Tecnologia e felicità

Perché il possesso dell’oggetto tecnologico di ultima generazione non aumenta necessariamente la felicità.

di James Surowiecki

Nel corso del XX secolo, americani, europei e asiatici dell’Est hanno tratto notevoli vantaggi dalle innovazioni dei materiali e della tecnologia in genere, inimmaginabili in epoche precedenti. Negli Stati Uniti, per esempio, il prodotto interno lordo pro capite è triplicato dal 1950 al 2000. L’aspettativa di vita si è notevolmente innalzata e i benefici del capitalismo si sono diffusi ampiamente a tutti i livelli della popolazione. Il boom della produttività verificatosi dopo la Seconda Guerra mondiale ha reso i beni di consumo migliori e meno costosi al tempo stesso. Cose che una volta erano un lusso, come un viaggio in aereo o una telefonata intercontinentale, sono diventate una necessità. E anche se gli americani davano l’impressione di lavorare sodo (almeno in paragone agli europei) la loro avida ricerca di svago ha convertito i mezzi di comunicazione e il tempo libero in attività industriali multimiliardarie (in dollari).

Per quanto speciale sia una nuova tecnologia e per quanto semplifichi la nostra vita, nel giro di poco tempo viene data per scontata.

Cose che una volta apparivano miracolose, presto sembrano banali.

Bisogna ammettere perciò che oggi gli americani, secondo gli standard più comuni, stanno meglio di quanto non stessero nella metà del secolo scorso. Stranamente, tuttavia, se si chiede loro quanto siano felici, risulta che non lo sono più di quanto non lo fossero nel 1946 (data in cui iniziarono formalmente i sondaggi relativi alla felicità). Di fatto, la percentuale della popolazione che sostiene di essere «molto felice» è diminuita leggermente a partire dall’inizio degli anni 1970, anche se il reddito dei nati nel 1940 è aumentato in media del 116 per cento nel corso della loro vita lavorativa. Comunque non si tratta di un fenomeno unicamente americano: dati analoghi si possono trovare nella maggior parte dei paesi sviluppati. Forse l’esempio più sorprendente del progresso che ha uno scarso impatto su ciò che gli economisti chiamano sensazione di «soggettivo benessere» è il Giappone. Tra il 1960 e la fine degli anni 1980 l’economia giapponese ha subito una trasformazione totale e il paese è passato dalla situazione di fornitore a buon mercato di beni prodotti a basso costo alla situazione di società tecnologicamente più sofisticata del mondo. Nell’arco di quel periodo il prodotto interno lordo è quintuplicato e ciò non di meno, alla fine degli anni 1980, i giapponesi sostenevano di non essere più felici di quanto lo fossero nel 1960.

Fatto ancora più sorprendente, una significativa minoranza di cittadini del mondo ricco sostiene che la vita è diventata peggiore. Sino dagli anni 1950, le diagnosi di grave depressione sono aumentate di dieci volte e, se da una parte questo aumento è rappresentativo della nuova propensione a dare rilevanza alla malattia mentale, dall’altra esiste un consenso condiviso tra gli esperti del settore che esso riflette anche una realtà che si è sviluppata in questo periodo. Le persone sono più ansiose, hanno meno fiducia nel governo e nel mondo degli affari e divorziano più spesso. Negli anni 1960 Tom Wolfe disorientava coloro che si lamentavano della tristezza della vita americana, insistendo sul fatto che gli americani si trovavano nel bel mezzo di «un’esplosione di felicità. Quarant’anni più tardi, la maggior parte della gente non sarebbe stata d’accordo.

