La rivoluzione 2.0 tra ottimismo e paure

Le tecnologie della comunicazione ci stanno emancipando, o ci rendono schiavi di meccanismi che non conosciamo ancora?

di Massimiliano Cannata

“Quando il tasso di cambiamento esterno supera il tasso di cambiamento interno, la fine è in vista”: Jach Welch, storico amministratore delegato di General Electric, di fronte a una platea affollata di economisti e studiosi, non ha trovato parole più adatte per rappresentare il senso di spaesamento e d’inadeguatezza che il divenire della storia, sospinto dall’eccezionale sviluppo delle tecnologie, sta generando a tutti i livelli. La società, le imprese, e sempre di più la politica, stanno subendo la pervasività del Web, senza riuscire a capirne meccanismi e regole. Fuori, il mondo ha assunto un profilo inedito; dentro, le istituzioni, i governi, i partiti, le associazioni, sono ancorati al passato e annaspano per trovare i linguaggi, per intercettare le trasformazioni in atto.

L’avvento di Internet ha aperto un terreno straordinario di sperimentazione, di ricerca, che si è ben presto rilevato molto difficile da controllare. La partita è aperta, come dimostra l’ampia pubblicistica che negli ultimi tempi, sta affollando gli scaffali delle librerie. Il saggio di Gianni Riotta Il Web ci rende liberi? (Einaudi) appare emblematico.

Il libro si apre con un’affermazione forte: “In principio era il Web e il Web era presso Dio e il Web era Dio”. Un incipit dal sapore biblico, giustificato dal fatto che non c’è aspetto della nostra vita, dagli affetti, alla scuola, al lavoro, all’economia, al consumo, al denaro, perfino alla religione, che non passi attraverso Internet. “Il Web è il vitello d’oro del XXI secolo che tutto corrompe, e nel contempo la tavola della legge digitale che tutto salverà. è l’angelo che ci libera dalla tirannide, ma anche il demone che ci esilia dalla realtà”.

L’ambivalenza del virtuale

Forse mai tanta ambivalenza aveva accompagnato una scoperta, che già gli storici della scienza e della tecnologia paragonano allo sconvolgimento apportato dall’uso dei caratteri mobili e dalla diffusione del motore a scoppio. Bisogna dire che, in tempi non sospetti, studiosi del calibro di Pierre Lévy avevano provato a metterci in guardia, quando ancora la rivoluzione digitale stava scandendo i primi passi. “Le proporzioni del nuovo paradigma digitale”, riprende Riotta, “sono straordinarie. Basta pensare che la biblioteca del sapere on line raddoppia in grandezza ogni undici ore, che in una sola giornata Internet si moltiplica per due, in una settimana in quattordici. […] Purtroppo la nostra saggezza non raddoppia in parallelo al Web”.

Sono i paradossi della società della conoscenza che Michel Serres nel suo Non è un mondo per vecchi (Bollati Boringhieri) denuncia con efficacia. Il filosofo francese ricorre all’immagine del martitio di San Dionigi, che pure decapitato cammina con la testa sotto il braccio fino alla chiesa di Saint-Denis, posta sulla sommità di Montmartre, che ne eternerà il sacrificio. Ai giovani di oggi accade la stessa cosa: stanno delegando a PC, smartphone e tablet facoltà superiori tipicamente umane, come la memoria, l’immaginazione e la capacità di ragionamento.

Le generazioni del “pollice” hanno messo così in tasca le facoltà cerebrali, le hanno riposte nello zaino, magari nel cellulare; salvo ogni tanto, come fanno i giovani a scuola mentre il maestro/professore spiega, accendere lo strumento per cercare risposte alla loro curiosità. Stiamo cominciando a capire che la tecnologia non basta, la vera sfida si giocherà su contenuti e la capacità autentica d’innovare.

La governance dell’innovazione

Bisognerà colmare al più presto lo scarto tra il sapere diffuso e la governance dell’innovazione. “Le innovazioni sono un acceleratore drammatico del cambiamento; possono però trasformarsi in un’arma pericolosa se non diventano fattori di costruzione della socialità e di nuove comunità di idee e valori”: questa la tesi provocatoria di Roberto Panzarani, docente di Innovation management della Lumsa di Roma, che agli impatti sociali delle tecnologie ha dedicato numerosi scritti.

Nell’ultimo, Sens of Community (Palinsesto) emerge una delle ragioni più gravi del nostro declino economico, ma anche politico. “L’Europa sta perdendo il monopolio del sapere, della conoscenza; il declino morale, prima che economico, che ci ha fatto precipitare nella crisi che appare senza via di uscita, comincia in questa incapacità di governare il nuovo paradigma”.

Il tema della dimensione problematica del digitale è quanto mai delicato, tanto da fare emergere una sorta di Innovation Pessimism, per usare la definizione di Andrea Granelli (Il lato oscuro del digitale, Franco Angeli), con cui occorrerà, dopo gli anni segnati da una superficiale euforia, fare i conti.

Ce ne abbastanza per imporre una riflessione attenta. Siamo dentro a una svolta epistemologica, occorre affrontarla senza dimenticare, tornando a Serres, “che viviamo insieme in quanto figli del libro e nipoti della scrittura”.

La stampa e la scrittura sono state le “rivoluzioni dolci” che hanno sconvolto le culture e le collettività più degli utensili e della durezza apportata dalle macchine. “Il dolce organizza e federa coloro che utilizzano il duro”, per cui senza la scrittura non avremmo avuto il diritto, le città, né degli stati organizzati. L’esercizio avvertito di una “mente innovativa” potrebbe aiutarci, ridando senso alla centralità dell’individuo, invocata dallo stesso Cardinale Martini, che Riotta si riserva di consultare nella parte finale del suo saggio: “Se non ripartiamo dall’uomo, dalla sua consapevolezza, non sapremo dove ci porta il Web, ma soprattutto non saremo mai padroni della nostra vita e quindi del nostro futuro”. Coraggio perciò, la sfida è appena all’inizio.

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