Linux all’attacco di Microsoft

Il movimento open source rappresenta la più grave minaccia che il gigante del software ha mai dovuto affrontare. Quale sarà la risposta di Bill Gates?

di Charles Ferguson

A memoria di addetto ai lavori delle tecnologie informatiche, il binomio Wintel, l’industria da 250 miliardi di dollari dominata dal sistema operativo Windows e dai microprocessori Intel, è sempre esistito. Oggi però questo impero viene attaccato dal binomio “Lintel”, una combinazione tra sistema operativo Linux e chip Intel. Alle sue spalle c’è un intero movimento, quello del software open source (codice sorgente aperto) che minaccia di scardinare il predominio di Windows. Davanti a questa sfida, Microsoft mostra i classici sintomi della sindrome dell’incumbent, la malattia del monopolista. Invece di rinnovarsi, Microsoft ricorre alle minacce legali, agli accordi a breve termine e cede alla paura e all’incertezza quando si tratta di rafforzare la propria posizione. Probabilmente, questa strategia non funzionerà. Il sistema operativo Linux e il modello di sviluppo del software open source sono ben lontani dall’essere perfetti, ma ogni giorno che passa aumentano per loro le probabilità di spodestare Microsoft.

Con qualche miglioria, l’open source potrebbe addirittura diventare il modello di riferimento per tutta l’industria della produzione di software. Se così sarà, a nessuno potrà sfuggire l’ironia degli eventi. Il movimento venne inaugurato venti anni fa da un tecnologo “anti-sistema”, che per molto tempo fu ridicolizzato dall’intera industria del computer. Anno dopo anno, silenziosamente, l’open source ha raccolto nuovi adepti, diffondendosi inizialmente tra gli hacker più iconoclasti, in virtù di una struttura legalistica e culturale che offriva loro la libertà dai programmatori “giacca e cravatta”, vale a dire da quell’apparato manageriale, finanziario e legale rappresentato dal settore tecnologico commerciale. Oggi IBM, Hewlett-Packard e Intel hanno sposato la causa di Linux e dello sviluppo open source. L’obiettivo è quello di erodere i prezzi e il potere di Microsoft attraverso la liberalizzazione del mercato di massa del software.

Se dovesse accadere, il paradosso sarebbe ancora maggiore. Microsoft ha ottenuto il suo predominio imitando i prodotti degli altri, incoraggiando la “clonazione” del PC inventato da IBM e cannibalizzando l’industria del software proprietario. Ma oggi, una IBM rivitalizzata e sostenuta da Hewlett-Packard, Dell, Intel e Oracle, sta fomentando una rivoluzione, mentre ogni giorno di più Microsoft somiglia alla vecchia IBM, un monopolio accerchiato che sopravvive solo costringendo il resto del mondo ad acquistare i suoi costosi, invecchiati e sempre più gonfiati prodotti (l’aprile scorso Microsoft ha dichiarato che uno dei suoi prodotti per server potrà utilizzare Linux, una concessione significativa sul piano simbolico ma non certo il sintomo di un cambiamento di rotta).

Come potrebbe comportarsi l’open source senza un avversario come Microsoft è una delle tante questioni aperte che il movimento deve affrontare. Ma bisogna dire che finora non si è mai tirato indietro, trovando sempre in qualche modo una risposta. Nel corso di un recente convegno, a Linus Torvalds, l’inventore del sistema operativo Linux, è stata chiesta un’opinione sulle prospettive di lungo termine del suo sistema. Torvalds ha risposto dicendo che non ama disegnare scenari futuri. Quando si guarda troppo in avanti, egli ha dichiarato, si rischia di non vedere le cose davanti a sé e di inciampare. Comunque la mossa successiva di Linux è del tutto ovvia: diventare in fretta un affare miliardario.

Tutto questo perché malgrado i suoi difetti, il modello open source offre enormi vantaggi. Il più evidente è che il sorgente aperto aiuta a rendere il software più agile e trasparente, limitando drasticamente la possibilità dei �lucchetti” proprietari, che fanno diventare l’utente un ostaggio del venditore del programma acquistato, e scoraggiando quindi gli sviluppatori dal ricorrere ai vari trucchi impiegati contro i concorrenti e i loro stessi clienti. La trasparenza implicita del modello open source toglie al software la sua patina di segretezza e rende più difficile sfuggire alle proprie responsabilità nel caso di una programmazione difettosa. I programmatori scrivono in modo diverso quando sanno che il mondo li sta a guardare. Allo stesso modo, le aziende software agiscono diversamente quando sanno che il cliente che non è soddisfatto di un programma può risolvere il problema da solo o passare a un altro fornitore. Il mercato mostra che la segretezza e le manovre sottobanco associate alla tradizionale industria del software commerciale generano costi elevatissimi, inefficienze e risentimento. Se emerge un’alternativa praticabile, gli utenti sono ben lieti di afferrarla.

La lunga crescita del movimento open source

Il modello open source è stato inventato da Richard Stallman, un informatico del MIT estremamente brillante e noto per il suo scarso entusiasmo nei confronti dei compromessi ideologici o dei profitti aziendali. In risposta alla frammentazione del sistema operativo Unix in svariati dialetti proprietari incompatibili tra loro Stallman si dimise dal MIT nel 1984 e iniziò la sua personale crociata. Cominciò lavorando a un sistema operativo anti-Unix chiamato GNU, acronimo di GNU is Not Unix. Fondò quindi la Free Software Foundation per distribuire i suoi lavori e il concetto di una licenza open source per gestirli (si veda Chi possiederà la cultura?, a pag. XX).