C’è, tuttavia, un gruppo di americani che affronta la vita con imperturbabile serenità: gli amish. I loro tassi di depressione sono irrilevanti rispetto al resto della società, mentre i livelli di felicità sono significativamente alti. Gli amish della Pannsylvania, quando viene loro chiesto di dare un punteggio all’asserzione «Sei soddisfatto della tua vita» (usando una graduatoria da 1 a 10) risultano essere felici come i 400 della classifica di «Forbes». Gli amish, però, fanno a meno della maggior parte di ciò che viene considerata moderna tecnologia. Non dipendono dall’automobile, non hanno bisogno di Internet e sembrano preferire la stabilità e la durata alla crescita eccitante che costituisce il propellente dell’innovazione e dell’economia statunitense. Il confronto è un po’ semplicistico (gli amish hanno parecchie altre caratteristiche che li rendono allegri, inclusi saldi legami con la comunità, famiglie stabili e fede religiosa), ma, d’altra parte, suggerisce un’interessante domanda: è possibile che la tecnologia, invece di liberarci, ci faccia regredire? Il progresso tecnologico è semplicemente un lavoro monotono e, se così, saremmo più felici se potessimo evitarlo?

Le persone sanno cosa le rende felici?

Il rapporto tra felicità e tecnologia è stato un perenne argomento di discussione per i critici della società e i filosofi sin dall’avvento della Rivoluzione Industriale. Ma non ha avuto la stessa attenzione da parte degli esperti di economia e di scienze sociali. L’interesse che essi hanno dedicato al tema della felicità si concentrava soprattutto sul sempre più incisivo rapporto tra la generale prosperità materiale e il benessere, nel senso di well-being. Il libro di Gregg Easterbrook, The Progress Paradox, affronta direttamente la questione. Anche gli economisti Bruno Frey e Alois Stutzer hanno pubblicato nel 2001 una ricerca sull’argomento in Happiness and Economics. Ma il lavoro veramente rivoluzionario sul rapporto tra prosperità e benessere è stato realizzato dall’economista Richard Easterlin il quale, nel 1974, ha scritto un famoso saggio intitolato Does Economic Growth Improve the Human Lot? (La crescita economica migliora la condizione umana?) Easterlin ha dimostrato che, per quanto riguarda i paesi sviluppati, non c’era una reale correlazione tra il livello di reddito di una nazione e la felicità dei suoi cittadini. Il denaro, argomentava Easterlin, non compera la felicità, almeno non dopo un certo livello. Easterlin ha dimostrato che, sebbene la povertà fosse fortemente correlata alla miseria, qualora un paese fosse saldamente borghese, il fatto di produrre sempre più ricchezza non rendeva i suoi cittadini in qualche modo più felici.

Lo studio di Easterlin non suscitò molta attenzione quando fu pubblicato per la prima volta, ma le sue implicazioni furono profonde. Sostenendo che non esisteva un legame diretto tra ricchezza e benessere, Easterlin sfidava alcuni presupposti basilari della scienza economica corrente. La maggior parte degli economisti parte dall’idea che gli individui agiscano quasi sempre in nome del proprio interesse personale. Di conseguenza le scelte che essi fanno devono essere migliori delle alternative (altrimenti altre persone farebbero altre scelte). Secondo questa argomentazione la ricchezza è positiva perché aumenta le opzioni e fornisce alle persone più libertà di realizzare ciò che vogliono. Per gli economisti classici era quasi una tautologia affermare che più gli individui sono ricchi, più sono felici. Lo studio relativamente semplice di Easterlin sosteneva che, se ciò che le persone dicono di se stesse fosse da credere, si potrebbe dare loro più scelte e più ricchezza senza dare troppo peso all’impatto che queste avrebbero sulla loro sensazione di benessere. «Il benessere è in effetti l’idea centrale della scienza economica», dice Alan Krueger, economista alla Princeton University. «Ma non abbiamo mai cercato di misurarlo. Abbiamo agito per delega e abbiamo detto “Se fossimo più ricchi e avessimo più possibilità di scelta, dovremmo stare meglio”. Ma non abbiamo mai cercato di sapere se questa ipotesi fosse realmente vera».

Una risposta naturalmente può essere quella di affermare che non si può di fatto credere a ciò che la gente dice di sé nei sondaggi, indipendentemente dalla qualità con cui vengono eseguiti. Facendo attenzione a come le persone agiscono si avrà un riscontro reale di ciò che vogliono. Da questo punto di vista, preoccuparsi se le persone dicono di essere felici con le scelte che fanno è un nonsenso. è naturale che lo siano. Se, infatti, spendono un sacco di soldi e di tempo per comprare e usare personal computer, telefoni senza fili e PDA, è un segno che questi oggetti le rendono felici.

