Le lezioni che non abbiamo imparato dall’Ebola

In questa intervista, Christopher Kirchhoff illustra le carenze che hanno caratterizzato la risposta del National Security Council al virus Ebola.

di Konstantin Kakaes

Quali passi ha intrapreso il governo americano di fronte allo scoppio dell’epidemia di Ebola?

Una legge d’emergenza approvata dal Congresso nel dicembre 2014 includeva 1 miliardo di dollari che l’amministrazione ha usato per intraprendere i provvedimenti più urgenti. Molte nazioni in tutto il mondo non avevano le capacità di eseguire test per capire se si è di fronte a un patogeno nuovo o letale. 

Usando quei finanziamenti, abbiamo collaborato con oltre 60 paesi per introdurre capacità di test molto più diffuse per rilevare virus che compaiono per la prima volta. Quindi abbiamo condotto una valutazione paese per paese di quanto fosse efficace la loro risposta alle emergenze e della solidità del loro sistema sanitario pubblico e abbiamo lavorato con ciascun paese per rafforzare le loro capacità di preparazione e risposta.

Abbiamo anche istituito una rete di centri sanitari per il trattamento dell’Ebola: 35 ospedali negli Stati Uniti, oltre a numerosi laboratori designati dal governo federale. Se qualcuno dovesse venire a contatto con Ebola o un altro patogeno altamente letale, non disterebbe più di due ore da un ospedale progettato per curarlo.

Un’altra cosa veramente importante è stata la creazione, verso la fine dell’amministrazione Obama, di un nuovo ufficio alla Casa Bianca chiamato Global Health Security Directorate. Questo nuovo ufficio all’interno del Consiglio di sicurezza nazionale aveva due funzioni. La prima era coordinare la risposta in caso di crisi futura. La seconda consisteva nel favorire cambiamenti strutturali sostanziali in molti dipartimenti e agenzie. Questi erano i tipi di riforme che non sarebbero avvenute da sole, senza il sostegno della Casa Bianca.

Puo dirci qualcosa di più sui cambiamenti strutturali?

Sul fronte interno, malgrado il numero molto limitato di casi di Ebola che abbiamo avuto negli Stati Uniti, sono apparse evidenti gravi lacune nel modo in cui le autorità federali, statali e locali hanno reagito nel complesso. Poiché gli Stati Uniti hanno un sistema federale in cui la maggior parte delle autorità sanitarie pubbliche sono gestite a livello locale, ma il grosso delle risorse si colloca a livello federale, in futuro dovevamo avere un coordinamento più stretto per fornire risposte convincenti.

Sul piano internazionale, abbiamo elaborato strumenti del tutto nuovi per rispondere a un focolaio all’estero. Mai prima d’ora i militari erano stati usati per spalleggiare i soccorritori civili come in Africa occidentale.

Pensa che l’esistenza di un ufficio simile avrebbe fatto una differenza sostanziale rispetto alla diffusione del nuovo coronavirus negli Stati Uniti?

Sì. Il Global Health Security Directorate è stato sciolto a maggio 2018. Ma l’Ebola ci ha insegnato che si pagano prezzi altissimi per l’inazione, perché nel frattempo le epidemie crescono in modo esponenziale. Ogni giorno di ritardo nella risposta significa una curva esponenziale più ripida che rende rapidamente la situazione da gestibile a ingestibile. 

La presenza di un ufficio ben attrezzato con professionisti nelle malattie infettive emergenti sarebbe stata in grado di aiutare il governo degli Stati Uniti a muoversi più agilmente in quei primi giorni cruciali, quando era necessario mobilitarsi per contrastare l’andamento del contagio.

Cosa sarebbe potuto accadere se l’amministrazione Obama non avesse inviato quasi 3.000 militari in Africa occidentale?

Credo che l’epidemia avrebbe continuato a crescere ai ritmi dell’agosto del 2014, quando raddoppiava ogni tre settimane. Sebbene i tre paesi in cui si è concentrata ospitassero  un numero limitato di viaggi internazionali, le comunicazioni stradali con le altre nazioni africane sono numerose. Uno scenario particolarmente preoccupante era la Nigeria, non solo con la megalopoli di Lagos, ma soprattutto nel nord del paese che vedeva in corso un’insurrezione islamica che avrebbe potuto impedire ai soccorritori sanitari internazionali di accedere a coloro che avevano bisogno di cure, il che avrebbe potuto portare l’ebola a diventare una presenza endemica in Africa.

Il ruolo che l’attuale amministrazione ha riservato alla ricerca scientifica ha limitato l’efficacia della risposta del governo degli Stati Uniti?

Penso che sia inevitabile parlare del fatto che il budget del CDC [Centers for Disease Control] è stato significativamente ridotto e che sono stati effettuati tagli drastici alla ricerca e allo sviluppo. Questa politica ha colpito i programmi di fornitura di terapie e vaccini. E in un’emergenza come questa, non è un problema da poco.

Quale ruolo ha avuto il settore privato nel 2014 e cosa si può fare oggi?

Ci sono stati enormi contributi durante l’epidemia di Ebola sia dal settore privato sia dal filone filantropico. Paul Allen ha donato 100 milioni di dollari  per combattere l’Ebola e la sua fondazione ha trasportato in sicurezza persone contagiate dall’Ebola su aeroplani in modo da poter essere curate e isolate. Questa era una capacità che neanche le forze armate statunitensi avevano. Oggi assistiamo alla stessa scena, con la Gates Foundation che ha lanciato kit di test prima che il governo fosse in grado di farlo.

Alla Schmidt Futures, l’organizzazione filantropica per la quale lavoro, pensiamo molto al ruolo che la tecnologia può assolvere. Uno dei progetti che abbiamo già finanziato è l’utilizzo di strumenti di istruzione online per formare le persone all’uso dei ventilatori. Si è scoperto che abbiamo pochissimi ventilatori, ma abbiamo ancora meno personale in grado di gestirli.

Un altro esempio: c’è una grande corsa tra i tecnologi dei paesi occidentali per tracciare i contatti  su smartphone, rispettando la privacy. Ci sono diverse teorie al riguardo. Potrebbe essere uno strumento enormemente potente, in particolare nelle fasi avanzate di un’epidemia, quando si passa da una situazione con trasmissione diffusa del contagio nella comunità a pochi vettori che comunque infettano altri. Proprio come in Ebola, il tracciamento dei contatti è l’unico modo, alla fine di un focolaio, per intervenire con i tempi giusti. Ciò offre ai tecnici una finestra importante per sperimentare diverse capacità che potrebbero essere estremamente importanti se dovessero essere disponibili tra qualche mese.

Secondo Lei, impareremo la  lezione  e saremo in grado di fronteggiare le epidemie in futuro?

Ciò che stiamo vivendo ora sarà difficile da dimenticare. Quindi penso che ci sarà una profonda riflessione su come prevenire situazioni simili in futuro, ma i politici dovranno cambiare il loro modo di agire. A mio parere, il Congresso dovrebbe sfruttare questa opportunità di fare investimenti per migliorare la nostra capacità di risposta alle emergenze. Ciò significa investire negli ospedali, nella produzione di test diagnostici rapidi, nelle infrastrutture sanitarie pubbliche a livello statale e locale e nelle nazioni che non sono adeguatamente attrezzate per affrontare lo scoppio di nuove malattie. E non c’è tempo da perdere.

(rp)

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