La lotta online all’ISIS

Lo Stato Islamico è un fenomeno mediatico tanto quanto militare. Opporvisi richiederà tattiche migliori sul campo di battaglia dei social media.

di David Talbot

I due uomini inviavano messaggi da una parte del paese all’altra. “Sì, lo stato Islamico era una fantasia nel 2004, ed ora guardalo. Gli Stati Uniti stessi erano una fantasia nel 1776, e guardali ora,” scriveva uno dei due su Twitter dalla Virginia all’amico telematico in Oregon. L’uomo in Virginia, munito di numerose identità su Twitter, una delle quali composta anche della parola “Jihadi”, aveva ossessivamente seguito video prodotti dallo Stato Islamico, altrimenti noto come ISIS: brutalità e propaganda jihadista, tradotti in inglese come in altre lingue. Nella sua più recente conversazione progettava di viaggiare in Siria e formare una milizia in Virginia. “Washington ha sconfitto un impero con il 3 percento della popolazione. Io posso farlo con l’1 percento”.

Il suo corrispondente dall’Oregon era Paul Dietrich, programmatore e attivista digitale incappato in conversazioni jihadiste su twitter per curiosità. Allarmato, fece ciò che pochi stanno facendo: cercò di intervenire con un individuo che mostrava segni di adesione alle posizioni radicali promosse dalla campagna dell’ISIS sui social media. Dietrich ascoltò le lamentele dell’altro, offrì del buon senso e suggerì la ricerca di supporto psicologico professionale. E poi, una notte, chiamò l’uomo della Virginia “stupido.”

“In che senso sarei stupido?” si sentì chiedere.

“Lascia che ti faccia un elenco. Sei un jihadista, in America, che vuole raccogliere una milizia, e pensi di poter vincere,” scrisse Dietrich. “Ferma. Questa. Follia. Finché. Sei. In . Tempo.”

L’uomo della Virginia, almeno, parlava. “Ci penserò.”

Internet è stato usato da gruppi estremisti già in passato, e da tempo immemore i cittadini di un paese lasciano la propria casa per combattere i nemici della patria. L’ISIS si distingue per la maestria che dimostra nell’uso della propaganda e del reclutamento in rete. Ha dimostrato una capacità ineguagliata nel fare uso di tecnologie del 21° secolo per promuovere ideologie di stampo medievale incentrate su sterminio di massa, tortura, stupro, schiavitù e distruzione di beni culturali. Le tattiche dell’ISIS hanno adescato 25.000 stranieri nella lotta in Siria ed Iraq, 4.500 dei quali provenienti da Europa e Nord America, secondo un rapporto del governo U.S.A rilasciato recentemente. “La campagna ISIS sui social-media rappresenta una chiave di volta critica nel mobilizzare individui verso la causa estremista”, spiega Amarnath Amarasingam, ricercatore presso la University of Waterloo, corresponsabile di uno studio sui combattenti occidentali in Siria. “Si osservano combattenti stranieri provenienti da 80-90 paesi diversi. Da un punto di vista di numeri e diversità, è impressionante”. Nelle parole di Victoria Grand, policy director di Google, in occasione di una conferenza di giugno: “In questo momento ISIS è virale sui social media, ed i punti di vista di contrasto sono ben lungi dall’essere in grado di opporsi al suo dilagare.”

A tutti gli effetti, la risposta tecnologica volta a contenere il reclutamento non sta dando grandi risultati. Società di rete chiudono account e cancellano video splatter; condividono le informazioni con le autorità. Agenzie del governo rispondono su Twitter e finanziano generici tentativi di contatto con le comunità islamiche. Svariate organizzazioni non governative istruiscono gli esponenti di spicco delle comunità, religiosi e non, sulle modalità di rifiuto del messaggio dell’ISIS, oltre a creare siti internet che offrono interpretazioni pacifiche del Corano. Manca un impegno a largo raggio per creare contatti individuali in rete con le persone che stanno accettando i contenuti distribuiti dall’ISIS e portandosi su posizioni sempre più estremiste.

Humera Khan, direttore esecutivo della Muflehun (in arabo: “Coloro che avranno successo”), di Washington, D.C., un think tank preposto alla lotta contro l’estremismo islamico, afferma che persone come lei e Dietrich, intenzionate ad impegnarsi in interventi in rete di questo tipo, si confrontano con numeri scoraggianti. “Possiamo contare le persone impegnate in questo tipo di intervento in sole decine. Non è sufficiente. Già il solo numero di account apertamente a supporto dell’ ISIS è superiore di svariate misure,” racconta Khan. “Per quanto riguarda l’attività di reclutamento, l’ISIS è una delle voci più forti. Hanno un messaggio sexy, e non c’è praticamente alcuna risposta efficace. La risposta governativa non è interattiva. Si tratta di un’emissione a senso unico, senza dialogo.”