Pur essendo piuttosto dogmatico nella sua antipatia per il mondo degli affari, Stallman è in credito nei confronti di tutto il mondo. Nel 1991, quando il 21enne Linus Torvalds scrisse per il suo PC il kernel – il nucleo di un sistema operativo preposto al controllo dell’hardware del computer – originario del sistema Linux, furono le idee di Stallman a influenzare le decisioni sul modo più opportuno di farlo circolare. Torvalds è un uomo molto pratico, pacatamente fiducioso, che ha dato prova di essere un formidabile leader di progetto oltre che un bravissimo programmatore. La sua creatura destò l’interesse di molti altri programmatori, che cominciarono a inserire nel sistema varie migliorie, sotto la guida informale dello stesso Torvalds. A metà degli anni 1990, Linux trasse vantaggio da due formidabili forze. La prima fu Internet, che rese possibile la distribuzione elettronica del software e la cooperazione tra numerosi programmatori indipendenti. La seconda forza nasceva dalla crescente frustrazione nei confronti dei limiti imposti dai produttori di software commerciale, in particolare Microsoft e Sun Microsystems.

E così Linux entrò nell’era della distribuzione commerciale. Dapprima nel settore di nicchia che lo vede ancora all’avanguardia, quello dei server per il World Wide Web; negli ultimi cinque anni la maggior parte dei server di Internet ha utilizzato il software open source. In una fase successiva, alcuni anni fa, IBM ha iniziato a investire soldi e risorse umane nei progetti open source. IBM, Intel e Dell hanno finanziato Red Hat Software, il maggior rivenditore commerciale del sistema Linux e Oracle ha modificato il suo software per database rendendolo compatibile con Linux. Alla fine del 2003 Novell ha annunciato l’acquisizione per più di 200 milioni di dollari della tedesca SuSE, un piccolo distributore di una delle tante versioni di Linux. IBM a sua volta ha investito 50 milioni di dollari in Novell. IBM, Hewlett-Packard e Dell hanno cominciato a vendere macchine con il sistema Linux preinstallato. IBM è inoltre uno dei supporter della Mozilla Foundation, lo sviluppatore del browser open source Firefox e con Intel, HP e altre aziende ha recentemente costituito gli Open Source Development Labs (OSDL), un consorzio per la promozione dell’uso di Linux in ambito aziendale che ha tra i suoi collaboratori Linus Torvalds e altri sviluppatori open source.

Oggi Linux gira su ogni sorta di dispositivo, dal piccolo router da 80 euro ai telefoni cellulari fino ai computer mainframe di IBM ed è molto più diffuso anche sui personal computer. Red Hat è un azienda altamente profittevole da 200 milioni di dollari di fatturato e una crescita anno su anno del 50 per cento, e gli sviluppatori open source commerciali riforniscono i principali mercati del software. Nei database, per esempio, troviamo un programma come MySQL, che vanta un fatturato annuo di 20 milioni di dollari e ogni anno lo raddoppia. Tra i server applicativi possiamo citare JBoss e tra i server Web Covalent.

Nel mercato dei server il futuro predominio di Linux sembra ormai una conclusione scontata. Michael Tiemann, vice presidente di Red Hat per il settore open source, mi ha riferito che «Unix è già stato sconfitto e non c’è nulla che Microsoft possa fare. Gli unici a poter perdere siamo noi». Naturalmente, Microsoft, che ha rifiutato ogni richiesta di intervista per questo articolo, vede le cose diversamente. Ma le ricerche svolte da IDC indicano che nel mercato dei server i fatturati legati a Linux crescono a tassi superiori al 40 per cento annuo, contro il tasso inferiore al 20 per cento di Windows e che Unix nel frattempo è in netto declino.

Tecnologicamente, Windows e i sistemi Unix proprietari come Sun Solaris hanno ancora qualche vantaggio su Linux: ma quest’ultimo viene considerato da molti più veloce, facile da gestire e più sicuro di Windows. Per quanto riguarda Solaris, «Sun ha un atteggiamento schizoide», osserva Tiemann. «Anche loro sono praticamente defunti». Sun recentemente ha deciso di rilasciare Solaris in versione open source, ma molti osservatori ritengono che la decisione è arrivata in ritardo (Sun ovviamente minimizza. «Distribuire Solaris come open source è un notevole passo avanti», afferma Simon Phipps, tecnoevangelista di Sun). Quando ho chiesto a Tiemann se a suo parere Microsoft possa riottenere il controllo del mercato server nel caso anche Windows diventasse open source, la sua risposta è stata negativa. «Windows è il sistema proprietario di una grandissima azienda», mi ha detto. «Non abbastanza modulare o pulito da permettere a degli estranei di lavorarci su ed è troppo esteso».

