Dalle tecnologie emergenti una riflessione per l’Italia

di Alessandro Ovi

Scriveva Nicholas Negroponte, presentando le dieci tecnologie emergenti proposte da «Technology Review» qualche anno fa: “Uno dei fondamenti di un buon sistema di innovazione è la diversità…Credenze condivise e ben radicate, norme largamente diffuse, sono tutti nemici delle nuove idee…una cultura molto eterogenea invece incoraggia l’innovazione per merito di coloro che hanno la capacità di guardare ogni cosa da punti di vista differenti”.

Non è una affermazione banale perché contrasta con qualunque concetto di pianificazione del processo innovativo.

Una affermazione che lascia anche la valutazione delle tecnologie emergenti presentate quest’anno assai più all’intuizione delle capacità trasgressive di ogni singola idea che non a una razionale, ma forse troppo precoce, previsione dell’impatto sulle preferenze e sui comportamenti di utenti e consumatori e quindi sul mercato.

Solo in questa chiave è possibile tentare di prevedere cosa veramente avrà successo tra le dieci proposte di «Technology Review» per il 2005, ricordando bene che esse sono già di per sé la scrematura di un numero di gran lunga superiore di candidati alla definizione di “emergenti”.

Come nelle precedenti edizioni, i filoni tecnologici interessati sono tre : Nano, Bio, Info, ovvero il filone che lavora ai livelli dell’ infinitamente piccolo della materia non vivente, quello che penetra nei meccanismi più profondi della materia vivente e quello che tramite il “digitale” integra in una rete sempre più fitta e più grande elaborazione dei dati, memoria, informazione e comunicazione.

Ciò che colpisce è che, mentre in passato il maggior livello di stupore pareva nascere dal settore Bio con tutte le “magie” della manipolazione del DNA e delle cellule viventi, quest’anno si è colpiti dalla crescente pervasività delle nanotecnologie.

Per quanto riguarda il mondo Info, dopo gli straordinari sviluppi degli scorsi anni di Internet e di tutto ciò che a Internet è legato, desta un certo stupore che la sorpresa e la attenzione più grandi siano suscitate da una tecnologia che non offre una speranza, ma prospetta una grave minaccia: quella dei “virus” nelle reti dei telefoni cellulari.

Grazie alla natura stessa delle reti dei telefoni mobili stanno nascendo infatti tecnologie in grado di diffondere virus con livelli di contagio prima difficili da immaginare.

Ma il mondo Info in un certo senso ricompare come utente principale di tecnologia emergente “positiva” quando si analizza il settore Nano.

Perché due dei tre esempi di nanotecnologia, ovvero la fotonica del silicio e i nanotubi per memorie ad alta densità hanno a che vedere con l’accelerazione del flusso dei dati e con la capacità di immagazzinarli e portano nuovi importantissime prestazioni ai componenti del mondo Info.

Tecnologie rivoluzionarie la cui probabilità di successo è aumentata dal fatto che sono in grado di offrire un rilevante balzo in avanti a un settore che ha già corso velocemente per tanti anni e che pareva destinato ormai solo a miglioramenti incrementali .

Anche il terzo esempio, quello dei fili quantici per la tramissione di energia elettrica, può offrire lo stesso risultato, quello di uscire dai miglioramenti incrementali per offrirne uno realmente rivoluzionario.

La cosa rilevante di tutti e tre questi casi è la loro dipendenza diretta da attività di ricerca di base molto profonda.

Attività nate, finanziate e sviluppate sostanzialmente solo per accrescere la conoscenza della fisica di carbonio e silicio e non con obiettivi industriali .

Strumentale a questa linea di lavoro si pone un’altra delle tecnologie emergenti, ovvero la microscopia a risonanza magnetica che viene sviluppata proprio allo scopo di fornire ai ricercatori la possibilità di avere immagini tridimensionali del “nano-mondo”, e quindi nuove e più potenti capacità di approfondirne la conoscenza.

Lo spunto da cui si è partiti in questa analisi alla ricerca del meglio tra ciò che «Technology Review» definisce emergente, è quindi, oltre alla necessità di una grande dose di anticonformismo e di pensiero laterale, anche quello del valore della conoscenza scientifica in quanto tale .

Per voler completare il quadro, quindi, non si può fare a meno di osservare con attenzione anche il caso della modificazione del metabolismo dei batteri per farne di loro vere e proprie “fabbriche di farmaci”.

Pare qualcosa di “già sentito”, ma, se si analizza in profondità il livello di conoscenza dei meccanismi biologici necessario, si vede che anche qui, prima di arrivare al passaggio alla nuova tecnologia, lo sforzo di ricerca di base deve essere stato gigantesco, così come quello di mettere assieme competenze nuove provenienti da ambienti di ricerca diversi.

Il saper convertire la ricerca di base in tecnologia, e quindi in innovazione, è uno dei grandi punti di forza delle istituzioni scientifiche americane e purtroppo è ancora tanto debole, quasi inesistente, nell’ambiente italiano.

Una debolezza che deve essere analizzata e compresa in tutti i suoi aspetti perché si possano trovare i rimedi.