Questa argomentazione ha una sua logica e soprattutto ha la grande virtù di non chiedere agli economisti di decifrare le motivazioni degli individui. Ma nell’ultimo decennio, o anche più, un numero sempre maggiore di loro si è dedicato all’analisi delle motivazioni (o almeno dei comportamenti), abbandonando l’assunto di una perfetta razionalità individuale per arrivare a un modello più realistico di comportamento economico. Si sono lasciati attrarre dall’idea , poco originale al di fuori dell’economia, ma abbastanza se applicata all’economia , che le persone possano fare a volte degli errori e che le loro decisioni, sia individuali sia collettive, potrebbero in effetti renderle infelici.

Le persone, pur diventate benestanti, non sono più felici di quanto fossero prima, anzi continuano a essere più ingorde. Ricordano la battuta di Woody Allen: il cibo può anche essere scadente, però si desidera che le porzioni siano il più grandi possibile.

Per esempio, gli economisti comportamentali hanno dimostrato che le preferenze individuali sono a volte «temporalmente contraddittorie», nel senso che, per esempio, si vorrebbe risparmiare nel lungo termine, ma nel breve si preferisce spendere. Sorprendentemente questi economisti hanno dimostrato che gli esseri umani non sono molto bravi a prevedere i propri desideri. Daniel Kahneman della Princeton University, che ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 2002, ha sostenuto che gli studenti, quando gli si chiede di mangiare una coppa del loro gelato preferito per otto giorni di fila, non sono in grado di capire se la cosa sia di loro gradimento. Se si considera quante decisioni riguardo alle nuove tecnologie sono basate su scarse o non concrete dimostrazioni e comportano interrogativi sul futuro, è plausibile che le persone possano essere interdette di fronte a tecnologie che non le rendono felici, ma di cui non possono fare a meno. Plausibile, ma non certo: come vedremo, quando si tratta del problematico rapporto tra tecnologia e felicità, la questione è abbastanza complessa.

«La questione della tecnologia»: una perdita o un guadagno?

Cercando di capire fino a che punto la tecnologia influenzi il benessere, vale allora la pena di prestare attenzione ad alcuni fattori. Primo, ci sono stati pochi studi rigorosi sul rapporto specifico tra cambiamento tecnologico e come gli individui percepiscono la propria vita. Formulata così, la questione «Più (o migliore) tecnologia rende le persone felici?» resta irrimediabilmente a livello di congettura. Secondo, c’è qualcosa di intrinsecamente incerto nella percezione che gli individui hanno della propria vita. A parte l’incertezza relativa a ciò che faranno nel futuro, è pensabile almeno che sappiano che cosa li rende felici ora?

Più seriamente, è difficile riflettere sulla tecnologia perché le persone si adattano velocemente alle innovazioni tecnologiche che sono a loro disposizione. Se avessimo chiesto a una donna nel 1870 se sarebbe stata felice se avesse avuto un veicolo personale che le avesse dato la libertà di percorrere centinaia di chilometri al giorno, in qualsiasi direzione e a costi relativamente bassi; se avesse avuto l’opportunità di volare sopra gli oceani in poche ore; se avesse avuto la possibilità di parlare in tempo reale a qualcuno a migliaia di chilometri di distanza per pochi spiccioli al minuto, ci sono buone probabilità che avrebbe risposto affermativamente. Ma, oggi, è raro trovare qualcuno che si ecciti all’idea di una macchina, di un aereo o di un telefono. Se ne riconosce l’utilità, ma anche che sono fonte di frustrazione e di stress. Tutto sommato, la maggior parte della gente direbbe che è meglio avere macchina e telefono che non averli, ma , ed ecco ciò che rende così difficile parlare di felicità , non è chiaro se realmente macchina e telefono rendano felici.