Invertire questa onda richiederà, tra le altre cose, azioni sullo stampo di quanto fatto da Khan e Dietrich. Servono strumenti più raffinati per riconoscere gli individui suscettibili alla persuasione di messaggi estremisti e modalità affidabili per aprire con loro una conversazione. Ad esempio, un think tank londinese dal nome Institute for Strategic Dialogue, ha di recente guidato esperimenti grazie ai quali ha individuato su Facebook soggetti potenzialmente suscettibili al messaggio estremista e provato a indirizzarne 160 altrove. Si è trattato solo di un test, ma ha dimostrato quale forma potrebbe prendere una strategia individuale ad ampio raggio.

I meccanismi di distribuzione
L’ISIS si distingue da precedenti movimenti estremisti islamici radicali.
In primo luogo, ha contratto importanti alleanze per favorire la cattura di territori. Dopo aver fuso fazioni di al-Qaeda con elementi delle agenzie militari ed spionistiche di Saddam Hussein, si è appropriata di due città di rilievo, Raqqa in Siria e Mosul in Iraq — una regione con più di 6 miliardi di abitanti (prima delle recenti migrazioni di massa), importanti giacimenti di petrolio, acqua e grano, nonché istituzioni universitarie.
Di contro, Al-Qaeda, non aveva mai controllato nulla di più di alcuni piccoli territori in paesi come Somalia e Yemen. “Non si era mai visto un movimento jihadista acquisire il tipo di territorio e di ricchezza che potesse permettere l’impianto di strutture simil-governative e l’implemento di campagne di pubbliche relazioni,” dichiara Nico Prucha, ricercatore della University of Vienna e membro dell’International Center for the Study of Radicalization presso il King’s College di Londra.

In secondo luogo, l’ISIS differisce da altri gruppi jihadisti nell’ideologia. Pochi giorni dopo la conquista di Mosul nel 2014, un uomo dal viso austero, vestito di una tunica nera, è salito per le scale di una moschea ed ha dichiarato proprio il maggiore titolo possibile: “Califfo,” guida di tutti i mussulmani, successore del Profeta Maometto, intenzionato a raccogliere tutte le terre mussulmane in un califfato su stampo di quelli che emersero e caddero nel primo millennio. Costui era Abu Bakr al-Baghdadi, capo dell’ISIS. Con grande intelligenza, ha ripreso un’idea cara a molti mussulmani: la restaurazione del califfato.

“In verità, abbiamo a che fare con un movimento social nel vero senso della parola—non si tratta più solo di un gruppo a cui alcuni individui desiderano unirsi,” racconta Mubin Shaikh, ex estremista di Toronto. Shaikh ha operato in incognito per i servizi segreti canadesi su svariate investigazioni, una delle quali lo ha portato ad infiltrare il “Toronto 18,” un gruppo di giovani mussulmani investiti del compito di pianificare attacchi terroristici per il 2006. Attualmente, è consigliere di agenzie antiterroristiche degli stati uniti U.S. e si impegna ad intervenire in rete per impedire che giovani della comunità islamica di Toronto, la più ampia del Nord America, finiscano per passare a posizioni radicali.

“Ci sarà chi vorrà leggere in questa situazione un’analogia con i combattenti che si univano alla guerra civile ispanica,” spiega Shaikh. “Posso capire perché, ma non credo che sia effettivamente applicabile. La situazione è veramente peculiare al contesto islamico. Il mondo islamico—in particolare quello giovanile—viene da tempo condizionato all’idea di una restaurazione del califfato. L’idea originaria è quella secondo cui i mussulmani vivano umiliati da che non c’è più un califfo. Si tratta del sogno di recuperare le glorie del passato.”

In terzo luogo, l’ISIS è emerso in seguito ad importanti cambiamenti tecnologici. Pensiamo al primo video di una decapitazione da parte di terroristi fatto circolare nel 2004. Secondo la CIA, in questo video sfocato e terribile vediamo probabilmente Abu Musab al-Zarqawi (il leader della fazione di al-Qaeda in Iraq, poi tramuta nel predecessore dell’ISIS) che trucida Nick Berg, un imprenditore radiofonico della Pennsylvania. Caricare questo video su di un forum internet jihadista deve essere stato laborioso. Non c’erano né YouTube nè Twitter offrivano l’istantanea condivisione o connessione di video. Facebook era ancora un giocattolo da dormitorio. Pochi possedevano uno smartphone. Al-Qaeda fece uso di nuove organizzazioni quali Al Jazeera per lanciare video e dichiarazioni. Oggi però, la distribuzione dei dispositivi, velocità della rete e abbondanza di account sui social media, imboccano per direttissima un’audience potenziale di giovani di dimensioni spettacolari. Un recente studio ha calcolato che l’età media tra il miliardo e sei di mussulmani al mondo è di 23 anni.