Il passaggio dal “laboratorio all’innovazione” infatti è un processo che ha bisogno di protagonisti, infrastrutture e tipi di risorse diverse.

Prima di tutto è necessario un ottimo ambiente di ricerca, con un buon finanziamento di base per risorse umane e infrastrutture .

Pe ottenere ciò potrebbe apparire sufficiente destinare maggiori fondi all’università e alle istituzioni quali CNR ed ENEA.

Ma spendere di più, anche se certamente necessario, non sarebbe certo la soluzione del problema.

Serve anche una grande flessibilità sia nell’acquisizione di fondi privati per temi specifici sia nel modo in cui gli stessi possono essere spesi.

è molto importante, a questo proposito, poter remunerare non solo ricercatori in carriera, ma anche dottorandi e studenti interessati precocemente a destinare alla ricerca parte del loro tempo di apprendimento.

Non bisogna mai dimenticare il ruolo fondamentale svolto da questi giovani e giovanissimi nelle strutture di ricerca delle grandi università americane che competono apertamente per attirare i talenti migliori fin dall’inizio dei loro studi.

Si tratta di uno stadio che richiede, da noi, modifiche al modo di lavorare della ricerca pubblica, forse non facili e immediate, ma assolutamente necessarie.

Esse contribuirebbero a far diventare più snello e responsabile il lavoro di ricerca e sviluppo, senza disperdere il patrimonio dei nostri giovani talenti che comunque dall’università dovranno sempre passare.

Una prima conseguenza sarebbe anche quella di rendere appetibile agli investimenti privati questo ambiente rinnovato.

è indispensabile infine che si facciano avanti figure nuove di imprenditori capaci di comprendere il valore delle tecnologie emergenti, di finanziarne lo sviluppo e organizzarne la trasformazione in prodotti con un valore di mercato.

Non c’è innovazione se non c’è impresa. La ricerca da sola non basta.

Anzi, come dice Elserino Piol, uno dei pochi italiani che si stanno impegnando a far nascere nuove imprese dai laboratori, “se è vero che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai generali, è altrettanto vero che l’innovazione è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai ricercatori”.

Alla base delle startup di successo d’oltre oceano non troviamo mai un ricercatore solo, ma sempre anche un imprenditore che capisce il valore dell’innovazione.

Il vero problema quindi è: dove sono i nostri imprenditori dell’innovazione tecnologica? Pare siano scomparsi o come minimo ibernati.

Tra le prime società per crescita negli Stati Uniti la grandissima maggioranza opera partendo dai settori delle tecnologie emergenti, mentre non ne troviamo praticamente nessuna nel panorama italiano (eppure, a livello di ricerca di base, negli gli stessi settori vi sono presenze di qualità anche nei laboratori, per lo più pubblici, italiani. Pensiamo solo, a titolo di esempio, a quanto si sta facendo sulle cellule staminali all’Università di Genova o al San Raffaele a Milano, nella microelettronica a Catania o nell’ICT a Torino).

Il controllo di queste società a grande crescita nelle tecnologie emergenti non è quasi mai dello scienziato o del ricercatore da cui sono nate, che spesso è solo proprietario di una piccola quota.

Il controllo dell’azienda è nelle mani dell’imprenditore e di chi lo ha finanziato, perché, passando dallo stadio di idea a quello di prodotto, le risorse finanziarie necessarie alla crescita diluiscono la quota di proprietà iniziale del ricercatore che al massimo resta nella nuova società col ruolo di “consigliere scientifico”.

è diffusa, cioè, negli ambienti di ricerca che non vogliono solo produrre conoscenza (cosa per altro nobilissima), ma anche innovazione, la consapevolezza di una forte complementarietà tra ricercatore e imprenditore e della specificità dei rispettivi ruoli.

Allo stesso modo è comunemente accettato un atteggiamento non punitivo a proposito di sprechi e fallimenti.

Da noi non è così e bisogna fare uno sforzo per cambiare. Vediamo perché. Finanziare lo sviluppo di una idea richiede un rapporto di fiducia, soprattutto personale, tra chi mette le risorse e chi le usa. Richiede la consapevolezza condivisa che si sta facendo assieme una scommessa, per vincere la quale sono indispensabili due elementi. Il primo è un buon livello di discrezionalità nell’impegno delle risorse, sia per retribuire persone di fiducia di chi guida la ricerca sia per acquisire i mezzi e i servizi necessari a procedere. Il secondo è la preventiva accettazione del fatto che la scommessa può essere persa e che il tempo e il denaro impiegati possono alla fine sembrare uno spreco. In realtà non saranno stati uno spreco per il sistema nel suo complesso, perché sono parte vitale del proceso innovativo che richiede tante idee morte prima che una viva e prosperi.

Si dice che la ricerca di base costi tanto, renda poco e sia quindi inefficiente; ma, citando ancora Negroponte: “Quando la ricerca si unisce al sapere e alla voglia di “fare”, si possono affrontare rischi anche molto grandi e la generazione delle idee può essere meno legata a criteri di efficienza. Prima o poi il risultato arriva comunque”.

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