Incubazione d’impresa & innovazione: l’esperienza italiana

RIDITT presenta l’incubazione d’impresa quale supporto alla creazione di imprese innovative. L’esempio dell’associazione PNICube.

Uno strumento di fondamentale valore per il trasferimento tecnologico dalla ricerca alle attività produttive è l’incubatore d’impresa, la cui azione è quella di promuovere, supportare e agevolare la nascita e la crescita di nuove imprese, mettendo a disposizione idonei locali e strutture, servizi reali e agevolazioni finanziarie.

Affermatosi negli Stati Uniti alla fine degli anni 1950 e sviluppatosi nei decenni successivi in Europa anche su impulso della Commissione Europea, il fenomeno dell’incubazione si afferma in Italia a metà degli anni 1980 sulla scia dell’iniziativa comunitaria dei BIC (Business Innovation Centers). È però solo dalla fine degli anni 1990 che il sistema d’incubazione italiano inizia a maturare, quando tale modello non è più visto solo come risposta alle crisi industriali o come strumento di sviluppo locale, ma anche come mezzo di valorizzazione dei risultati della ricerca.

Oggi le strutture d’incubazione in Italia sono oltre un centinaio, dislocate sull’intero territorio nazionale. Si è compiuta, almeno in parte, una transizione verso l’incubazione high-tech e le varie reti attivate dagli incubatori sono in grado di dialogare con altri soggetti (gli operatori di finanza innovativa, il mondo del credito, le amministrazioni nazionali e regionali), anche se le sfide per essere al passo con analoghi contesti oltre confine sono ancora numerose.

A livello di amministrazione centrale, i principali attori che hanno contribuito a tale processo di evoluzione sono il Ministero dello Sviluppo Economico, con le misure previste dalla legge 388/00 (agevolazione di progetti di assistenza tecnica relativi alla creazione d’impresa high-tech), i cui due bandi – indetti nel 2001 e nel 2005 – hanno consentito di finanziare 30 progetti d’incubazione, promossi da università e centri di ricerca in ogni parte d’Italia, e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, con la legge 297/99, che ha gettato le basi per regolamentare e sostenere lo sviluppo degli spin-off accademici.

Quanto alle Regioni, esse, anche attraverso il sistema dei Parchi Scientifici e Tecnologici (PST), gestiscono direttamente un numero notevole di incubatori (soprattutto a seguito della presa in carico delle strutture gestite dall’allora Sviluppo Italia), puntando in più casi all’integrazione di programmi e strumenti a supporto della nuova impresa innovativa, affiancando all’azione di incubatori e centri di ricerca la disponibilità di fondi regionali. Inoltre, non si può dimenticare il ruolo svolto nel contesto italiano dal sistema pubblico della ricerca, dal quale prendono origine gli incubatori universitari, nati con l’obiettivo di valorizzare i risultati della ricerca facendo leva sulla gestione della proprietà industriale, il trasferimento tecnologico e la nascita di spin-off. Diversi atenei hanno compreso l’importanza di investire in rapporti collaborativi e si sono quindi costituiti in rete, creando associazioni miranti a promuovere lo scambio di esperienze e aumentare l’impatto delle iniziative sul territorio.

Un esempio in tal senso è dato da PNICube, l’Associazione degli Incubatori e delle Business Plan Competition accademiche italiane, che nasce nel 2003. A farne parte sono inizialmente cinque atenei (i Politecnici di Milano e Torino, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, l’Università di Roma Tor Vergata e l’Università Federico II di Napoli), oggi divenuti trentacinque, con lo scopo di supportare la creazione di spin-off della ricerca, premiando le migliori idee d’impresa, selezionate dalle rispettive università, mediante competizioni quali le Start Cup, business plan competitions tenute, prevalentemente, su base regionale.

Proprio a Loris Nadotti, in qualità di presidente di PNICube – principale osservatorio della filiera dell’imprenditorialità accademica – abbiamo posto alcune domande, al fine di capire più da vicino il significato dell’esperienza e le prospettive future dell’incubazione in Italia.



PNICube è oramai alla nona edizione delle Start Cup: come si è evoluta nel tempo l’iniziativa? Quali i risultati ottenuti?

La prima edizione risale al 2003: da allora tanta strada è stata fatta. Sono ormai 15 le Start Cup locali organizzate con il coinvolgimento di 44 università e la richiesta di adesione anche da parte del CNR.

Ormai il numero di idee che pervengono annualmente si è stabilizzato intorno alle 600-700 unità complessive sul territorio italiano, di cui circa il 10 per cento arrivano in finale per il Premio Nazionale d’Innovazione (PNI). Se in passato si aveva una predominanza di partecipazioni a Nord (Milano e Torino), ora grande vivacità si rileva anche al Sud (Napoli e Palermo), frutto di un’intensa attività di promozione sul territorio. Se poi passiamo a considerare i settori, predominanti risultano le aree ICT, salute ed energia. A fine 2010 le imprese passate per il PNI e legalmente costituite risultavano più di 300, di cui circa il 99 per cento ancora attive, con un fatturato complessivo intorno agli 80 milioni di euro.

