Competenze e Competitività

Il Rapporto 2007 di Fondirigenti traccia un identikit delle piccole e media imprese italiane, che appaiono non più arroccate nella difesa delle identità, ma aperte alla prospettiva del cambiamento e del passaggio generazionale.

di Massimiliano Cannata 

“L’Italia si trova agli ultimi posti nella classifica dei paesi dell’UE a 15 per capacità innovativa delle imprese industriali, seguita solo da Portogallo e dalla Grecia. Si tratta di una debolezza strutturale che appare ancora più grave se mettiamo in relazione la performance del sistema economico dei diversi contesti geografici con gli indici di innovatività del settore industriale. In un mercato straordinariamente dinamico questo è un problema particolarmente grave. Non esistono rendite di posizione o mercati che potremmo definire statici. Praticare l’innovazione è una regola aurea che vale per tutte le imprese, non solo per quelle hi-tech, ma anche le imprese tradizionali del comparto manifatturiero. Guardiamo a cosa hanno fatto i fondatori di Google: hanno cominciato per gioco, oggi la loro azienda è quotata 200 miliardi di dollari. L’intelligenza creativa unita all’innovazione può fare cose straordinarie”.

Paolo Boccardelli, docente di economia e gestione delle imprese alla LUISS e coordinatore scientifico del Rapporto 2007 di Fondirigenti: Management Forum – le competenze per lo sviluppo, riassume con efficacia i messaggi salienti di questa ricerca, che scatta una fotografia efficace della realtà della piccola e media impresa italiana, da sempre spina dorsale della nostra economia. La ricerca è il risultato di un’ampia attività di indagine che, negli ultimi due anni, ha coinvolto circa 1.000 tra manager, imprenditori e rappresentanti della business community italiana. L’obiettivo è quello di focalizzare le competenze manageriali e di misurarne gli impatti sulle performance dell’impresa: “Il contesto in cui si inserisce questa ricca pennellata sull’impresa italiana”, spiega lo studioso, “è molto chiaro: siamo in una fase in cui i nostri imprenditori hanno dimostrato capacità di gestire il proprio business, di definire il loro mercato, nonché di sviluppare e commercializzare i loro prodotti. Il made in Italy è cresciuto a ritmi del 4,4 per cento negli ultimi 7 anni, contro il 2,2 per cento della Francia e il 4,7 per cento dell’Europa. I manager italiani hanno saputo guardare alle migliori opportunità, sapendo di dover fare a meno del vecchio escamotage della svalutazione competitiva. Il problema che si presenta è semmai quello di saper utilizzare questa capacità imprenditoriale per crescere in dimensioni e per penetrare nei nuovi mercati. Ed è qui che diventa importante, in un momento in cui il paese chiede di migliorare i fattori della competitività, favorire l’innovazione in quanto strumento che può favorire l’efficienza attraverso una razionalizzazione degli scambi economici e della divisione del lavoro, sia in termini di competenze che di attività”.

Le diverse tipologie di innovazione

Il quadro economico mondiale non è certo incoraggiante, caratterizzato com’è da molte ombre e da una percepibile moltiplicazione degli elementi di instabilità. La ripresa del made in Italy descritta da Boccardelli non trova corrispondenza, infatti, ai trend macroeconomici. Recessione USA, tensione inflazionistica, penuria energetica, turbolenza delle borse, difficoltà di potere d’acquisto sono tutti fattori che hanno inasprito i fattori della concorrenza, costringendo analisti e osservatori a rivedere in negativo le proiezioni sui ritmi di crescita del PIL a livello mondiale. La difficoltà del momento ha riportato sotto la lente d’ingrandimento il caso Italia. Si calcola che nel nostro paese viene organizzato un convegno ogni 5 minuti sull’innovazione. Questa attenzione, se leggiamo le statistiche che riguardano gli investimenti nella ricerca e nell’innovazione tecnologica, non ha avuto nessun effetto concreto. L’Innovation scoreboard della Commissione Europea del 2006, così come le statistiche elaborate dal primo Libro verde sull’innovazione della Fondazione Cotec edito dal Sole 24Ore, colloca il “Belpaese” molto al di sotto della media europea, mentre in fatto di competitività abbiamo a fatica raggiunto il quarantaduesimo posto, con un leggero miglioramento rispetto al cinquantaseiesimo posto fatto registrare nel corso del 2007. Risultato che basta a soffocare anche il più timido ottimismo.

