Quando la fisica è un affare di famiglia

Nonostante la prevalenza dei grandi centri di ricerca, la scienza sembra passare di mano in mano dallo studio delle particelle alle alte energie.

di Gino Segrè

Nel settembre del 1955, appena sbarcato da una nave proveniente dall’Italia e non ancora diciassettenne, mi ero iscritto a Harvard al primo anno di college. Fortunatamente parlavo già inglese. Pur essendo nato a Firenze poco prima dello scoppio della Seconda Guerra mondiale, la mia famiglia si era rifugiata a New York durante il conflitto, facendo ritorno in patria solo nel 1947. Otto anni più tardi, quando era arrivato il momento di iscrivermi all’università, i miei genitori decisero che avrei dovuto farlo negli Stati Uniti. Il mio viaggio fino a Cambridge iniziò con loro che mi accompagnarono alla stazione di Santa Maria Novella per darmi l’arrivederci. Un treno delle Ferrovie dello Stato mi condusse verso il porto di Le Havre, da dove salpava la nave che mi avrebbe trasportato a New York. Un altro treno mi portò a Boston. Con in mano la mia ingombrante valigia presi la metropolitana dalla South Station alla fermata di Harvard Square.

Ricordo ancora il mio disappunto quando, immaginandomi di essere accolto dall’invitante scenario che avevo visto solo in fotografia, emersi dall’uscita del metrò nel bel mezzo del traffico e di animati negozi. Timidamente mi rivolsi a un passante piuttosto anziano, professorale chiedendo indicazioni per Harvard. «Devi essere del primo anno. Procedi ancora per qualche passo, gira a destra e vedrai una cancellata. Attraversala!» La vista della promessa Harvard Yard mi rassicurò. Anche la stanza nel famoso “quadrilatero” prometteva bene. Ma presto ricevetti un altro colpo, anche se meno intenso: durante tutti i pasti era obbligatorio presentarsi in giacca e cravatta. La prima faceva parte delle mie dotazioni, ma mi mancava la seconda. Senza non avrei potuto accedere alla mensa e allora uscii immediatamente per procurarmi un cravattino, uno di quelli da allacciare dietro il collo, per non dover imparare a farmi il nodo a farfalla.

Durante il mio primo anno di college scrissi a casa coscienziosamente una volta alla settimana per riferire dei progressi fatti, glissando però sulle mie difficoltà di adattamento. Dopo un po’ mi ero fatto alcuni amici stretti, molti dei quali erano alle prese con i miei stessi problemi. I miei scopi accademici immediati consistevano nell’imparare la fisica, la disciplina che avevo scelto. Questo non risultò essere facile come l’acquisto di un farfallino: non ero il genio che avevo sperato di essere. Ciò nonostante, dopo quattro anni di strenuo impegno, venni accettato da alcune scuole di specializzazione e scelsi di andare al MIT. Una scelta in gran parte dovuta a Francis Low, un docente di fisica da “giù lungo il fiume” che era giunto ad Harvard nel mio quarto e ultimo anno per tenere una serie eccezionale di lectures. Sebbene io non avessi compreso granché degli argomenti da lui esposti, gli studenti postlaurea e il corpo docente di Harvard avevano prestato molta attenzione alle equazioni che Low andava tracciando sulla lavagna e allo stimolante modello della dispersione Chew-Low che era oggetto della sua presentazione. Sembrava tutto assai emozionante; mi consultai con il mio relatore, che concordò sul fatto che una iscrizione al MIT sarebbe stata una buona idea. Disponendo di una scarsa attitudine alla meccanica decisi anche che avrei cercato di diventare un fisico teorico.

Nel novembre del 1959, il mio primo anno di scuola di dottorato, mi fu riferito che Owen Chamberlain e mio zio Emilio, fisico sperimentale, avevano vinto il premio Nobel in fisica per la loro scoperta dell’antiprotone. L’esistenza delle particelle di antimateria – identiche per massa all’elettrone e al protone ma opposte per carica elettrica – era stata postulata quasi trent’anni prima da Paul Dirac in seguito al tentativo di legare la meccanica quantistica alla teoria della relatività speciale in una unica, elegante equazione. La maggior parte dei fisici ritenne che l’idea fosse troppo speculativa, ma la scoperta nel 1932 dell’antielettrone (noto anche come positrone) dimostrò che Dirac aveva avuto ragione. Ci vollero altri venticinque anni per individuare l’antiprotone, perché la creazione di questa particella in laboratorio richiedeva potenti acceleratori che non furono disponibili prima degli anni Cinquanta del secolo scorso. A differenza della scoperta dell’antielettrone, accolta con emozione e sorpresa, la prova dell’esistenza dell’antiprotone non sorprese nessuno. Ma fu la cruciale conferma delle equazioni che i fisici teorici utilizzavano ormai come attrezzatura corrente.

Allora, nel 1959, mi ero chiesto se il premio Nobel vinto da mio zio fosse di buon auspicio per la validità della mia scelta. Pensai che se lui era riuscito in questa professione forse ce l’avrei fatta anch’io. D’altra parte mio zio si era prefissato una meta incredibilmente ambiziosa. Mio padre cercò di tirarmi su il morale scrivendomi che, premio o non premio, era meglio essere fisici teorici piuttosto che sperimentali, come mio zio. Il motivo per cui era giunto a tale conclusione era a dir poco oscuro; mio padre insegnava storia antica e non conosceva nulla dei fondamentali della fisica. Non potei fare a meno di pensare che il suo modo di vedere avesse purtroppo più a che fare con il pessimo rapporto che intercorreva tra i due fratelli che con qualsiasi altra considerazione.