Nel mercato dei computer da tavolo i progressi ottenuti da Linux sono meno chiari. C’è un forte disaccordo sulla velocità con cui i sistemi operativi e gli applicativi open source stanno colonizzando il mondo dei PC. IDC ritiene che Linux controlli appena il 3 per cento del mercato mondiale di desktop e che tale quota raddoppierà entro il 2008. Red Hat, Novell, Linspire e altri rivenditori offrono versioni pacchettizzate di Linux ed è possibile acquistare personal computer fissi e portatili già equipaggiati con Linux da molti rivenditori, compresa, curiosamente, la catena di supermercati WalMart. Il browser Firefox, che può funzionare sia sotto Windows sia sotto Linux, detiene già il 5 per cento del mercato globale del software per la navigazione su Internet. E poi c’è il caso di OpenOffice. In uno dei suoi più donchisciotteschi tentativi di recuperare terreno nei confronti di Microsoft, Sun decise alla fine degli anni 1990 di acquistare e rendere open source un piccolo concorrente tedesco di Microsoft Office, proprio nel momento in cui Linux iniziava a mettere in crisi le attività Unix di Sun. OpenOffice può girare su Windows e Linux e, pur essendo un protagonista minore, la sua crescita tra gli utenti individuali e aziendali di tutto il mondo è costante. Viceversa, nell’ultimo trimestre dell’anno solare 2004, i fatturati che Microsoft genera con Microsoft Office e i prodotti correlati sono diminuiti, in base alle dichiarazioni finanziarie della stessa Microsoft, del 5 per cento rispetto all’anno precedente.

Microsoft, beninteso, utilizza formati di documento proprietari e OpenOffice li acquisisce solo in modo imperfetto (per scrivere questo articolo ho provato a far rimbalzare da un programma all’altro alcuni documenti: nessuna informazione è andata perduta, ma spesso la formattazione ne ha sofferto). E Linux continua a essere parecchie lunghezze dietro Windows per quanto concerne la compatibilità con le migliaia di dispositivi periferici per personal computer, il numero di applicazioni e la capacità di lavorare sui palmari Palm e Blackberry. Ma per le operazioni più semplici, OpenOffice funziona bene e la sua compatibilità con i prodotti Microsoft sta migliorando.

Difficile dire se Microsoft abbia ancora lo spazio di manovra necessario per arrestare l’ondata open source. Molti dei prodotti Microsoft per personal computer sono maturi. Pochi utenti necessitano di ulteriori funzionalità e Office mostra segni di uno sviluppo tecnico molto lento. Non meno importante è il fatto che Microsoft dipende sempre di più da prezzi elevati e aggiornamenti forzati per assicurarsi una crescita di fatturato e profittabilità. Ma molte tipologie di utenza semplicemente non possono permettersi i prezzi applicati da Microsoft: studenti, persone a basso reddito, istituti scolastici e la maggior parte delle nazioni in via di sviluppo (si veda South Africa, april 2005 a pag. 50). Oggi i prodotti Microsoft rappresentano una quota significativa del costo complessivo di un personal computer. Non solo il sistema operativo Linux è gratuito o molto economico, ma essendo più piccolo di Windows e aperto a un maggior numero di dispositivi, può essere utilizzato con hardware molto meno costoso.

Le grandi aziende multinazionali e gli organismi governativi come l’Unione Europea, che hanno intuito un cambiamento di assetti, cominciano a chiedere a Microsoft il rilascio di interfacce aperte, cioè di descrizioni pubblicamente disponibili del suo software che possano consentire ad altri programmi di interagire con esso. La Cina in particolare sembra determinata a evitare una eccessiva dipendenza dal software commerciale americano. Il paese asiatico è preoccupato delle possibili dispute commerciali e vuole costruire una propria industria del software; inoltre, teme le vulnerabilità come le cosiddette “porte posteriori”, che possono essere utilizzate per operazioni di spionaggio. Quest’ultima paura non è del tutto irrazionale. Anche se non sono stati resi noti casi di spionaggio contro la Cina che abbiano coinvolto programmi software, altre tecnologie sono state impiegate a tal fine. Cinque anni fa la Cina acquistò da Boeing un jet nuovo fiammante e a una azienda americana venne affidato l’incarico di equipaggiarlo, in Texas, come l’equivalente cinese dell’aereo presidenziale, l’Air Force One. Dopo essere entrati in possesso del velivolo, gli addetti alla sicurezza cinesi vi scoprirono una trentina di dispositivi di intercettazione via satellite altamente sofisticati, nascosti in ogni dove, dalla sala da bagno alla testa del letto presidenziale.

La paranoia geopolitica non è tuttavia il principale motivo del successo dell’open source. La spiegazione più comunemente citata è che un sistema su base volontaria, evoluzionistica e decentralizzata può ottenere risultati migliori di quelli diretti da una struttura gestionale gerarchica (si veda Can Technology Raise Society’s IQ, pag. 80 di questo numero). Comunque, al di là di tutto questo, ci sono motivazioni ancora più strutturali.

Modello open source contro software commerciale

Il software proprietario non viene venduto, ma ceduto in licenza, con un codazzo di rigide norme contro la copia o le modifiche. Chi ha concepito questo schema non era affatto stupido, in quanto serve a ridurre la pirateria e ricompensare il rischio e costringe gli sviluppatori a inseguire la reciproca compatibilità. Inoltre, quando un rivenditore proprietario controlla gli standard di un’intera industria, riesce a generare profitti fantastici. Microsoft da sola ha creato qualche decina di migliaia di milionari attraverso il meccanismo delle stock option. Eppure oggi ci sono letteralmente migliaia di progetti di sviluppo open source come OpenOffice, Firefox, Linux e Apache che sono stati prelevati da Internet in decine di milioni di copie. Come mai?