Sembra trattarsi di un fenomeno universale. Infatti, una delle più importanti intuizioni degli studiosi della felicità è che gli individui si adattano molto velocemente alle buone notizie. Come, per esempio, i vincitori della lotteria. Uno studio famoso ha dimostrato che, sebbene i vincitori siano molto, molto felici quando vincono, la loro euforia ben presto si volatilizza e nel giro di poco tempo il buon umore e il senso di benessere tornano a essere quelli che erano prima della vittoria. Gli psicologi hanno persino coniato un nome per questo fenomeno: «adattamento edonistico».

Questo vale anche per la tecnologia: non importa quanto importante sia un’innovazione, non importa quante facilitazioni apporti alla vita di tutti i giorni, in breve viene data per scontata. Questa considerazione può essere verificata continuamente nel mondo della tecnologia, dove oggetti che una volta sembravano miracolosi presto diventano banali e, ancora peggio, frustranti se non funzionano perfettamente. Ne consegue che è difficile ricordare ciò che ha preceduto una nuova tecnologia. Ecco perché chi utilizza la banda larga dovrebbe occasionalmente tornare al vecchio telefono: gli farebbe apprezzare la differenza che comporta la comunicazione ad alta velocità.

Questa facilità con cui si assimila il progresso tecnologico significa allora che la tecnologia non fa alcuna differenza? No, ma rende la questione del suo impatto più complessa e nel bene e nel male. Partiamo dagli aspetti negativi. Ci sono casi precisi in cui la tecnologia rende la vita ovviamente peggiore, come il telemarketing, il traffico, i nuovi strumenti di identificazione, tutti fenomeni che creano consapevolmente infelicità. Ma la maggior parte dei critici moderni della tecnologia ha rivolto la propria attenzione non tanto a specifiche tecnologie negative quanto a ciò che Heidegger chiamava «la questione della tecnologia», cioè l’impatto della tecnologia sulla nostra umanità. Questi critici si sono arroccati su due posizioni apparentemente opposte che, tuttavia, condividono un comune scetticismo sulla capacità delle persone di usare la tecnologia per propri fini personali. La prima posizione, che si evince dallo studio del francese Jacques Ellul o, curiosamente, dai romanzi di Philip K. Dick, è quella che sostiene che il «progresso» tecnologico sta portando verso una società più rigida, controllata e senz’anima nella quale gli individui vengono più facilmente manipolati e monitorati. La seconda posizione, che è stata ben argomentata in libri come Amusing Ourselves to Death di Neil Postman e Bowling Alone di Robert Putnam, è quella secondo la quale la tecnologia è la causa prima di una sempre più marcata privatizzazione dell’esperienza la quale, a sua volta, crea una società frammentata e caotica in cui i tradizionali rapporti sono più difficili da sostenere, in cui la comunità è sempre più illusoria e le relazioni interpersonali, mediate sovente dalle macchine, si sviluppano via via su basi inconsistenti.

C’è ovviamente qualcosa di comune a entrambe le posizioni. La privacy è diventata sempre più vulnerabile in un mondo di banche dati interconnesse. In molti posti di lavoro tecnologie come il monitoraggio dei computer e le registrazioni di tutte le telefonate facilitano il controllo dei lavoratori. L’idea che la tecnologia distrugga i rapporti e sbricioli la coesione sociale si è imposta soprattutto come attacco alla televisione, ma recentemente è diventata centrale anche nella critica di Internet. Nel libro Bowling Alone Putnam sostiene che la televisione è il principale colpevole del graduale isolamento degli americani e dell’erosione del capitale psicologico che aggrega armoniosamente le società. Analogamente, gli effetti deleteri di Internet, che presumibilmente allontana ulteriormente le persone da ciò che i critici chiamano sempre «il mondo reale», si riferivano inizialmente a un famoso studio di un gruppo di residenti di Pittsburgh Internet Paradox: A Social Technology That Reduces Social Involvment and Psychological Well-Being? Secondo questa ricerca, pubblicata nel numero di settembre 1998 di «American Psychologist», Internet, invece di consentire alle persone di connettersi con un numero sempre più esteso di potenziali amici, le rende più depresse e isolate di quanto fossero mai state prima.