La novità dell’edizione di quest’anno è la collaborazione con Telecom Italia per un’iniziativa congiunta tra le due principali business plan competitions nazionali, articolata in due percorsi paralleli dedicati rispettivamente ai progetti di ricerca e ai progetti di impresa, e convergenti nell’evento Working Capital-PNI.Secondo la sua esperienza, com’è cambiato negli anni l’atteggiamento del mondo della ricerca nei confronti dell’imprenditorialità accademica?

Si tratta sicuramente di un rapporto in evoluzione, nel quale si rileva un avvicinamento tra il mondo della ricerca e la sfera imprenditoriale, seppure con ostacoli ancora da superare, soprattutto legati alla ritrosia a lasciare la propria idea nelle mani di altri. L’effettivo salto di qualità si potrà avere quando si consoliderà la consapevolezza che proprio dai risultati provenienti dalla ricerca applicata possono nascere progetti d’impresa di giovani imprenditori, nell’ottica della complementarità tra mondo accademico e mondo imprenditoriale.Quale è l’esperienza di PNICube nella valutazione delle performance di un incubatore? Ritiene ci siano indicatori più significativi di altri?

PNICube non adotta un vero e proprio meccanismo per misurare e valutare le performance degli incubatori; ciò non toglie che un’indicazione – anche informale – di tale aspetto provenga in maniera inequivocabile dal numero e dalla qualità di nuove idee e di business plan che provengono dai vari incubatori che partecipano alle competizioni lanciate da PNICube.

Per quanto riguarda gli indicatori di performance, ritengo che il più significativo sia quello relativo alla capacità di un incubatore di fare nascere imprese legate alla ricerca universitaria, ma al contempo svincolate dalle logiche accademiche e dagli esponenti universitari. Sono infatti dell’idea che se il ruolo del professore è quello di fornire lo spunto e la competenza tecnica, il ruolo dell’incubatore è quello di valorizzarlo nel modo migliore, aprendo la via al mercato e quindi alla commercializzazione dei risultati della ricerca.Guardando al rapporto delle strutture d’incubazione con il mondo industriale, il sistema finanziario e le istituzioni, qual è la sua opinione al riguardo?

Per quanto riguarda le istituzioni, sarebbe opportuno instaurare un rapporto che consenta un maggiore interscambio tra le parti. Le istituzioni non dovrebbero limitarsi a fornire i mezzi finanziari per il sostegno alle strutture d’incubazione. Infatti, queste ultime potrebbero essere – in qualità di attori che operano direttamente sul campo – i sensori sul mercato, vedere cosa accade e sondare le esigenze, svolgere il ruolo di interlocutore attivo delle istituzioni, fornendo a esse dati ed esperienze utili a calibrare nuove misure di intervento.

Sicuramente sarebbe necessario anche intensificare e rendere più efficaci le relazioni con il mondo industriale e il sistema finanziario, coinvolgendoli più da vicino: ascoltarne le richieste e le esigenze è di fondamentale importanza per fare sì che un’idea imprenditoriale si traduca in un’impresa competitiva sul mercato e in grado di attrarre investimenti dall’esterno. Proprio in tale ottica di proficua collaborazione con i due succitati segmenti, già dal 2005 la giuria del PNI è composta da rappresentanti del venture capital e da manager/imprenditori attivi in R&S a livello internazionale: in modo che i vincitori siano scelti non solo per il grado di innovazione e la qualità delle idee, ma soprattutto tenendo conto delle relative prospettive di mercato. La domanda è: «Investirei in questa iniziativa?» e solo se la risposta è positiva ci sono i presupposti perché quell’idea possa diventare impresa.Quale ritiene sia il futuro del fenomeno dell’incubazione in Italia? Quali le sfide e gli orientamenti delle strutture che supportano la creazione di imprese innovative?

Non ho dubbi sul fatto che si debba continuare a investire sull’incubazione d’impresa, quale strumento di rilievo per la creazione di nuove imprese ad alta tecnologia, linfa vitale per un mercato innovativo e competitivo. Sicuramente, l’attuale momento di crisi economica ha comportato la riduzione degli apporti finanziari alla ricerca pubblica e ciò non facilita le attività degli atenei, che sono costretti a operare dei tagli, con possibili ripercussioni anche su strutture quali gli incubatori universitari che da essi dipendono.

È pur vero che gli incubatori non possono dipendere solo ed esclusivamente dal finanziamento pubblico, ma devono essere in grado di autosostenersi anche finanziariamente mediante i servizi erogati e le partecipazioni dirette alle spin-off.Contatti

Prof. Loris Nadotti (Presidente PNICube)

nadotti@unipg.it

http://www.pnicube.it/
Related Posts
Total
0
Share