L’analisi di Fondirigenti trova, peraltro, conferma nelle più recenti analisi del Centro Studi Confindustria, nelle statistiche di Eurostat e dell’OCSE, e nel secondo Rapporto della Luiss Generare classe dirigente, straordinariamente convergenti su alcuni temi nodali. Il primo riguarda il concetto stesso di innovazione, un fenomeno complesso legato a una molteplicità di variabili, competenze, atteggiamenti. “La spesa”, si legge nel Rapporto, “in R&S non è l’unico elemento da considerare per valutare le potenzialità di un sistema. Da una parte, infatti, risulta determinante il modo in cui le risorse per la ricerca vengono impiegate, dall’altra occorre considerare l’innovazione non derivante da questo unico parametro generico, per comprendere i trend evolutivi”. Occorre sottolineare che l’innovazione, nelle sue molteplici espressioni, contribuisce non solo a modificare la quantità di prodotto o di risorse impiegate, ma anche a migliorare la qualità del lavoro, poiché con la diffusione dell’innovazione i lavoratori acquistano nuove capacità e competenze (definite dai manuali learning by doing) che determinano un aumento della produttività. Per venire incontro a questa esigenza i ricercatori hanno utilizzato un indicatore sintetico di innovatività delle imprese industriali che tiene conto non solo della spesa in ricerca, ma anche dei ricercatori che la sviluppano e la applicano, dei brevetti che ne derivano e della quota nel sistema industriale di imprese che hanno introdotto nuovi prodotti e processi. “L’evoluzione del design e dei processi ha un peso sempre più importante”, commenta il presidente di Fondirgenti Giuseppe Perrone, “la prima tipologia di innovazione è, infatti, legata all’applicazione ingegneristica sulla sostanza e sulla forma dei prodotti industriali, la seconda, molto praticata dalle piccole e medie imprese, si implementa in un processo combinatorio, che presuppone una padronanza degli strumenti e delle tecnologie ICT. L’innovazione di questo tipo, legata alla conoscenza tecnologica produttiva già acquisita, all’ottimizzazione del livello di integrazione tra le attività e le funzioni, che favorisce la riduzione dei costi e il miglioramento delle performance dell’impresa, riguarda direttamente le competenze imprenditoriali e manageriali. Soprattutto nelle imprese di piccole dimensioni, focalizzate su un’attività principale, l’organizzazione è definita sulle persone più che sui processi; esiste una forte identificazione fra persona, ruolo ricoperto e attività svolta. In queste realtà il modello decisionale si fonda prevalentemente sull’intuito, sull’esperienza e su schemi non formalizzati demandati all’imprenditore”.

La riflessione trova conferma se si mettono in relazione la performance del sistema economico delle diverse nazioni dell’Unione con l’indice sintetico di innovazione dei singoli sistemi industriali. Quello che si nota è l’emersione di quelle realtà che mostrano una maggiore sensibilità e attitudine al cambiamento, che coincidono fatalmente con le nazioni che riescono a esprimere più alti tassi di crescita.

Competenze e visione strategica

Ma quali sono le competenze che vanno riqualificate per sostenere i ritmi della globalizzazione? Anche su questo il messaggio di Perrone è molto chiaro: “Non stiamo genericamente vivendo dentro la società della conoscenza, bensì in un universo complesso che richiede conoscenze molto mirate e pertinenti rispetto alle aree di business che si vogliono coltivare. Voglio agganciare la mia riflessione a qualche dato oggettivo. Il 64 per cento delle imprese da noi intervistate ha evidenziato un orientamento strategico legato alla differenziazione del prodotto e alla qualità dei servizi. Il 40 per cento ritiene che la propria capacità concorrenziale sia legata a strategie organizzative, mentre le aziende che basano la propria capacità concorrenziale solo sui costi rappresentano l’8 per cento del campione. A questa dinamica va aggiunta la domanda da parte degli imprenditori di rafforzare il quadro delle competenze di tipo strategico e interpretativo. Acquisire abilità specifiche per tradurre e anticipare il cambiamento diventa un passaggio essenziale nell’economia complessa, almeno quanto la padronanza di abilità tecniche, organizzative e relazionali, anch’esse indispensabili per muoversi nella nuova dimensione delle reti globali”.

