i conflitti geostrategici, tutti legati alle attività collettive degli umani e alle loro conseguenze, e la capacità di porvi mano, di governarli, di prevederli. Inoltre, la loro complessità è tale che una sola mente, per quanto geniale, non potrà comunque venirne capo. E neppure un solo calcolatore. Insomma soltanto se si stabilisce un sistema cooperativo sulla base di un programma rigoroso di obiettivi, si può pensare di fare il salto di conoscenza, tecnologia e governance necessario per lo sviluppo di una società sostenibile sul piano globale.

Il progetto ruota attorno a alcuni capisaldi: la messa in opera di un simulatore globale (A Living Earth Simulator), la istituzione di Osservatori per le Crisi (Crisis Observatories), un sistema di modelli per le dinamiche globali e le decisioni (Global System Dynamics and Policy), un progetto integrato per sistemi a economia sostenibile (Integrative Design of Sustainable Economic Systems), teorie economiche lontane dall’equilibrio (Non-Equilibrium Theory of Economics).

Ovviamente ognuno di questi capitoli, capisaldi, è poi specificato: per esempio, il Global System Dynamics and Policy dovrebbe arrivare a determinare gli impatti del cambiamento climatico globale, dei rischi naturali, dello sfruttamento delle risorse sui sistemi socio-economici (tra cui le grandi migrazioni, l’angoscia/inquietudine sociale, i possibili/probabili conflitti eccetera).

Le discipline coinvolte previste sono matematica, fisica, informatica, ingegneria, psicologia, sociologia, scienze politiche, economia, neuroscienze, geologia, ecologia. Però al di là della lista precedente, contano gli uomini e le donne: per ora l’equipaggio è composto da oltre duecento scienziati quasi tutti europei, di alto livello e competenza, appartenenti a oltre cinquanta università e centri di ricerca, da Cambridge alla Sapienza, dall’Università di Varsavia a quella di Bologna, dall’Università di Monaco all’Imperial College. Inoltre l’ammiraglia in costruzione si è data una serie di portavoce, per l’Italia A. Bazzani (Unibo), G. Caldarelli (Roma 1), Anna Carbone (Polito), Rosaria Conte (CNR), S. Fortunato (ISI), sperando di non avere dimenticato nessuno, consapevole che un progetto tanto ambizioso e insieme costoso (un miliardo di euro in dieci anni) ha bisogno come l’acqua del supporto di una buona comunicazione, specialmente in tempi in cui il denaro non abbonda e da ogni parte si viene sollecitati a tirare la cinghia.

Scorrendo la lista dei componenti e delle istituzioni, si scopre che sono quasi assenti gli scienziati e le università francesi, nonché i sociologi diciamo così classici e che inoltre tutti i portavoce italiani lavorano nel campo delle scienze esatte. Per l’assenza della ricerca francese, si tratta di un problema che una recente ricerca dell’OCSE ha messo in luce, esaminando la produzione di brevetti e vedendo che, assai radi sono i legami tra i due paesi che pure costituiscono l’asse politico fondamentale su cui si regge la UE, Germania e Francia, che sembrano quasi non conoscersi o riconoscersi sul piano della R&S. Per il resto la interdisciplinarità non è ancora evidentemente dispiegata, ma il percorso ormai è avviato.

Dopo il varo, la navigazione

è presto per dire quali e quanti flagships prenderanno il mare, però già si può affermare che il processo messo in moto da questa proposta sta innescando una discussione e una azione scientifica rilevanti e assai nuove, se non rivoluzionarie, e che i bisogni sociali da cui nasce stanno crescendo mano a mano che le crisi si accavallano e moltiplicano, dalla marea nera oceanica alla nuvola vulcanica fino alla speculazione contro l’euro.

Si può sul serio sperare che la ricerca europea e i flagships siano in grado di disegnare un percorso virtuoso tra conoscenza, innovazione, benessere, convivenza civile e integrazione europea. Ma forse i flagships e più in generale la scienza della complessità, vanno oltre, prefigurando una scienza dell’uomo, una scienza dove l’uomo venga compreso e studiato in quanto ente naturale e sociale tra altri enti naturali e sociali. Il che sul serio sarebbe una rivoluzione filosofica e antropologica assai profonda.

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