In ogni caso, il campo che avevo fatto mio, quello della fisica delle alte energie, talvolta detto delle “particelle elementari”, sembrava particolarmente promettente e io ero molto contento della mia scelta. L’intreccio tra aspetti teorici e sperimentali in particolar modo mi appariva esaltante. Gli sperimentalisti scoprivano di continuo sorprendenti risultati e subito dopo i teorici fornivano una spiegazione; in altri casi i teorici formulavano una previsione che veniva prontamente verificata o smentita da ingegnosi esperimenti. L’esempio più eloquente di allora fu l’analisi svolta da Tsung-Dao Lee e Chen Ning Yang di come una reazione e la sua immagine speculare potessero essere distinte l’una dall’altra, in violazione del cosiddetto principio di simmetria di parità. La congettura da loro formulata nel 1956 trovò rapidamente conferma e i due si aggiudicarono il premio Nobel dell’anno successivo, il 1957.

Inoltre, venivano messi in quei tempi in funzione acceleratori sempre più potenti, capaci di produrre nuove e spesso inattese particelle a ritmi quasi prodigiosi. Murray Gell-Mann fu uno dei primi a cercare di raggruppare queste nuove entità in famiglie i cui componenti venivano messi in relazione gli uni con gli altri in base a considerazioni sulle loro rispettive simmetrie. E aveva solo trent’anni, la stessa età di Lee quando ricevette il premio Nobel. Era un campo completamente nuovo, con i suoi nuovi leader. Stavo cominciando a credere che la situazione potesse somigliare ai primi sviluppi della meccanica quantistica, quando Wolfgang Pauli, Werner Heisenberg e Dirac avevano scatenato una rivoluzione prima di compiere i loro trent’anni. Dato che io ne avevo solo 21, c’era speranza che potessi essere un protagonista da lì a pochi anni, se ne avessi avuto la capacità.

Cinquant’anni dopo, considero quel momento in modo diverso. Mi vedo mentre sto entrando in una realtà rapidamente emergente, attraverso una porta collocata nel punto intermedio di un lungo arco che abbraccia un intero secolo, dai primi esperimenti sulla dispersione di Ernest Rutherford, al Large Hadron Collider (Grande Collisore Adronico) del CERN, cioè da quella che sembrava una esercitazione senza importanza di due studenti a una iniziativa globale che coinvolge migliaia di scienziati in uno sforzo capace di produrre una macchina da diversi miliardi di dollari. Se l’inizio era stato semplice, il punto di arrivo rappresenta forse l’esperimento più complesso sul piano tecnologico che sia mai stato tentato.

Ho definito come un arco questa fase di sperimentazione lunga un secolo, ma forse scalata sarebbe una metafora più appropriata, poiché ci siamo spostati continuamente lungo il corso di questi cento anni verso esperimenti sempre più estesi. D’altro canto, abbiamo anche compiuto una discesa, andando a sondare la materia su scale sempre più ridotte, dall’atomo al nucleo e da qui ai protoni e neuroni, fino al quark e, infine, a qualunque cosa verrà. Colloco il mio ingresso in tale scenario in un punto intermedio non solo dal punto di vista cronologico, ma anche organizzativo, in un’epoca in cui un gruppo che faceva riferimento a una singola università poteva ancora portare a buon fine un esperimento, in cui i computer erano nella loro infanzia e le analisi richiedevano alcuni giorni.

Ma forse la nostra storia dovrebbe partire 113 anni fa, quando Henri Becquerel scoprì la radiazione prodotta dal minerale di uranio; questa indicava a sua volta la presenza di una nuova fonte di energia, più potente di ogni altra conosciuta. Due anni dopo, Marie Curie e suo marito Pierre pubblicarono a loro volta la scoperta che la radioattività era una caratteristica su scala atomica dell’uranio e di altri materiali. Non ci volle molto perché Rutherforf, giovane neozelandese che lavorava a Cambridge, in Inghilterra, comprendesse che questa radiazione aveva due componenti diverse, da lui battezzate raggi alfa e raggi beta. Io personalmente colloco l’inizio della parabola nel 1909, quando due giovani fisici che lavoravano per Rutherford, ormai rispettato docente a Manchester, avviarono su impulso del loro mentore un nuovo tipo di esperimento. Una sottile lamina di oro venne bombardata con particelle alfa, i costituenti dei raggi scoperti da Rutherford una decina d’anni prima. A partire da quel rivoluzionario esperimento i fisici hanno scagliato particelle sempre più energetiche verso bersagli sempre più sofisticati. I metodi sono cambiati nel corso del secolo, ma gli scopi di chi cerca di sondare gli oggetti che costituiscono la materia su scale sempre più piccole sono rimasti immutati.

Solo nel 1911 Rutherford si rese conto delle implicazioni degli esperimenti di Manchester: l’atomo, diversamente dalle opinioni allora dominanti, era formato da elettroni in movimento intorno a un “nocciolo” piccolo ma molto massivo. Negli anni successivi lo scienziato utilizzò il termine nucleo per descrivere il nocciolo. Con una misura tipicamente di poco superiore a un centomillesimo del raggio totale dell’atomo, il nucleo conteneva ciònondimeno il grosso della sua massa.

Venti anni più tardi, andando a sondare ancora più in profondità, i fisici scoprirono che il nucleo è composto di neutroni e protoni, tenuti presumibilmente insieme da una forza fino ad allora inimmaginabile. Quarant’anni dopo quella scoperta, trovarono che i neutroni e i protoni sono composti a loro volta da tre quark. Quest’anno, quando il Large Hadron Collider comincerà a funzionare a pieno regime, effettueremo il passo successivo del nostro viaggio, quello le cui tappe sono state descritte dal fisico Abraham Pais in un libro dall’appropriato titolo di Inward Bound (Rotta verso l’interno).

Le prime famiglie della fisica

Per tutta l’estensione di questo arco lungo un secolo l’energia dei proiettili utilizzati è aumentata di un fattore un milione, il costo degli apparati necessari da qualche centinaio a qualche miliardo di dollari e i gruppi impegnati intorno a un tipico esperimento da un massimo di due a due o trecento persone. Ma questa è molto più che una storia di macchine sempre più grandi e investimenti più onerosi. è anche il racconto di persone che hanno ottenuto una tale straordinaria crescita, persone che erano unite le une alle altre, talvolta da legami di sangue e matrimoniali (come posso testimoniare io stesso, avendo una sfilza di parenti in quello che a volte considero, scherzosamente, “un affare di famiglia”), ma in tutti i casi da uno scopo comune.