I prodotti proprietari non possono essere personalizzati dai singoli utenti. La qualità dei programmi è variabile, in parte perché gli utenti esterni non possono esaminare il codice sorgente. Se uno sviluppatore controlla un importante standard di settore, come fa Microsoft, può costringere i clienti ad aggiornarsi – passare a una nuova versione di un programma, versando altro denaro – praticamente a volontà. Inoltre, visto che la dipendenza da uno standard proprietario è molto profittevole, ogni imitazione rappresenta una seria minaccia. Di conseguenza gli sviluppatori di software spendono moltissimi soldi per ottenere brevetti che fungono da deterrente contro le scopiazzature e le cause intentate dagli avversari.

L’aspetto più negativo è che i rivenditori proprietari gestiscono progetti, codice sorgente e tecnologie come segreti da custodire gelosamente. Ma nella programmazione, come in altre attività, la segretezza consente di insabbiare errori e abusi. Il cattivo lavoro sfugge ai controlli; i manager nascondono le informazioni per avanzare di carriera. Per individuare gli errori, le aziende assumono gruppi specializzati in verifica e controlli qualitativi che vengono tenuti separati dai team di sviluppo, ma tutto ciò comporta enormi sprechi. Inoltre, se lo sviluppatore del software ha problemi finanziari o un dirigente perde una battaglia politica interna, un prodotto può languire per anni. Se ad aver problemi sono i clienti, si rivolgono al venditore sperando di essere ascoltati. A volte questo non succede e non è uno spettacolo edificante.

L’open source rovescia questo modello. In base ai termini dell’accordo di licenza open source più diffuso, la GNU General Public License (GPL), il codice sorgente di un programma deve essere reso disponibile ogni qual volta un programma entri in circolazione. Altri programmatori possono farne ciò che vogliono, a una condizione: che ogni modifica apportata avvenga secondo i termini della GPL, vale a dire che il codice sia a disposizione di tutti. La licenza GPL, unita alla cultura meritocratica degli esperti di software, ha prodotto un approccio altamente trasparente e decentralizzato allo sviluppo del software, controllato da comunità di tecnici che decidono la direzione che il loro sforzo dovrà imboccare. Generalmente i gruppi di sviluppo open source rendono pubblici i risultati del loro lavoro, comprese specifiche, codice sorgente, prospetto degli errori e relativi aggiustamenti, piani futuri, proposte di migliorie e discussioni, spesso al vetriolo. Linux è aperto anche in questo senso (e senza alcun dubbio Microsoft lo sorveglia da vicino).

In confronto ai progetti proprietari, nello sviluppo open source ci sono poca gerarchia manageriale, pochi giochi politici, pochi brevetti e marchi e pochi eventi-spettacolo per il lancio dei prodotti. In una parola, meno chiacchiere. A sostenere lo sviluppo di Linux è impegnata una forza lavoro rilevante – almeno diecimila persone – costituita in maggior parte da esperti. Red Hat ha meno di un migliaio di dipendenti, anche se è in forte crescita. Microsoft invece ha 57.000 dipendenti. Da solo, l’ufficio legale di Microsoft costa probabilmente di più dell’intera struttura di gestione del movimento open source. Ed è indiscutibile che per molti ingegneri, la semplicità è una delle principali attrattive della partecipazione ai progetti open source, come volontari o personale stipendiato. «La gente si mette in coda per lavorare da noi», riferisce Tiemann, di Red Hat. «Ci sono talmente tanti programmatori disposti a lavorare sull’open source da permetterci di essere selettivi».

Inoltre, buona parte dei dipendenti specializzati di Microsoft deve lavorare sul controllo della qualità e la correzione degli errori, attività che nei progetti open source spesso sono a costo zero grazie alla “comunità”. In ragione dei suoi tassi di crescita inferiori, Microsoft si trova a essere vittima delle stesse forze su cui un tempo faceva leva: i suoi costi sono mediamente fissi ed elevati, mentre quelli di Linux sono bassi e in diminuzione. Dion Cornett, che si occupa di investimenti in attività open source per conto della società Decatur Jones Equity Partners di Chicago, mi ha dichiarato: «Sulla base della documentazione pubblicata, stimiamo che per Microsoft i costi di sviluppo per i sistemi operativi per i server siano di circa 300 dollari al pezzo. I costi di Sun per Solaris sono anche più elevati. Per Red Hat i costi sono di circa 100 dollari per server ed entro l’anno saranno di 75 dollari».

Ciò nonostante, neppure l’open source è un sistema di produzione perfetto. I suoi punti di forza sono anche le sue carenze. A volte servono decisioni immediate e il modello open source potrebbe non disporre delle entrate necessarie per realizzare ciò che i suoi utenti vogliono e quando lo vogliono. BitMover, rivenditore di strumenti di programmazione, fino a qualche tempo fa ha seguito un approccio intermedio. I suoi prodotti venivano forniti gratuitamente ai programmatori open source a condizione che non fossero utilizzati per creare prodotti concorrenti. Gli sviluppatori di software proprietario, dovevano pagare regolarmente l’importo. Ultimamente, l’azienda ha soppresso la versione gratuita, dicendo che ci sono stati troppi abusi. Larry McVoy, fondatore e amministratore delegato di BitMover, è stato coinvolto in molti progetti open source, ma nutre comunque qualche perplessità su di essi. «Microsoft ha successo perché nell’open source nessuno viene pagato per fare i lavori sporchi, come scrivere noiosi driver per ogni stampante presente sul mercato», egli mi spiega. «Inoltre, l’open source è fondamentalmente una macchina fotocopiatrice che migliora i prodotti esistenti; c’è pochissima innovazione, in parte perché le ricompense sono scarse».