Questa critica esplicita all’impatto della tecnologia sulle relazioni sociali è interessante ed è in particolare modo rilevante relativamente alla questione della felicità perché una delle poche cose che possiamo dare per certe è che più amici e più relazioni strette gli individui hanno, più felici essi tendono a essere. Ma la dimostrazione che Internet o persino la televisione abbiano un ruolo fondamentale nella distruzione delle relazioni invece di favorire un loro cambiamento non è particolarmente convincente. Per esempio, quando gli autori ritornarono sul loro lavoro del 1998 alcuni anni più tardi, usando una metodologia leggermente differente, arrivarono alla conclusione opposta che la Rete ha qualche benefico impatto sulla socialità, sui collegamenti interpersonali e sul senso di benessere.

Ovviamente, una tecnologia così sfaccettata e onnipresente come Internet avrà una miriade di effetti inimmaginabili. Ma, essendo essenzialmente una tecnologia di comunicazione, come lo è il telefono, consentirà alla gente di ampliare la propria rete di affetti e di informazioni. Internet non è certo la sfera pubblica ideale, dove tutte le discussioni sono razionali e tutti sono d’accordo su una definizione di bene comune, ma è comunque una sfera pubblica che decisamente funziona senza barriere.

Le critiche dominanti della tecnologia contengono, dunque, qualcosa di esagerato. Ma certamente un modo in cui la tecnologia, in genere, rende le persone meno felici è la sua implacabile produzione di novità. Una delle intuizioni basilari degli studi sulla felicità è che le persone hanno difficoltà a essere contente di ciò che hanno, per lo meno quando sanno che gli altri hanno di più. Oggi il cambiamento tecnologico è così rapido che, quando si acquista un oggetto, si sa che in pochi mesi ci sarà sul mercato una versione più bella e più veloce di quel prodotto e che si finirà per conservare quello che si ha. In altre parole, c’è già qualcun altro che ne possiede uno migliore. è come se il disappunto fosse intrinseco all’acquisto stesso sin dall’inizio ( a meno che non si acquisti un televisore al plasma da 70 pollici, in tal caso si dovrebbe stare tranquilli per quasi due anni). Non esiste modo di aggirare questa delusione che crea tanta insoddisfazione nel consumatore moderno.

Tecnologia à la carte: cattivo cibo, ma porzioni più grandi

Stress quotidiano, senso fastidioso di delusione, paura che il governo venga a sapere degli individui molto di più di quello che essi desiderano che si sappia: se queste sono alcune delle conseguenze della tecnologia che riducono il senso di benessere, come rimediare? Questo è un terreno che ordinariamente viene lasciato alle disquisizioni dei «cyberottimisti» e dei «transumanisti» i quali sono convinti che la tecnologia dovrebbe essere celebrata perché rigenera e migliora il corpo e la mente. Ma, fantasie a parte, esiste qualche studio suggestivo e di un certo interesse che sostiene che alcune nuove tecnologie fanno stare non solo oggettivamente meglio le persone, ma le rendono anche felici.

Considerando il mercato, per esempio, si nota che Internet ha reso i consumatori più felici non tanto perché ha contribuito ad abbattere i prezzi quanto perché ha ampliato l’enorme assortimento di prodotti disponibili in maniera soft. Nella scalata alla felicità, l’allargamento delle scelte dei consumatori è in realtà un’arma a doppio taglio: è vero che i consumatori preferiscono la varietà e la novità e più scelte hanno a disposizione maggiore è la probabilità che possano trovare la cosa che effettivamente desiderano. Ma è anche vero che una grande possibilità di scelta in realtà li paralizza, facendoli stare paradossalmente peggio.

Un notissimo esperimento realizzato dai professori Mark Lepper e Sheena Iyengar (rispettivamente della Stanford University e della Colombia University) illustra il punto: essi allestirono in un supermercato due tavoli, uno con 24 vasi di marmellata e l’altro con 6, offrendo dei tagliandi di sconto a chi si fosse fermato ad assaggiare le marmellate. Delle persone che si fermarono al tavolo con 24 vasi solo il 3 per cento comprò la marmellata, mentre di quelle che si fermarono al tavolo con 6 vasi a comprarne fu il 30 per cento. Più scelte a disposizione suscitano frustrazione in quanto è difficile muoversi ragionevolmente in una marea di opportunità. Internet invece offre, ancora in una forma appena abbozzata, un mucchio di meccanismi che vanno da selezioni formulate da gruppi di persone a scenari di valutazione dei consumi che forniscono gli strumenti per fare scelte informate relativamente facili e veloci, con l’effetto di ridurre la paralisi e di rendere le persone più felici. La cosa importante in questo caso è che tra le infinite scelte che Internet offre c’è la possibilità di una minore scelta.