Quando vi entrai, 50 anni fa, avevo un’idea piuttosto romantica di questo settore, visione mitigata dalla scoperta di alcune delle più aspre dispute sorte lungo il cammino (due dei miei primi eroi, Lee e Yang, un tempo uniti come due fratelli, non si sono parlati per decenni). Eppure, scorgendone oggi i difetti, nutro anche un apprezzamento se possibile ancora più forte per la solidarietà e addirittura l’affetto che tanto caratterizza la comunità dei fisici. Grandi laboratori come il Cavendish di Cambridge, l’Istituto Radium dei Curie o l’Istituto di fisica teorica di Niels Bohr hanno spesso alimentato sentimenti quasi familiari, rafforzati occasionalmente dalla vista di genitori e figli impegnati fianco a fianco nelle ricerche.

Quando a presiedere era Rutherford, esisteva certamente una atmosfera familiare. Lo scienziato lasciò Manchester alla fine della Prima Guerra mondiale. Joseph John Thomson, che nel 1906 aveva ricevuto un premio Nobel per la scoperta dell’elettrone, decise di lasciare la cattedra di Cambridge intitolata a Cavendish dopo aver occupato quella posizione per 35 anni. Rutherford, allora al culmine delle sue capacità era il suo naturale successore. Accettò e per i 15 anni seguenti il Laboratorio Cavendish fu, sotto la sua guida, la prima struttura al mondo per le ricerche nel campo della fisica nucleare.

Al Cavendish Rutherford era amabile, ma severo quando bisognava esserlo, sempre pronto a incoraggiare il gruppo dei “suoi ragazzi”. Una volta Bohr scrisse di lui che «per quanto modesto potesse essere un risultato, una sua parola di approvazione era per noi il più grande incoraggiamento che potessimo desiderare». Nessuno poteva nutrire dei dubbi su chi fosse il padre e chi avesse l’ultima parola, ma l’intuito di Rutherford era formidabile e la sua capacità di giudizio eccellente, e non si sentiva mai minacciato dai suggerimenti degli altri. Iniziava la giornata compulsando le notizie dal mondo della fisica insieme all’assistente capo del laboratorio, James Chadwick, che aveva lavorato con Rutherford sin da quando era studente a Manchester, prima della Prima Guerra mondiale. Terminata la lettura Rutherford faceva il giro del laboratorio, offrendo i suoi consigli. Ogni volta che qualche risultato preliminare si rendeva disponibile, siedeva su uno sgabello accanto al tavolo dello sperimentatore, tirava fuori dal panciotto una matita e controllava se i dati fossero coerenti. Le limitazioni allora imposte alla vita di laboratorio oggi appaiono arcaiche: porte che chiudevano puntualmente alle sei di sera, vacanze obbligatorie e un’etica prevalente che ti imponeva di costruirti da solo l’equipaggiamento, possibilmente senza spendere troppo. Visto con gli occhiali di adesso, il comportamento di Rutherford ci apparirebbe paternalistico. Ma non c’era alcun risentimento.

Nessuno degli esperimenti condotti al Cavendish sarebbe stato più determinante della scoperta del neutrone, da parte di Chadwick, nel 1932. Vera porta di ingresso nell’era della fisica nucleare, fu un trionfo per i ragazzi di Rutherford e contrassegnò l’inizio di un periodo in cui gli sperimentalisti ripresero il loro vantaggio sui teorici come Bohr, Heisenberg e Schrödinger, che avevano dominato dal momento in cui, vent’anni prima, Rutherford aveva individuato il nucleo.

La composizione del nucleo era rimasta un enigma fin da quella sorprendente scoperta. Si sapeva che un atomo di ossigeno, per esempio, aveva otto elettroni intorno a un nucleo che conteneva otto protoni, ma la massa dell’atomo sembrava indicare la presenza di sedici protoni, il doppio del previsto. Si riteneva comunemente che i nuclei contenessero dei protoni aggiuntivi legati strettamente a elettroni assai più leggeri, in modo da neutralizzarne le cariche. Ma la cosa non sembrava avere molto senso: come era possibile che gli elettroni fossero talvolta dentro al nucleo, se normalmente si trovavano all’esterno? Una spiegazione alternativa, da tempo ipotizzata da Rutherford e Chadwick, consisteva nell’esistenza di una particella di massa molto simile a quella del protone, ma priva di carica elettrica. Come previsto sulla base delle stime effettuate su tale massa, il nucleo di ossigeno conteneva otto di questi neo-battezzati neutroni, accanto agli otto protoni.

La scoperta di Chadwick battè sul filo di lana la concorrenza d’Oltremanica della figlia di Madama Curie Irène, che aveva costituito un formidabile duo di ricerca insieme al marito Frédéric Joliot. Irène e Frédéric ebbero due volte a portata di mano il Nobel in fisica, avendo effettuato i primi avvistamenti tanto del positrone (l’antiparticella dell’elettrone) come del neutrone. Ogni volta sbagliarono a identificare le loro osservazioni e videro il premio assegnato ad altri. Procedendo caparbi nonostanti le delusioni, nel gennaio del 1934 i Joliot-Curie annunciarono il primo caso di radioattività indotta artificialmente, un risultato che avrebbe avuto immense ripercussioni per la medicina oltre che per la scienza pura. Furono tutti soddisfatti quando, nel 1935, Chadwick ricevette il Nobel per la fisica mentre il premio per la chimica andò alla giovane coppia francese.