C’è del vero in queste parole. La crescita di richiesta commerciale di prodotti open source attenua i problemi, ma apre la strada al tempo stesso a un nuovo paradosso. Una delle obiezioni all’open source è che alla fine potrebbe creare una nuova generazione di grandi, ricchi e cattivi monopolisti. Davanti alla crescente importanza di Red Hat, i critici non vedono altro che una nuova Microsoft. In un mondo completamente open source, verrebbe da chiedersi, come potrebbe Red Hat detenere il potere che attualmente Microsoft riveste? La spiegazione sta nel valore che i grandi clienti aziendali assegnano a compatibilità, stabilità e servizi. Red Hat analizza ogni singolo pezzo di codice consegnato; certifica le applicazioni; riscrive il suo codice per sette diverse architetture di microprocessore; fornisce e verifica i driver di dispositivo; scrive il codice che ottimizza le prestazioni di specifici computer; garantisce il servizio per sette anni; offre lo stesso prodotto in una quindicina di lingue; risponde al telefono ventiquattr’ore su ventiquattro e sette giorni su sette. I clienti che utilizzano software Red Hat per condurre i loro affari non cambierebbero facilmente fornitore, anche se il codice sorgente venisse messo a disposizione da qualsiasi concorrente. Il codice fornito da Red Hat, insomma, diventa in una certa misura un vero standard dell’ambiente Linux.

Ma con tutto questo, probabilmente Red Hat non avrà mai lo stesso potere che oggi ha Microsoft. Uno dei motivi è che i suoi prodotti sono sottoposti alla clausola GPL e altre aziende possono – e lo fanno – prendere il codice Red Hat e rivenderlo.

Le sorprese del futuro

Visti i suoi notevoli benefici, è interessante speculare sulle possibili evoluzioni del modello open source. Molti ritengono che esso possa essere esteso anche ad altri settori dell’economia. Una possibilità ovvia è il mondo dell’editoria; sono attualmente in corso diversi interessanti esperimenti, compresa Wikipedia, una enciclopedia open source che consente a tutti di inviare un nuovo articolo o di correggere gli articoli già scritti (si veda Larry Sanger’s Knowledge Free-for-All, January 2005). Un altro esempio è la Public Library of Science, che mette gratuitamente a disposizione via Web le pubblicazioni scientifiche commentate, lasciando che i lettori possano riprodurne e utilizzarne i contenuti in altre opere a patto di citare gli autori originari. Lo schema aggira il complesso e costoso (ed enormemente profittevole) meccanismo dell’industria editoriale scientifica proprietaria. Biotecnologie e industria farmaceutica sono ritenute da molti un fertile terreno di sperimentazione dell’open source.

Infine, c’è da chiedersi se le caratteristiche migliori dell’open source possano essere combinate con i vantaggi del modello proprietario. Una possibilità può essere quella di inventare un meccanismo di compensazione per gli sviluppatori indipendenti di open source. I precedenti sono interessanti. Per esempio, nell’industria discografica, i membri della Società americana dei Compositori, Autori ed Editori percepisce un compenso per ogni esecuzione pubblica o radiotelevisiva di un brano. Analoghi diritti alla compensazione potrebbero essere integrati nel codice sorgentge aperto senza scatenare una problematica di dipendenza dai prodotti associata al software commerciale. Venditori e utilizzatori avrebbero l’opzione di accettare o meno il codice che richieda una compensazione; potrebbero riscrivere il codice troppo costoso e rimpiazzarlo; i diritti di compensazione potrebbero essere negoziabili, fino a dare la possibilità di sospenderli automaticamente dopo un certo periodo di tempo.

Che tutto questo accada o meno, non c’è dubbio che si asisterà a un’ulteriore evoluzione. Steve Weber, docente di scienze politiche presso l’Università della California a Berkeley, che ha studiato a fondo l’industria dell’open source ed è stato consulente di IBM e di altre aziende, afferma: «Il modello è ancora molto giovane. Sicuramente evolverà di pari passo con la tecnologia e l’intero settore industriale». I risultati ottenuti sono già notevoli sia dal punto di vista sociale sia da quello tecnologico.

Creatori di tutto il mondo, unitevi; non avete altro da perdere che giacca e cravatta.

A memoria di addetto ai lavori delle tecnologie informatiche, il binomio Wintel, l’industria da 250 miliardi di dollari dominata dal sistema operativo Windows e dai microprocessori Intel, è sempre esistito. Oggi però questo impero viene attaccato dal binomio “Lintel”, una combinazione tra sistema operativo Linux e chip Intel. Alle sue spalle c’è un intero movimento, quello del software open source (codice sorgente aperto) che minaccia di scardinare il predominio di Windows. Davanti a questa sfida, Microsoft mostra i classici sintomi della sindrome dell’incumbent, la malattia del monopolista. Invece di rinnovarsi, Microsoft ricorre alle minacce legali, agli accordi a breve termine e cede alla paura e all’incertezza quando si tratta di rafforzare la propria posizione. Probabilmente, questa strategia non funzionerà. Il sistema operativo Linux e il modello di sviluppo del software open source sono ben lontani dall’essere perfetti, ma ogni giorno che passa aumentano per loro le probabilità di spodestare Microsoft.