Il direttore intellettuale delle operazioni mediatiche dell’ISIS è un siriano di 36 anni di nome Abu Amr al-Shami, già a capo dell’ISIS ad Aleppo, secondo il gruppo Soufan, un’agenzia di consulenza che vede tra i propri responsabili ex ufficiali dell’antiterrorismo statunitense e britannico. L’azione di propaganda include una moderna rivista online titolata Dabiq. Una divisione delle operazioni chiamata Al Hayat Media si rivolge in particolar modo al pubblico occidentale. È gestita da un rapper tedesco noto a suo tempo come Deso Dogg, ora Abu Talha al-Almani, secondo le ricerche del Middle East Media Research Institute. Tra le sue opere ci sono video di reclutamento, chiamati Mujatweets, che mostrano combattenti intenti a distribuire gelati ai bambini.

La più importante campagna sui social media è supportata da simpatizzanti in Medio Oriente, Nord Africa, e non solo, ch producono i propri contenuti in svariate lingue. Questo approccio decentralizzato rende difficile perseguire i produttori del materiale. “Agiscono coperti da anonimato da ovunque risiedano,” spiega J. M. Berger, membro non residente del Project on U.S. Relations with the Islamic World presso il Brookings Institution, nonché coautore di uno studio intitolato “Il censimentodell’ISIS su Twitter”.

La propaganda abbraccia ben più dei soli video realistici; fa riferimento a lamentele nazionali, locali e tribali. Ad esempio, il 3 di febbraio, fecero la loro comparsa video di soldati ISIS che costringevano un pilota militare giordano in una gabbia di ferro, per poi bruciarlo vivo. I media occidentali si concentrarono sulla ferocia dell’atto, ma il fuoco viene appiccato dopo 18 minuti di registrazione. La maggior parte del video motiva dettagliatamente l’atto, formulando connessioni tra il presidente Obama ed i capi di governo giordani; tra armamenti di origine statunitense ed attacchi aerei giordani contro l’ISIS; nonché tra questi attacchi ed i morti e feriti sul terreno di Raqqa. Secondo la logica di “un occhio per un occhio,” l’ISIS si ritiene giustificato dell’esecuzione del pilota militare che ha pure uno scopo politico preciso, spiega Prucha. Intendeva incunearsi nei rapporti tra re Abdullah della Giordania, vicino allo zio di al-Kasasbeh, ed i numerosi esuli rifugiatisi in quel paese a causa di quegli stessi attacchi aerei. Per buona misura, il testo era tradotto in francese, inglese e russo.

La propaganda lanciata su Dabiq, la rivista dell’ISIS, include articoli mirati a determinati segmenti della popolazione. I tentativi di reclutamento delle donne, ad esempio, si incentrano su temi di sorellanza ed appartenenza, enfatizzando il ruolo del matrimonio e della famiglia sotto il ‘marchio del califfato’,” per usare le parole di Sasha Havlicek, fondatrice dell’Institute for Strategic Dialogue. All’azione di corteggiamento delle reclute, si affianca l’opera di convincimento individuale dei simpatizzanti con chat che vengono spesso indirizzate su canali perfettamente criptati.

Il tentativo di capire come possa l’ISIS avere tanta maestria in queste operazioni, si arriva ad una semplice spiegazione. Le persone che lo stanno facendo sono cresciute con gli strumenti in uso. “Quando dichiariamo che ‘I terroristi stanno facendo uso dei social media,’ sembra terribile, ma se la vediamo dal punto di vista di ‘gioventù che fa uso dei social media,’ diviene più comprensibile,” spiega Khan. “Certo che usano i social media! Stanno facendo la stessa cosa che fanno tutti i giovani ovunque.”

La scalata
Vent’anni fa, Shaikh, ora un padre di famiglia quarantenne con 5 figli, era un insoddisfatto punk sulla scena dei festini di Toronto interessato all’estremismo islamico. È quindi in grado di capire il pubblico prescelto dall’ISIS. Come fanno Dietrich e Khan, si impegna a volte nel faticoso compito di relazionarsi in rete con soggetti potenzialmente sensibili.