I legami autenticamente familiari non si esaurirono certo con i Curie. William Lawrence Bragg, successore di Rutherford come titolare della cattedra Cavendish, aveva condiviso il premio Nobel per la fisica del 1915 con suo padre, William Henry Bragg, per il loro studio ai raggi X della struttura cristallina, Anche il predecessore di Rutherford ebbe un figlio vincitore del Nobel, anche se 31 anni dopo quello attribuito al padre: curiosamente, Joseph John Thomson venne citato per la scoperta della natura particellare dell’elettrone, mentre George Paget Thomson ricevette lo stesso premio per aver dimostrato che l’elettrone è un’onda. I più edotti avranno riconosciuto che questa apparente contraddizione è invece la conferma di uno dei fondamenti della meccanica quantistica: quello secondo il quale un elettrone (nonché un fotone) è al tempo stesso particella e onda, pur essendo possibile rilevare contemporaneamente le due manifestazioni. La natura particellare della radiazione spiega l’effetto fotoelettrico; la natura ondulatoria degli elettroni ha consentito lo sviluppo dei microscopi a breve lunghezza d’onda che portano il loro nome.

Il maggiore responsabile dello sviluppo della teoria del dualismo onda-particella è Nils Bohr, un fisico teorico la cui carriera ha avuto una svolta determinante con il soggiorno a Manchester, presso Rutherford, nel 1912. Un forte legame affettivo era andato formandosi tra l’affermato scienzato e il giovane danese, che in seguito ebbe a parlare di Rutherford come di un secondo padre e chiamò Ernest uno dei suoi figli. Pur avendo cercato più volte di convincere Bohr a unirsi alla propria famiglia professionale, prima a Manchester poi a Cambridge, nessuno riuscì a spezzare il legame tra Bohr e la sua terra natia. Ciò nonostante, i due mantennero un rapporto che affondava le sue radici nel comune interesse per la fisica e nelle loro complementari aree di competenza. Nell’avvicinarsi alla problematica dell’atomo prima e in seguito del nucleo, Rutherford si rivolse a Bohr per essere illuminato sulle questioni teoriche e quest’ultimo guardò a Rutherford per la portata delle sperimentazioni (sebbene nessuno dei due, come attestato dalla copiosa corrispondenza intercorsa, amava astenersi dalla critica delle rispettive conclusioni).

A Copenhagen, Bohr aveva modellato il proprio stile di lavoro su quello di Rutherford, adattandolo allo studio dei problemi teoretici. Come a Cambridge, l’ideale era circondarsi di giovani ricercatori e seguire il loro lavoro a livello quasi quotidiano, continuando a perseguire i propri interessi. A quel fine, Bohr fondò nel 1921 l’Institute for Theoretical Physics. Spingendo il concetto di famiglia addirittura oltre i limiti fissati dal laboratorio di Rutherford, il centro era ospitato in un unico edificio a tre piani comprendente un’aula di lezione e una biblioteca, lo spazio di lavoro dei giovani fisici, una mensa e un appartamento all’ultimo piano per Niels e Margrethe Bohr e i loro bambini. Uno dei bimbi cresciuti in questo ambiente, Aage Bohr, succedette al padre come direttore dell’Istituto di Fisica Teorica e vinse, nel 1975, un premio Nobel tutto suo.

Da questa istituzione emerse la cosiddetta interpretazione di Copenhagen della meccanica quantistica, l’insieme di regole di quella che rappresenta forse la più importante rivoluzione nella fisica del 20esimo secolo.

Zio Emilio trasloca a Berkeley

Mentre accadeva tutto questo, mio padre Angelo si stava affermando come docente di storia antica. Aveva sentito parlare dei grandi progressi della fisica nei primi anni Venti, mentre trascorreva un triennio fuori dall’Italia, un anno a Vienna e due a Monaco di Baviera. Pur non riuscendo a comprendere appieno i risultati ottenuti dai fisici avvertiva l’eccitazione che circondava le varie scoperte e sentiva, con qualche rimpianto, che il futuro apparteneva a loro. Malgrado la sua rispettabile carriera di storico, ritengo che non ci fosse nulla che ammirasse tanto quanto la scienza, in particolare la fisica.

Per primogenitura mio padre era destinato a subentrare nella gestione della cartiera che suo padre possedeva a Tivoli, una bella e antica cittadina nei pressi di Roma. Ma fin dai primi anni non dimostrò alcuna attitudine o inclinazione per questo compito. Fortunatamente, suo fratello leggermente più giovane, Marco, le nutriva entrambe e mio padre si trovò libero di fare qualcos’altro. Dato che per gli ebrei italiani quello accademico rappresentava un chiaro percorso di crescita, non sorprende che anche l’altro fratello minore di mio padre – lo zio Emilio – diventasse professore. A volte penso che i due fratelli, l’uno nato nel 1891, l’altro nel 1905, appartenessero a due diverse generazioni: uno non imparò mai a guidare l’automobile, l’altro fu il primo nel suo gruppo di amici a possederne una. Mi rendo tuttavia anche conto di quanto fossero simili e so che malgrado le loro differenze, ognuno conservava un vivo interesse nei confronti del lavoro dell’altro.

Sospetto che mio padre ritenesse in un certo senso di aver fallito due volte, la prima evitando la responsabilità della direzione della cartiera paterna e la seconda non riuscendo a diventare uno scienziato. Ma forse pensava di poter recuperare in parte quanto aveva perduto facendo in modo che i suoi figli diventassero fisici. E lo diventarono entrambi. Ignoro quale messaggio avesse trasmesso a mio fratello, ma quando fui adolescente mi indirizzò verso quel futuro in termini per nulla incerti. Secondo lui, la fisica teorica era la miglior professione possibile, perché, diceva, «sarai in grado di distinguere la ragione dal torto e non dovrai parlare con nessuno se non vorrai farlo». Non sono così sicuro che avesse ragione su entrambi i punti, ma io seguii la sua direttiva e non lo rimpiango. Ma sto andando troppo oltre.