Con qualche miglioria, l’open source potrebbe addirittura diventare il modello di riferimento per tutta l’industria della produzione di software. Se così sarà, a nessuno potrà sfuggire l’ironia degli eventi. Il movimento venne inaugurato venti anni fa da un tecnologo “anti-sistema”, che per molto tempo fu ridicolizzato dall’intera industria del computer. Anno dopo anno, silenziosamente, l’open source ha raccolto nuovi adepti, diffondendosi inizialmente tra gli hacker più iconoclasti, in virtù di una struttura legalistica e culturale che offriva loro la libertà dai programmatori “giacca e cravatta”, vale a dire da quell’apparato manageriale, finanziario e legale rappresentato dal settore tecnologico commerciale. Oggi IBM, Hewlett-Packard e Intel hanno sposato la causa di Linux e dello sviluppo open source. L’obiettivo è quello di erodere i prezzi e il potere di Microsoft attraverso la liberalizzazione del mercato di massa del software.

Se dovesse accadere, il paradosso sarebbe ancora maggiore. Microsoft ha ottenuto il suo predominio imitando i prodotti degli altri, incoraggiando la “clonazione” del PC inventato da IBM e cannibalizzando l’industria del software proprietario. Ma oggi, una IBM rivitalizzata e sostenuta da Hewlett-Packard, Dell, Intel e Oracle, sta fomentando una rivoluzione, mentre ogni giorno di più Microsoft somiglia alla vecchia IBM, un monopolio accerchiato che sopravvive solo costringendo il resto del mondo ad acquistare i suoi costosi, invecchiati e sempre più gonfiati prodotti (l’aprile scorso Microsoft ha dichiarato che uno dei suoi prodotti per server potrà utilizzare Linux, una concessione significativa sul piano simbolico ma non certo il sintomo di un cambiamento di rotta).

Come potrebbe comportarsi l’open source senza un avversario come Microsoft è una delle tante questioni aperte che il movimento deve affrontare. Ma bisogna dire che finora non si è mai tirato indietro, trovando sempre in qualche modo una risposta. Nel corso di un recente convegno, a Linus Torvalds, l’inventore del sistema operativo Linux, è stata chiesta un’opinione sulle prospettive di lungo termine del suo sistema. Torvalds ha risposto dicendo che non ama disegnare scenari futuri. Quando si guarda troppo in avanti, egli ha dichiarato, si rischia di non vedere le cose davanti a sé e di inciampare. Comunque la mossa successiva di Linux è del tutto ovvia: diventare in fretta un affare miliardario.

Tutto questo perché malgrado i suoi difetti, il modello open source offre enormi vantaggi. Il più evidente è che il sorgente aperto aiuta a rendere il software più agile e trasparente, limitando drasticamente la possibilità dei �lucchetti” proprietari, che fanno diventare l’utente un ostaggio del venditore del programma acquistato, e scoraggiando quindi gli sviluppatori dal ricorrere ai vari trucchi impiegati contro i concorrenti e i loro stessi clienti. La trasparenza implicita del modello open source toglie al software la sua patina di segretezza e rende più difficile sfuggire alle proprie responsabilità nel caso di una programmazione difettosa. I programmatori scrivono in modo diverso quando sanno che il mondo li sta a guardare. Allo stesso modo, le aziende software agiscono diversamente quando sanno che il cliente che non è soddisfatto di un programma può risolvere il problema da solo o passare a un altro fornitore. Il mercato mostra che la segretezza e le manovre sottobanco associate alla tradizionale industria del software commerciale generano costi elevatissimi, inefficienze e risentimento. Se emerge un’alternativa praticabile, gli utenti sono ben lieti di afferrarla.

La lunga crescita del movimento open source

Il modello open source è stato inventato da Richard Stallman, un informatico del MIT estremamente brillante e noto per il suo scarso entusiasmo nei confronti dei compromessi ideologici o dei profitti aziendali. In risposta alla frammentazione del sistema operativo Unix in svariati dialetti proprietari incompatibili tra loro Stallman si dimise dal MIT nel 1984 e iniziò la sua personale crociata. Cominciò lavorando a un sistema operativo anti-Unix chiamato GNU, acronimo di GNU is Not Unix. Fondò quindi la Free Software Foundation per distribuire i suoi lavori e il concetto di una licenza open source per gestirli (si veda Chi possiederà la cultura?, a pag. XX).

Pur essendo piuttosto dogmatico nella sua antipatia per il mondo degli affari, Stallman è in credito nei confronti di tutto il mondo. Nel 1991, quando il 21enne Linus Torvalds scrisse per il suo PC il kernel – il nucleo di un sistema operativo preposto al controllo dell’hardware del computer – originario del sistema Linux, furono le idee di Stallman a influenzare le decisioni sul modo più opportuno di farlo circolare. Torvalds è un uomo molto pratico, pacatamente fiducioso, che ha dato prova di essere un formidabile leader di progetto oltre che un bravissimo programmatore. La sua creatura destò l’interesse di molti altri programmatori, che cominciarono a inserire nel sistema varie migliorie, sotto la guida informale dello stesso Torvalds. A metà degli anni 1990, Linux trasse vantaggio da due formidabili forze. La prima fu Internet, che rese possibile la distribuzione elettronica del software e la cooperazione tra numerosi programmatori indipendenti. La seconda forza nasceva dalla crescente frustrazione nei confronti dei limiti imposti dai produttori di software commerciale, in particolare Microsoft e Sun Microsystems.