L’opportunità di crescere, di vincere la concorrenza e di affermarsi sui mercati esteri non è solo un fatto legato alla dimensione e al potenziale tecnologico di cui si dispone, ma è prima di tutto connessa alla presa di coscienza di quali siano gli asset di conoscenza che possiedono e in secondo luogo come poterli sviluppare, organizzare e riorganizzare nel tempo. Oggi il mercato, in quasi tutti i settori è divenuto dinamico e ricco di continui cambiamenti. è difficile trovare un contesto statico in cui si possa mantenere una posizione, senza essere costretti a una continua riorganizzazione. Questo vale non solo per le imprese situate in segmenti di mercato caratterizzati da un alto contenuto tecnologico (ICT, biotecnologie, elettronica, nuovi materiali), ma anche per quelle aziende manifatturiere che, pur presidiando ambiti tradizionali (meccanica, tessile, arredamento, calzaturiero) devono affrontare condizioni di mercato e competitor sempre più agguerriti.

Il “rito” del passaggio generazionale

Quest’ottica che vede il soggetto-impresa nel suo divenire rispetto a uno spazio circostante che sta abolendo i confini tradizionali, introduce un tema altrettanto cruciale per il nostro capitalismo familiare: il passaggio generazionale. Le aziende che lo hanno affrontato hanno sperimentato un cambio di stile, ma non un’adeguata apertura verso l’esterno. Il fatto che solo il 18 per cento del campione interpellato abbia vissuto come traumatico il “passaggio di consegne”, se da un lato ha una valenza positiva perché riduce la problematica del conflitto dentro il “recinto” organizzativo, dall’altro è una indiretta conferma dell’incompiutezza di quel “salto di cultura” da più parti auspicato, che dovrà portare alla messa in questione di ruoli, visioni, funzioni. Dal vecchio paradigma della società industriale, dell’azienda castello al paradigma della post modernità, dell’azienda rete, ma più ancora a quel secondo tempo di Internet che si misura con un ecosistema digitale, stiamo vivendo un cambiamento epocale, dentro cui soggetti imprenditoriali, dispositivi tecnologici e agenti intelligenti si parlano, nella convergenza delle reti a interazione multipla. Le nostre piccole e medie imprese hanno compreso l’importanza di questo momento evolutivo, affrontando un profondo processo di ristrutturazione e di riposizionamento, che si è intrecciato in molti casi con un “rito” di passaggio particolarmente impegnativo, che mette a confronto non solo generazioni diverse, ma culture, idee, percezioni complessive del cambiamento.

Lo scenario che la ricerca fa intravedere marca una differenza rispetto al capitalismo domestico che ha dominato la prima fase della nostra industrializzazione. La caratteristica prevalente è data dall’impegno dei nostri manager, che vogliono acquisire un nuovo ruolo e una precisa identità nel mercato globale. Il fatto che un’azienda su cinque abbia manifestato il bisogno di avviare un processo di managerializzazione oltre a essere una conferma della volontà di acquisire una capacità di corporate governance idonea a distinguere gli interessi di business da legittimi interessi familiari, va letta come la prova di una forte domanda di formazione, orientata all’acquisizione di un punto di vista più ampio, capace di incidere sull’ambiente e quindi sullo spazio di azione/relazione fatto di dipendenti, clienti, stakeholders. In quest’ottica il passaggio generazionale si presenta non solo come un fatto anagrafico, ma di cultura. Nel futuro si tratterà di lavorare su espedienti organizzativi oltre che metodologici che potranno aiutare a rispettare la diversità, agita a più livelli. Un principio, quello della diversità plurale, che entra nei cancelli dell’impresa, diventando un valore chiave su cui bisognerà impostare una dialettica di confronto costruttivo, non solo nei luoghi lavorativi, ma nel più ampio teatro della dimensione pubblica e della civile convivenza.

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