Sebbene mio padre fosse già tifoso della fisica, le novità che arrivavano da suo fratello alla fine degli anni 1920 diedero il tocco finale alla sua passione per l’argomento. Emilio era entrato all’Università di Roma come studente di ingegneria e probabilmente avrebbe proseguito lungo quel cammino se la sua vita non fosse cambiata nei primi mesi del 1927, mentre era sul punto di compiere i 22 anni. Un suo collega di università, figlio di un matematico, disse a Emilio che un presunto genio chiamato Enrico Fermi era appena stato selezionato, ad appena 26 anni (un’età inaudita per una nomina nell’ambiente romano), per una nuova cattedra di fisica teorica. Inoltre, poiché evidentemente non esistevano a Roma studenti interessati alla fisica, Fermi era alla ricerca di reclute. Mio zio e il suo buon amico Edoardo Amaldi, successivamente guida della fisica italiana del dopoguerra, furono i primi a rispondere all’appello.

I successivi exploit del nascente Gruppo di Roma furono notevoli in termini assoluti ma di importanza ben maggiore per l’Italia, che correttamente sentiva di essere in ritardo rispetto ai suoi vicini settentrionali nel campo della ricerca scientifica. Gli italiani sono rimasti orgogliosi dei risultati ottenuti e ancora oggi Fermi è considerato come l’unico autentico genio della fisica nato in Italia nel XX secolo. Per molti versi fu anche l’unico fisico di questo secolo, a livello mondiale, ad aver raggiunto il vertice della grandezza tanto come teorico che come sperimentale.

La precoce fama di Fermi poggiava sui suoi successi di teorico e forse più notoriamente sulla sua spiegazione di un mistero di vecchia data: il decadimento nucleare legato alla emissione di un elettrone. Questo fenomeno sembrava violare il fondamentale principio fisico della conservazione dell’energia. Com’era inoltre possibile che un elettrone fosse emesso dal nucleo, dove presumibilmente non avrebbero dovuto esserci elettroni? Alla fine del 1933, Fermi era partito per una vacanza sugli sci insieme ad alcuni componenti del suo gruppo. Li riunì tutti nella sua stanza d’albergo e, come ricorda mio zio, disse loro che aveva risolto il problema. Si trattava probabilmente del lavoro più importante da lui concluso fino a quel momento, disse, e forse il più significativo che avrebbe mai prodotto. Attingendo a una idea di Wolfgang Pauli, Fermi cominciò a spiegare la propria intuizione, dimostrando loro come un particolare tipo di interazione avrebbe consentito a un neutrone di decadere in un protone, un elettrone e una particella molto leggera – non ancora osservata – ma priva di carica elettrica. Le ultime due sarebbero fuoriuscite dal nucleo simultaneamente, con la particella neutra incaricata di portare con sé l’energia apparentemente mancante. Per distinguere la nuova particella dal massivo neutrone, Fermi l’aveva battezzata neutrino.

Anche l’azione più notevole di Fermi fisico sperimentale era iniziata verso la fine del 1933, quando si era reso conto che la recente scoperta del neutrone poteva fornire i mezzi per ottenere un nuovo tipo di proiettile in sperimentazioni come quelle effettuate da Rutherford. I protoni o particelle alfa utilizzati fino a quel momento dovevano avere una energia piuttosto elevata per penetrare all’interno del nucleo, perché il bersaglio elettricamente carico e il proiettile stesso si respingevano. Un neutrone al contrario – anche se piuttosto lento – poteva farsi liberamente strada all’interno del nucleo, perché era privo di carica elettrica. Fermi, il suo vecchio amico Franco Rasetti e alcuni assistenti – inclusi, naturalmente, Amaldi e mio zio – avviarono rapidamente una analisi pluriennale di queste reazioni, producendo numerose e importanti scoperte sul funzionamento del nucleo.

La loro impresa giunse bruscamente a termine quando l’Italia approvò le leggi razziali nel 1938. Fermi, resosi conto che la sua famiglia era in pericolo (sua moglie, Laura, era ebrea), partì per gli Stati Uniti nel dicembre del 1938, salpando da Stoccolma, dove aveva appena ricevuto il premio Nobel in riconoscimento del suo pionieristico lavoro nel campo della dispersione neutronica. Il suo gruppo presso l’Università di Roma si dissolse.

Mentre Fermi stava lasciando l’Italia, due chimici tedeschi, Otto Hahn e Fritz Strassmann, scoprirono che, bombardando l’uranio con neutroni, si verificava un fenomeno curioso. Lise Meitner, vecchia collaboratrice di Hahn, costretta anche lei a fuggire dalla Germania alcuni mesi prima in quanto ebrea, contribuì a spiegare quella che si sarebbe rivelata una scoperta cruciale. Durante una passeggiata nel giorno della vigilia di Natale di quell’anno, insieme al nipote fisico Otto Frisch (ancora una questione di famiglia), si rese conto che probabilmente i nuclei di uranio si erano divisi in due parti assorbendo un neutrone, processo che doveva necessariamente portare a un abbondante rilascio di energia. Due settimane più tardi, Frisch aveva coniato il termine di fissione nucleare per descrivere ciò che si era verificato nel corso dell’esperimento di Hahn-Strassmann.

Divenne subito chiaro anche che, se nel corso della fissione fossero stati rilasciati dei neutroni auggiuntivi, si sarebbe verificata una reazione a catena. Il primo evento controllato di questo tipo, sotto la guida di Fermi, ebbe luogo presso i campi di squash dell’Università di Chicago nel 1942. Subito dopo, Fermi e molti altri, tra cui mio zio, si trasferirono a Los Alamos per lavorare allo sviluppo di una reazione a catena su scala molto più grande: la bomba atomica.