E così Linux entrò nell’era della distribuzione commerciale. Dapprima nel settore di nicchia che lo vede ancora all’avanguardia, quello dei server per il World Wide Web; negli ultimi cinque anni la maggior parte dei server di Internet ha utilizzato il software open source. In una fase successiva, alcuni anni fa, IBM ha iniziato a investire soldi e risorse umane nei progetti open source. IBM, Intel e Dell hanno finanziato Red Hat Software, il maggior rivenditore commerciale del sistema Linux e Oracle ha modificato il suo software per database rendendolo compatibile con Linux. Alla fine del 2003 Novell ha annunciato l’acquisizione per più di 200 milioni di dollari della tedesca SuSE, un piccolo distributore di una delle tante versioni di Linux. IBM a sua volta ha investito 50 milioni di dollari in Novell. IBM, Hewlett-Packard e Dell hanno cominciato a vendere macchine con il sistema Linux preinstallato. IBM è inoltre uno dei supporter della Mozilla Foundation, lo sviluppatore del browser open source Firefox e con Intel, HP e altre aziende ha recentemente costituito gli Open Source Development Labs (OSDL), un consorzio per la promozione dell’uso di Linux in ambito aziendale che ha tra i suoi collaboratori Linus Torvalds e altri sviluppatori open source.

Oggi Linux gira su ogni sorta di dispositivo, dal piccolo router da 80 euro ai telefoni cellulari fino ai computer mainframe di IBM ed è molto più diffuso anche sui personal computer. Red Hat è un azienda altamente profittevole da 200 milioni di dollari di fatturato e una crescita anno su anno del 50 per cento, e gli sviluppatori open source commerciali riforniscono i principali mercati del software. Nei database, per esempio, troviamo un programma come MySQL, che vanta un fatturato annuo di 20 milioni di dollari e ogni anno lo raddoppia. Tra i server applicativi possiamo citare JBoss e tra i server Web Covalent.

Nel mercato dei server il futuro predominio di Linux sembra ormai una conclusione scontata. Michael Tiemann, vice presidente di Red Hat per il settore open source, mi ha riferito che «Unix è già stato sconfitto e non c’è nulla che Microsoft possa fare. Gli unici a poter perdere siamo noi». Naturalmente, Microsoft, che ha rifiutato ogni richiesta di intervista per questo articolo, vede le cose diversamente. Ma le ricerche svolte da IDC indicano che nel mercato dei server i fatturati legati a Linux crescono a tassi superiori al 40 per cento annuo, contro il tasso inferiore al 20 per cento di Windows e che Unix nel frattempo è in netto declino.

Tecnologicamente, Windows e i sistemi Unix proprietari come Sun Solaris hanno ancora qualche vantaggio su Linux: ma quest’ultimo viene considerato da molti più veloce, facile da gestire e più sicuro di Windows. Per quanto riguarda Solaris, «Sun ha un atteggiamento schizoide», osserva Tiemann. «Anche loro sono praticamente defunti». Sun recentemente ha deciso di rilasciare Solaris in versione open source, ma molti osservatori ritengono che la decisione è arrivata in ritardo (Sun ovviamente minimizza. «Distribuire Solaris come open source è un notevole passo avanti», afferma Simon Phipps, tecnoevangelista di Sun). Quando ho chiesto a Tiemann se a suo parere Microsoft possa riottenere il controllo del mercato server nel caso anche Windows diventasse open source, la sua risposta è stata negativa. «Windows è il sistema proprietario di una grandissima azienda», mi ha detto. «Non abbastanza modulare o pulito da permettere a degli estranei di lavorarci su ed è troppo esteso».

Nel mercato dei computer da tavolo i progressi ottenuti da Linux sono meno chiari. C’è un forte disaccordo sulla velocità con cui i sistemi operativi e gli applicativi open source stanno colonizzando il mondo dei PC. IDC ritiene che Linux controlli appena il 3 per cento del mercato mondiale di desktop e che tale quota raddoppierà entro il 2008. Red Hat, Novell, Linspire e altri rivenditori offrono versioni pacchettizzate di Linux ed è possibile acquistare personal computer fissi e portatili già equipaggiati con Linux da molti rivenditori, compresa, curiosamente, la catena di supermercati WalMart. Il browser Firefox, che può funzionare sia sotto Windows sia sotto Linux, detiene già il 5 per cento del mercato globale del software per la navigazione su Internet. E poi c’è il caso di OpenOffice. In uno dei suoi più donchisciotteschi tentativi di recuperare terreno nei confronti di Microsoft, Sun decise alla fine degli anni 1990 di acquistare e rendere open source un piccolo concorrente tedesco di Microsoft Office, proprio nel momento in cui Linux iniziava a mettere in crisi le attività Unix di Sun. OpenOffice può girare su Windows e Linux e, pur essendo un protagonista minore, la sua crescita tra gli utenti individuali e aziendali di tutto il mondo è costante. Viceversa, nell’ultimo trimestre dell’anno solare 2004, i fatturati che Microsoft genera con Microsoft Office e i prodotti correlati sono diminuiti, in base alle dichiarazioni finanziarie della stessa Microsoft, del 5 per cento rispetto all’anno precedente.

