Teoria e pratica del punto di vista

Dal giudizio di Paride ai buchi neri

di Gian Piero Jacobelli

Come spesso avviene nella storia delle idee, e quindi anche delle immagini, la novità si manifesta all’improvviso, confusamente, ma forse per ciò stesso travolgente.

Alla fine del Quattrocento, ancora a cavallo tra la cultura gotica e quella rinascimentale, un certo Maestro delle Banderuole incide e stampa la versione del giudizio di Paride che si vede qui riprodotta. Non sorprende tanto, come dottamente argomenta lo storico dell’arte Erwin Panofsky, che in questa raffigurazione confluiscano tre diversi modelli iconografici: quello del Giudizio di Paride, ovviamente, quello dell’Ercole al bivio tra la Virtù e il Vizio e, infine, quello delle tre Grazie, le figlie di Atlante che custodivano i pomi delle Esperidi. Non sorprende perché, come si vede, è sempre una questione di scelte e di premi o pene che ne derivano, in un momento in cui l’onore dei cavalieri medievali doveva venire a patto con le nuove logiche del potere, laico o religioso che fosse.

Sorprende, quantomeno per l’argomento che qui interessa, un particolare che lo stesso Panofsky, in altre faccende affaccendato, non rileva: le tre dee del Giudizio di Paride – Giunone, Atena e Venere – hanno smarrito ogni connotazione particolare del loro modo di essere, ma nell’assimilarsi alle Grazie qualche differenza per altro hanno conservato: una differenza che si potrebbe definire del punto di vista.

La prima si prospetta di fronte, la seconda di dietro, la terza di fianco. Se si tiene presente l’importanza della diversificazione originaria, secondo cui nelle tre dee si rifletteva la stessa struttura della antica società indoeuropea che George Dumézil individuava nei tre poteri della politica, della difesa e della produzione o, trattandosi di Venere, della riproduzione, si può comprendere l’importanza sostitutiva che stava assumendo, in quel volgere di secolo, il punto di vista come struttura di percezione, di interpretazione e di finalizzazione del mondo.

Per di più, Paride dorme, quasi che il punto di vista fosse indipendente dalla visione di chi tuttavia non poteva fare a meno di vedere. Il punto di vista si evidenzia, infatti, come una caratteristica che appartiene agli oggetti e non ai soggetti, in quanto definisce un sistema di differenze che parte dalla situazione per giungere all’intenzione, come d’altra parte lo stesso linguaggio dimostra: si dice, faccia a faccia, per dire direttamente, si dice volgere le spalle come rifiuto, si dice di sbieco per un comportamento ambiguo, sfuggente, non immediatamente decifrabile.

Eredità di quel Gotico rinascimentale che abbandona la mitologia religiosa per aprire le porte alla mitologia laica, ci vorrà un secolo e mezzo e l’enfasi creativa della riscoperta dell’uomo al centro del cosmo perché il punto di vista producesse un nuovo soggetto, quel “soggetto scabroso” (secondo la definizione di Slavoj Zizek) che nasce da Cartesio come espressione del reticolo vettoriale dello spazio e del tempo e non demorde neppure quando il pensiero contemporaneo, “debole” per definizione, ha trasformato il soggetto nel risultato fenomenologico e drammaturgico della “perdita del centro”: proprio quel soggetto che oggi riemerge dalla crisi dei tradizionali quadri di riferimento come uno scrosciante e interminabile pianto rituale.

In qualche modo, siamo tornati indietro, a quel sonno/sogno di Paride in cui si agitano i riflessi mostruosi di un mondo che sembra dettare le proprie regole sregolate, lasciando l’uomo disarmato e imbelle. Per esempio, se si pone mente alla vastissima letteratura sulla globalizzazione, è immediata la sensazione di un fenomeno “in negativo”. La globalizzazione non appare come l’inizio di qualcosa, ma come la fine di qualcosa: la fine del punto di vista, che nel bene e nel male aveva spartito il mondo secondo gli usi e i costumi dell’Occidente.

Intendiamoci, non è la prima volta che questo succede: il viaggio di Ulisse, come ha argomentato Pietro Boitani, è ricominciato tante volte, ma non è mai finito. Non è la prima volta e non sarà l’ultima, anche se, per prevedere l’insorgere dei nuovi confini e la proiezione di un nuovo punto di vista, bisogna guardare verso l’alto, verso il cielo stellato di kantiana memoria o, correlativamente, dentro di noi.