La mia famiglia lasciò l’Italia subito dopo quella di Fermi, nel nostro caso con l’intenzione dichiarata di visitare la Fiera mondiale di New York del 1939. Il mio fratellino di sette anni avrebbe potuto trarre vantaggio dall’esperienza, suggerì educatamente il console americano di Firenze quando presentammo la richiesta per il visto, ma non era forse un po’ troppo giovane? Mio padre rispose che a quei tempi i bambini ebrei cominciavano a interessarsi di questi eventi in età molto precoce. Per fortuna, il console – conoscendo perfettamente la nostra intenzione di rimanere negli Stati Uniti se si fosse presentata la minima possibilità – era fornito di molto senso dell’umorismo e di una abbondante dose di comprensione.

Emilio lasciò l’Italia nell’estate del 1938. Il suo esodo lo portò a Berkeley, in California, un luogo che aveva visitato nell’estate di due anni prima. Stava scoprendo con gratitudine che la famiglia dei fisici era in rapida crescita dall’altro lato dell’Atlantico e pronta ad accogliere i rifugiati dall’Europa. Il Radiation Laboratori di Ernest Lawrence, a Berkeley, stava per soppiantare il Cavendish di Cambridge come principale struttura mondiale per la ricerca nella fisica nucleare. In certo modo Lawrence era un pioniere come Rutherford. Uno era cresciuto in Nuova Zelanda come figlio di immigrati e aveva frequentato il locale Canterbury College. L’altro, nipote di immigrati, venne educato in South Dakota e studiò all’università di quello stato. Entrambi furono leader forti e motivati nel corso della loro successiva carriera, ma i loro obiettivi e stili erano diversi. Rutherford apprezzava gli esperimenti poco costosi, che potevano occupare la superficie di un tavolo. Lawrence, entusiasta raccoglitore di fondi e imprenditore, era interessato a costruire ciclotroni sempre più grandi e efficienti, macchine capaci di accelerare le particelle fino a livelli energetici assai più elevati di quelli raggiungibili nel laboratorio di Rutherford. Nel realizzare il suo sogno Lawrence fece ampiamente leva sull’ingegnosità dell’America e sulla sua nuova potenza economica.

Rutherford puntava sulla costruzione dei dispositivi richiesti dalla fisica. La filosofia di Lawrence era diversa: costruisci una macchina e la fisica seguirà. Fu un punto decisivo nella parabola della fisica del XX secolo. Non sarebbe più stato possibile per un singolo gruppo di individui mettersi insieme e raccogliere le apparecchiature necessarie per gli esperimenti che avevano in mente. Era iniziata l’era della grande fisica.

Chadwick aveva scoperto il neutrone nel febbraio del 1932. Due mesi dopo John Cockroft e Ernest Walton, dietro incoraggiamento dello stesso Rutherford e di George Gamow, protetto di Bohr, riuscirono a ottenere la disintegrazione del nucleo bombardando nuclei di litio con protoni accelerati. Sarebbe stato l’ultimo esperimento dei vecchi Cavendish Labs a essere coronato da un premio Nobel. Nel giro di alcuni mesi, Lawrence aveva replicato i loro risultati sul suo ciclotrone, procedendo subito oltre. Nel 1939, l’anno in cui gli fu conferito il Nobel per i suoi successi nella realizzazione di quell’apparato, Lawrence ne pianificava la quarta e più grande generazione, equipaggiata con una camera di quattro metri e mezzo e un magnete pesante qualche migliaio di tonnellate. Il definitivo successore, il Bevatron, entrò in funzione nel 1954. Il nome derivava dalla capacità di accelerare le particelle a energie di miliardi di elettronvolt, mille volte più della soglia raggiunta dal primo ciclotrone. La scoperta nell’anno successivo dell’antiprotone, grazie alle collisioni ad alta energia rese possibili dal Bevatron, fu il primo sensazionale successo del nuovo apparato (e la motivazione del premio Nobel di zio Emilio).

Eppure, l’epoca dello splendore della fisica di Berkeley sarebbe presto terminata, proprio come era terminata quella dei Cavendish. Sondare la struttura dei neutroni e dei protoni avrebbe richiesto fasci di particelle a energie ancora più elevate e questo si traduceva in acceleratori ancora più grandi e costosi. Mentre diventava sempre più chiaro che nessuna singola istituzione poteva permettersi di costruire o gestire le nuove macchine, erano già stati formati i primi consorzi per portare avanti i primi progetti. Un gruppo di università sulla costa orientale degli Stati Uniti unì le forze nel 1947 per costruire un acceleratore a Long Island. Nacque così il Cosmotron del Brookhaven National Laboratory, che cominciò a funzionare nel 1952. Restie a farsi superare, e malgrado la guerra le avesse lasciate impoverite, le maggiori nazioni europee svilupparono un loro progetto. Si accordarono nel 1954 per fondare il CERN, l’organizzazione europea per la ricerca nucleare (l’acronimo deriva da Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire) a Ginevra, in Svizzera. Il suo primo acceleratore di particelle divenne operativo nel 1957.

La mia partenza per la Svizzera

Quegli sviluppi erano al centro della mia attenzione mentre stavo decidendo dove utilizzare la borsa di studio biennale postdottorato che mi era stato riconosciuta dalla National Science Foundation alla conclusione della mia tesi di PhD nel 1963. Il CERN sembrava essere una scelta naturale. Un soggiorno da quelle parti mi avrebbe consentito di visitare più spesso i miei genitori e in un certo qual modo di ricostruire i miei legami con un’Europa che mi ero lasciato alle spalle. Presi la mia decisione senza esitare, sebbene il CERN, che doveva ancora annunciare una scoperta importante, sembrava soffrire di un complesso di inferiorità nei confronti dei suoi rivali negli Stati Uniti. Come scoprii al mio arrivo il morale laggiù era alle stelle. Inoltre, il direttore generale del laboratorio, Victor Weisskopf, era una presenza ispiratrice, a me familiare perché aveva insegnato al MIT. Weisskopf, che era arrivato al CERN nel 1961, sembrava rappresentare una mescolanza della grande tradizione della vecchia Europa e del nuovo atteggiamento americano del “si può fare”.