La tecnologia ha inoltre cambiato radicalmente la natura del lavoro o almeno del lavoro di alcuni. Ciò è importante perché un posto di lavoro è fondamentale per il benessere ed è molto più importante di qualsiasi altra cosa, compresa la famiglia. Molti studi dimostrano che nulla , nemmeno il divorzio , rende le persone più infelici della mancanza di lavoro. Per la maggior parte dei secoli XIX e XX l’impatto della tecnologia è stato molto ambiguo. Se da un lato la meccanizzazione dell’agricoltura ha consentito a molti di lasciare il lavoro dei campi, dall’altro li ha spinti direttamente nel pesante lavoro industriale, ben pagato ma deprimente. La tecnologia aumentava la produttività dei lavoratori, ma diminuiva altresì la loro autonomia: i superiori avevano un controllo dettagliato dei loro giorni lavorativi. Perfino il lavoro d’ufficio nel periodo del Dopoguerra, sintetizzato dalle file senza fine di scrivanie nel film The Apartment di Billy Wilder, era angosciosamente burocratico e controllato. Ma, recentemente, la nascita della società collegata in rete e l’avvento del commercio basato sull’informazione hanno portato come conseguenza che il lavoro è diventato meno formale e più aperto, pur restando efficiente e produttivo. E già una significativa percentuale di americani, come sottolinea Arlie Hochschild nel libro The Time Bind, trova l’atmosfera del lavoro più congeniale rispetto a quella di casa. Dal momento che il numero di coloro che lavorano nel settore della conoscenza cresce e che le aziende si sforzano di renderli felici, il benessere dovrebbe aumentare.

Il più incisivo impatto della tecnologia sul senso di benessere, tuttavia, si riscontra nel settore dell’assistenza sanitaria. Prima della Rivoluzione Industriale due su tre europei morivano prima dei 30 anni. Oggi l’aspettativa di vita per le donne dell’Europa occidentale è di quasi 80 anni e continua a crescere. Il fatto da sottolineare è ovvio, ma importante: la vasta maggioranza della gente è felice di essere viva e più è lungo il tempo che vive su questa terra, meglio sente che ci starà (si ricordi quanto detto sulla prosperità e la felicità: non è che la prosperità rende infelici, è che non necessariamente rende felici). Orbene, il quadro è un po’ più complicato di questo. Vivere qualche anno in più da vecchi potrebbe non essere l’ideale. Ma, fino a pochissimi anni fa, la vita per la maggior parte della gente era sgradevole, abbrutente e breve (si legga in proposito Hobbes). La tecnologia ha cambiato tutto, almeno nei paesi ricchi. Così come bisognerebbe preoccuparsi dell’aumento dei costi dell’assistenza sanitaria e del problema di coloro che non sono assicurati, sarebbe altrettanto giusto ricordare i benefici che la tecnologia medica e farmacologica ci hanno regalato sul piano fisico e su quello spirituale.

A un livello meno superficiale, osservando i vantaggi che la tecnologia ha portato alla salute e alla longevità emerge quanto sia paradossale ogni discussione sulla felicità a livello nazionale e a livello globale: anche se le persone non possono essere più felici, anche se sono più ricche e posseggono più tecnologia, continuano col passare del tempo a essere più ingorde. Sembra la battuta di Woody Allen: il cibo può anche essere scadente, però desideriamo che le porzioni siano il più grandi possibile.

In conclusione la tecnologia può solo migliorare leggermente il gusto del cibo, ma lo rende più abbondante , e quasi per tutti , e questo è ciò che ha a che fare con qualcosa di simile alla felicità.

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