In effetti, oggi si registra un fatto nuovo, o almeno quasi nuovo: l’ubiquità dei soggetti. In parole più semplici, se nell’Ottocento, con il treno e il telegrafo, per la prima volta mobilità e comunicazione sono entrate in una reale concorrenza: mentre prima la comunicazione restava per lo più subordinata alla mobilità, oggi, al contrario, non c’è più bisogno di muoversi perché tutto è almeno apparentemente a portata di mano, tutto si può vedere contemporaneamente.

C’è molto da guadagnare in questa contemporaneità globalizzata, ma c’è anche molto da perdere. Non si tratta di riaprire sterili polemiche contro i mezzi di comunicazione di massa, anche se forse il loro modo di essere non sta finendo, come alcuni vorrebbero, in forza della apparente e illusoria interattività derivante dalla acquisizione di maggiori disponibilità di banda. Né si tratta di addensare perplessità e preoccupazioni su una Rete tanto ricca di promesse quanto povera di risultati che non siamo quelli di una gestione marginale dei tempi marginali della nostra vita.

Conta comprendere come ci sia una sostanziale differenza tra quella che si potrebbe definire una cultura “meticcia”, che tenderebbe a prevalere negli usi e costumi del nostro tempo, orientando il corpo e lo spirito su suggestioni da New Age, e quella che si potrebbe definire una cultura “matriciale”. Perché, anche quando ci si muove lungo le maglie di un repertorio che configura una sorta di vita a catalogo, a differenza di quanto avvenne per esempio dopo la scoperta dell’America, oggi tendono a prevalere non tanto i sincretismi culturali quanto le alternative relazionali, che di tempo in tempo richiedono di adottare comportamenti e atteggiamenti diversi, il cui centro di coordinamento può essere soltanto interiore.

Questa è forse la più attuale e pertinente accezione del punto di vista che, invece di proiettarsi nell’orbe terraqueo, potrebbe diventare protagonista dell’incontro, con se stessi e con gli altri, non tanto nel senso della divergenza quanto in quello della convergenza. L’idea è quella di un punto di vista che non parte da fuori per tornare fuori, ma che parte da dentro per tornare dentro. E dentro, come insegnano sempre meglio le scienze cognitive, non c’è un melting pot delle percezioni possibili, ma al contrario un palcoscenico in cui le diverse identità che ci appartengono, dialogano in maniera articolata e dialettica tra loro.

In questo senso il nuovo punto di vista è quello di un necessario passaggio all’inferno, ancora una volta come l’intramontabile Ulisse. Un anno fa, nel luglio 2004 Stephen Hawking si presentò alla Conferenza internazionale di Relatività e Gravitazione che si teneva a Dublino per riconoscere che si era sbagliato: i cosiddetti buchi neri non trattengono, come inizialmente aveva pensato, tutta l’informazione che vi si riversa dentro, ma qualcosa, svaporando, ne torna fuori, qualcosa che rigetta nello spazio esterno la memoria di quanto è accaduto, delle vicende della stella o del sistema di stelle che è collassato nel buco nero.

Non è facile, anzi è impossibile per i non addetti ai lavori comprendere davvero cosa Hawking intendesse dire, mentre è più facile cogliere la portata metaforica del suo discorso: non tanto quella del “nulla si crea a nulla si distrugge”, che a pensarci bene non aggiunge nulla al nostro modo di essere, quanto quella, come precisò lo stesso Hawking, di una memoria che si conserva e della “impossibilità di uscire da se stessi”: “Sono molto dispiaciuto di deludere i seguaci della fantascienza, ma l’informazione è preservata e non vi è la possibilità di utilizzare buchi neri per viaggiare in altri universi. Se finite in un buco nero, la vostra massa-energia sarà restituita al nostro universo, anche se in una forma complessa, e conterrà l’informazione di ciò che eravate”.

Dispiacerà ai seguaci della fantascienza, ma non dispiace a noi pensare che ogni qualvolta viene meno un punto di vista, in realtà non scompare, ma si immerge in un percorso interiore, la cui traccia si riverbera nel modo in cui quanti verranno dopo potranno guardare a se stessi, agli altri e al mondo.

Forse Paride non dormiva per non vedere, ma per vedere meglio.

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