Sebbene avesse solo circa 55 anni, Weisskopf aveva lavorato con scienziati del calibro di Bohr e Pauli nei giorni d’oro della meccanica quantistica e degli inizi della fisica nucleare. Dopo essere sbarcato negli Stati Uniti come immigrato dall’Europa non ancora trentenne, era stato un attivo partecipante del progetto per la bomba atomica e in seguito aveva contribuito a promuovere il MIT come centro per l’insegnamento e la ricerca in fisica. Ora appariva come la persona più adatta per guidare il CERN nella sua transizione verso l’eccellenza internazionale. Weisskopf cercava anche di ricreare, in un ambiente completamente diverso e assai più ampio, parte di quell’atmosfera di cui aveva beneficiato a Copenhagen 25 anni prima. A proposito di Bohr scrive nella sua autobiografia: «Lasciò in me la più profonda delle impressioni. Era il mio padre intellettuale». E Weisskopf provò a infondere un po’ di quello spirito familistico nei giovani scienziati del CERN, con le sue discussioni informali del lunedì pomeriggio, invitandoci nella sua casa di Ginevra e sempre enfatizzando quanto meravigliosa fosse l’impresa in cui eravamo impegnati, quanto eravamo fortunati a lavorare sui grandi e magnifici problemi della fisica.

La scalata al successo non era facile per il CERN e gli Stati Uniti non rimanevano fermi. Con il decisivo potenziamento del 1968 previsto per il National Accelerator Laboratory (ora ribattezzato Fermilab), i fisici americani stavano progettando una macchina capace di accelerare i protoni a energie dieci volte superiori a quelle di Brookhaven, un livello competitivo rispetto a qualsiasi cosa potessero ottenere gli europei. Ma il CERN perserverò e dieci anni dopo il mio arrivo annunciò la sua prima, vera grande scoperta. C’è un vecchio adagio in fisica secondo cui «le scoperte di ieri sono gli attrezzi di oggi e gli scenari del domani». Nel 1933 i fisici erano certi che non sarebbero mai stati in grado di rilevare un neutrino disperso da un’altra particella. Nel 1973 il CERN generava un fascio di neutrini che rendeva possibile studiare i dettagli di una forza appena identificata che agiva su queste particelle e su elettroni e protoni. Era una rivoluzione. Sarebbero trascorsi altri dieci anni prima che il CERN annunciasse trionfalmente l’avvistamento della particella mediatrice di questa forza, comunemente chiamata bosone Z. La sua scoperta era l’ennesimo esempio della dialettica tra teoria e sperimentazione che ha caratterizzato il nostro arco di tempo lungo un secolo. I teorici avevano predetto che il bosone Z avrebbe avuto una massa 90 volte superiore a quella del protone e non avrebbe di conseguenza potuto essere scoperto sin quando le macchine non fossero state in grado di raggiungere le energie necessarie per la sua produzione. Quando, nel 1983, Z spuntò finalmente fuori, con la massa prevista, la scoperta divenne una delle pietre miliari della fondazione di quello che veniva ormai definito il modello standard della fisica delle particelle. Il lungo viaggio iniziato nel 1909 aveva raggiunto il culmine. I costituenti dell’atomo e la natura di tutte le forze tra loro esercitate sembravano finalmente essere stati identificati.

Io allora avevo da tempo abbandonato il CERN. Nell’estate del 1965 era partita la mia nomina a un biennio di postdottorato a Berkeley, ancora una potenza nel mondo della fisica delle alte energie, anche se il suo impatto non era più quello che aveva avuto in passato. Un vantaggio collaterale di questo soggiorno in California fu la conoscenza con mio zio Emilio, allora cattedratico di quella università. Crescendo lo avevo incontrato pochissime volte perché lui e mio padre erano sempre ai ferri corti. Emilio, che non aveva mai goduto della fama di una persona facile con cui convivere, descrive così la loro relazione nella sua autobiografia: «La mia pazienza e tolleranza derivavano in parte dal riguardo che nutrivo per l’acuto intelletto di Angelo, e in parte perché per molti versi sentivo che in una certa misura gli somigliavo». Ciò che personalmente penso è che malgrado la pretesa pazienza e tolleranza di Emilio nessuno di loro fosse un campione di queste due virtù. Trascorrere il tempo con mio zio allora vicino alla pensione, tuttavia, mi offrì una grande visuale sulla evoluzione della fisica nel XX secolo e un’esperienza familiare assolutamente piacevole, distante da tutte quelle rivalità tra fratelli.

Mio padre era uno storico che voleva essere uno scienziato. Ora vedevo Emilio che si rivolgeva alla storia, in parte per prendere in esame gli avvenimenti scientifici di cui era stato testimone e in parte per descrivere le straordinarie personalità che aveva incontrato e con le quali talvolta aveva lavorato. Nel giro di qualche anno aveva scritto Dai raggi X ai quark, una avvincente storia di cento anni di fisica osservati da un protagonista. Lessi il libro (nella sua versione originale italiana) quando apparve la prima volta nel 1976, ma anch’io ero coinvolto con le quotidianità di uno scienziato in carriera per prestarvi troppa attenzione. Divenuto in quel tempo docente alla Università della Pennsylvania e profondamente coinvolto nei misteri del modello standard, ero ritornato al CERN per un anno grazie a una borsa di studio Guggenheim. Gli europei stavano cominciando a parlare della costruzione di un nuovo tipo di acceleratore di particelle, una struttura capace di generare collisioni elettrone-positrone ad altissima energia, considerate ottimali per lo studio del decadimento del bosone Z. Quest’ultimo naturalmente non era ancora stato osservato sperimentalmente, ma la sua scoperta era stata anticipata sulla base di considerazioni teoriche e un eventuale progetto doveva partire subito perché sarebbero occorsi molti anni per costruire un acceleratore di grandi dimensioni. Era quello ormai il modo di operare della fisica delle alte energie: costruire per l’atteso e l’inaspettato. Il LEP, o Large Electron-Positron Collider (Grande Collisore Elettrone-Positrone), venne formalmente approvato ne 1981. La costruzione ebbe inizio nel 1983 e terminò dopo poco più di cinque anni; alla fine degli anni 1980 il LEP, noto anche come “Fabbrica Z”, funzionava a meraviglia.