Ad un certo punto, con la speranza di attrarre possibili simpatizzanti estremisti, creò un account Twitter, “@CaliphateCop” (che poi cancellò. Un altro cliente di Twitter ne fa uso ora), includendo nel proprio profilo una citazione tratta dal Corano. Ne faceva uso per inserirsi in conversazioni dove poteva relazionarsi con individui che si professavano simpatizzanti di cause estremiste. Uno di questi, racconta Shaikh, era un sostenitore di al-Qaeda in Siria. “Come puoi dormire la notte sapendo di aver mandato mussulmani in prigione facendo la spia?” scrisse il siriano. Shaikh rispose: “Come puoi dichiararti mussulmano quando accetti l’eccidio casuale di civili? Dove mai hai studiato la tua religione?”

“Allah Al Musta-an!!” (il nostro “oh mio Dio!”) ricevette. “Il Canada ha partecipato alla distruzione dell’emirato islamico, non ci sono tra loro innocenti di questo crimine.”

Shaikh continuò: “Veramente? Gente qualunque, diretta al lavoro, completamente disinteressata alle azioni del proprio governo: consideri questo un obiettivo legittimo?”

Il siriano era altrettanto preparato a razionalizzare il proprio concetto: “Chi è stato il primo islamico a fare uso della catapulta? È stato il Profeta. E sappiamo entrambi che la catapulta non colpisce solo i combattenti tra i nemici.”

La ricerca diretta ai social-media dimostra che messaggi ricevuti da amici e pari hanno un maggiore potere di persuasione rispetto a generiche campagne pubblicitarie. Altre ricerche dimostrano come gruppi di giovani suscettibili a problemi, dalle droghe all’affiliazione in bande, spesso traggono beneficio anche solo da interventi minimi di genitori, coetanei o mentori.

Finora però, i più importanti programmi anti-ISIS non si spingono così in là. Ad esempio, durante l’estate il governo britannico ha lanciato una campagna su Twitter per lanciare messaggi governatori contro l’ISIS. Circa 188 milioni di dollari del governo americano finanziano progetti anti estremisti e programmi comunitari nel mondo, tra cui uno rivolto alla lotta contro il reclutamento nelle prigioni. si stanno pure sviluppando nuove tecnologie sociali. La Affinis Labs, di Arlington, nello stato della Virginia, descrive sé stessa come una incubatrice su modello della Y Combinator per app di stampo islamico. Una di queste è “QuickFiqh,” con cui i giovani possono porre domande da 60 secondi sulla legge islamica e ricevere risposte da 60 secondi da noti studiosi dell’Islam, realizzate in formato di facile condivisione sui social media. Queste azioni sono però mirate ad un pubblico mussulmano ampio non ad individui specifici a rischio di divenire estremisti.

Shaikh ed altri impegnati nell’opera individuale, si dichiarano frustrati perché non hanno modo di sapere se stanno indirizzando i loro sforzi su individui a rischio o già così persi da rendere futili i loro sforzi. Vorrebbero avere anche conferma su quali approcci e messaggi abbiano maggiori possibilità di dare risultati. Questo è il motivo per cui l’Institute for Strategic Dialogue ha deciso quest’anno di sviluppare una strategia di dialogo individuale sistematica. Il gruppo ha cominciato dal reclutare 10 ex estremisti (5 da gruppi di estrema destra, 5 da gruppo jihadisti) nel ruolo di “interventisti.” Ha poi fatto uso di una funzione di Facebook chiamata Graph Search per localizzare individui che, secondo gli interessi da loro elencati, le pagine web linkate, i gruppi di appartenenza, ed altri indicatori, dimostrassero una tendenza a passare all’estremismo. Gli interventisti hanno poi ridotto la lista a 160 persone e fatto uso di una funzione poco nota grazie alla quale si possono inviare messaggi a sconosciuti al costo di 1 dollaro, dando quindi il via ad una conversazione. Secondo i risultati preliminari, la maggioranza dei contattati ha risposto, un dato molto importante. Il 60 percento circa ha accettato un rapporto di dialogo quando il contatto iniziale era caratterizzato da empatia ed assenza di giudizio.

Questo studio, seppur in maniera cruda, ha indicato la via a quella che potrebbe essere un’operazione su larga scala. “I social media sono stati uno strumento della causa estremista, ma non mancano le possibilità di rispondere facendo uso degli stessi strumenti,” dichiara Ross Frenett, a capo dello studio appena descritto. “E’ ora di ottimizzare. E’ ora di decidere di investire su questo fronte.”

Ad oggi, l’ISIS domina la battaglia online. Giovani di ogni paese occidentale continuano a lasciare la loro casa diretti alla battaglia. Qui e là abbiamo piccole vittorie. Khan e Dietrich ci dicono che il giovane in Virginia è entrato in analisi. Seppure noto all’FBI, non è stato incriminato. Già avviato sulla strada del l’estremismo, potrebbe essere in grado di ritornare sui propri passi grazie a poche persone che gli hanno parlato in rete, vis a vis, si potrebbe dire.

(LO)

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