Ora gli Stati Uniti dovevano agire se volevano rimanere concorrenziali. Nel 1993, il Congresso cancellò la prima risposta data dalla comunità dei fisici americani, il SuperconductingSuperCollider (SuperCollisore Superconducente), dopo una spesa iniziale di 2 miliardi di dollari. Con quella decisione fu chiaro che gli equilibri cominciavano a spostarsi in favore dell’Europa. Trent’anni prima ero ritornato in Europa invidioso del successo degli americani nella costruzione degli acceleratori di particelle. Ora toccava degli americani essere invidiosi. Il completamento del Grande Collisore Adronico ha semplicemente ribadito questo spostamento, anche se tengo a sottolineare che la collocazione europea del collisore non corrisponde alla fine della partecipazione americana alla gestione di macchine come questa. In una era di cooperazione scientifica globale, troviamo individui di ogni nazione impegnati nel garantire il successo degli esperimenti effettuati nei grandi acceleratori. Anzi tutto il nostro settore sostiene giustamente di essere un vero modello di collaborazione internazionale.

Il completamento del Large Hadron Collider e il centesimo anniversario del primo esperimento di scattering effettuato da Rutherford rappresentano una buona opportunità di riflessione sul secolo di incredibili cambiamenti nel campo della fisica delle particelle, dove ci ha portati questa parabola, dove vogliamo andare, e quali sfide ci troveremo ad affrontare.

L’aforisma formulato da Newton, «Se sono riuscito a guardare un po’ avanti è perché ero seduto sulle spalle di giganti», è vero per la fisica di oggi così come lo era per lui. La generazione di Einstein, Planck, Curie, Rutherford e Bohr, i nostri antenati intellettuali, ha gettato le fondamenta per la comprensione dell’atomo. Poi sono venuti i giovani geni dell’inizio del XX secolo, quelli che hanno scoperto la meccanica quantistica, esplorato il nucleo e costruito le nuove macchine. Anche se i confini tendono a confondersi, una nuova generazione, la mia, è emersa sulla scia della Seconda Guerra mondiale. Abbiamo identificato le particelle elementari e le forze esistenti tra loro, unificandole nel modello standard.

è stato un viaggio rimarchevole, ma restano ancora parecchi problemi. Come acquisiscono la loro massa le particelle elementari? Esiste una teoria più completa che spieghi le identità delle particelle e le relazioni tra le forze inglobando anche l’ambiziosa visione einsteiniana della relatività? Molti ritengono che la teoria delle stringhe sia un gigantesco passo in tale direzione, ma non disponiamo ancora di prove conclusive. Sono tutte questioni poste alla nuova generazione che entra oggi nel suo picco di creatività.

Né possiamo omettere dalla nostra storia la consapevolezza che le condizioni fugacemente ricreate dalle collisioni all’interno degli acceleratori alle massime energie imitino quelle che ebbero luogo, per una frazione di microsecondo, immediatamente dopo il Big Bang che contrassegnò l’inizio dell’universo. In virtù di questo sviluppo, che ha già suscitato molto scompiglio, la fisica delle particelle elementari e la cosmologia vedono oggi sempre più frequentemente i loro scopi diventare paralleli. I giovani fisici attuali potranno assistere a una conferenza dedicata allo Spazio interno/Spazio esterno, o studiare un libro intitolato Dai quark al cosmo.

Tale convergenza ha portato anche a una rinascita degli interessi nei confronti dei neutrini, che sembrano giocare un ruolo importante nel nostro universo. I neutrini rappresentano un argomento che mi è diventato prossimo e caro. Oggi discutiamo normalmente di situazioni che Fermi, mio zio e i loro amici non avrebbero potuto immaginare nell’inverno del 1933. La sperimantazione ha rivelato emissioni di neutrini dal nucleo del sole. Sappiamo persino che nell’esplosione susseguente al collasso di una stella molto grande, i neutrini trasportano il 99 percento dell’energia emessa in una unica scarica di dieci secondi di durata. Eppure, a settantacinque anni dalla teoria che postulava l’esistenza del neutrino, ancora non sappiamo quale sia la sua massa. è molto, molto più piccola di quella di un elettrone, ma di quale entità è?

Termino aggiornandovi sulla fine del mio affare di famiglia. Nessuno dei figli di Emilio è diventato fisico, ma uno dei suoi nipoti e uno dei miei nipoti sì. Le mie tre figlie non sono entrate “in azienda”, ma la maggiore ha sposato il figlio di un noto fisico teorico. Pertanto forse, chissà, un nipote porterà avanti la tradizione, anche se non sono certo dell’influenza che due nonni possono avere. I giorni in cui erano i genitori a dire ai figli quale carriera perseguire non ci sono più.

Dopo tutte queste storie, probabilmente non vi stupirà sapere che ho sposato la figlia di un fisico, Herman Hoerlin. So che, quando mia moglie Bettina gli parlò di me, si lesse American Men and Women of Science (Uomini e donne di scienza in America) prima di dare la sua approvazione. Fortunatamente passai l’esame. Infine, ho acquisito un cognato fisico quindici anni fa, quando la sorella di Bettina, Duscha, ha conosciuto, innamorandosi, un vedovo austriaco di mezza età, sposato subito dopo. Si trattava niente di meno che di Viki Weisskopf, l’idolo della mia giovinezza al MIT e al CERN. Sulle prime ero piuttosto bloccato in sua presenza, ma poi mi sono reso conto che sarebbe stato okay. Ormai faceva parte della “famiglia”.

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