Microsoft, beninteso, utilizza formati di documento proprietari e OpenOffice li acquisisce solo in modo imperfetto (per scrivere questo articolo ho provato a far rimbalzare da un programma all’altro alcuni documenti: nessuna informazione è andata perduta, ma spesso la formattazione ne ha sofferto). E Linux continua a essere parecchie lunghezze dietro Windows per quanto concerne la compatibilità con le migliaia di dispositivi periferici per personal computer, il numero di applicazioni e la capacità di lavorare sui palmari Palm e Blackberry. Ma per le operazioni più semplici, OpenOffice funziona bene e la sua compatibilità con i prodotti Microsoft sta migliorando.

Difficile dire se Microsoft abbia ancora lo spazio di manovra necessario per arrestare l’ondata open source. Molti dei prodotti Microsoft per personal computer sono maturi. Pochi utenti necessitano di ulteriori funzionalità e Office mostra segni di uno sviluppo tecnico molto lento. Non meno importante è il fatto che Microsoft dipende sempre di più da prezzi elevati e aggiornamenti forzati per assicurarsi una crescita di fatturato e profittabilità. Ma molte tipologie di utenza semplicemente non possono permettersi i prezzi applicati da Microsoft: studenti, persone a basso reddito, istituti scolastici e la maggior parte delle nazioni in via di sviluppo (si veda South Africa, april 2005 a pag. 50). Oggi i prodotti Microsoft rappresentano una quota significativa del costo complessivo di un personal computer. Non solo il sistema operativo Linux è gratuito o molto economico, ma essendo più piccolo di Windows e aperto a un maggior numero di dispositivi, può essere utilizzato con hardware molto meno costoso.

Le grandi aziende multinazionali e gli organismi governativi come l’Unione Europea, che hanno intuito un cambiamento di assetti, cominciano a chiedere a Microsoft il rilascio di interfacce aperte, cioè di descrizioni pubblicamente disponibili del suo software che possano consentire ad altri programmi di interagire con esso. La Cina in particolare sembra determinata a evitare una eccessiva dipendenza dal software commerciale americano. Il paese asiatico è preoccupato delle possibili dispute commerciali e vuole costruire una propria industria del software; inoltre, teme le vulnerabilità come le cosiddette “porte posteriori”, che possono essere utilizzate per operazioni di spionaggio. Quest’ultima paura non è del tutto irrazionale. Anche se non sono stati resi noti casi di spionaggio contro la Cina che abbiano coinvolto programmi software, altre tecnologie sono state impiegate a tal fine. Cinque anni fa la Cina acquistò da Boeing un jet nuovo fiammante e a una azienda americana venne affidato l’incarico di equipaggiarlo, in Texas, come l’equivalente cinese dell’aereo presidenziale, l’Air Force One. Dopo essere entrati in possesso del velivolo, gli addetti alla sicurezza cinesi vi scoprirono una trentina di dispositivi di intercettazione via satellite altamente sofisticati, nascosti in ogni dove, dalla sala da bagno alla testa del letto presidenziale.

La paranoia geopolitica non è tuttavia il principale motivo del successo dell’open source. La spiegazione più comunemente citata è che un sistema su base volontaria, evoluzionistica e decentralizzata può ottenere risultati migliori di quelli diretti da una struttura gestionale gerarchica (si veda Can Technology Raise Society’s IQ, pag. 80 di questo numero). Comunque, al di là di tutto questo, ci sono motivazioni ancora più strutturali.

Modello open source contro software commerciale

Il software proprietario non viene venduto, ma ceduto in licenza, con un codazzo di rigide norme contro la copia o le modifiche. Chi ha concepito questo schema non era affatto stupido, in quanto serve a ridurre la pirateria e ricompensare il rischio e costringe gli sviluppatori a inseguire la reciproca compatibilità. Inoltre, quando un rivenditore proprietario controlla gli standard di un’intera industria, riesce a generare profitti fantastici. Microsoft da sola ha creato qualche decina di migliaia di milionari attraverso il meccanismo delle stock option. Eppure oggi ci sono letteralmente migliaia di progetti di sviluppo open source come OpenOffice, Firefox, Linux e Apache che sono stati prelevati da Internet in decine di milioni di copie. Come mai?

I prodotti proprietari non possono essere personalizzati dai singoli utenti. La qualità dei programmi è variabile, in parte perché gli utenti esterni non possono esaminare il codice sorgente. Se uno sviluppatore controlla un importante standard di settore, come fa Microsoft, può costringere i clienti ad aggiornarsi – passare a una nuova versione di un programma, versando altro denaro – praticamente a volontà. Inoltre, visto che la dipendenza da uno standard proprietario è molto profittevole, ogni imitazione rappresenta una seria minaccia. Di conseguenza gli sviluppatori di software spendono moltissimi soldi per ottenere brevetti che fungono da deterrente contro le scopiazzature e le cause intentate dagli avversari.

L’aspetto più negativo è che i rivenditori proprietari gestiscono progetti, codice sorgente e tecnologie come segreti da custodire gelosamente. Ma nella programmazione, come in altre attività, la segretezza consente di insabbiare errori e abusi. Il cattivo lavoro sfugge ai controlli; i manager nascondono le informazioni per avanzare di carriera. Per individuare gli errori, le aziende assumono gruppi specializzati in verifica e controlli qualitativi che vengono tenuti separati dai team di sviluppo, ma tutto ciò comporta enormi sprechi. Inoltre, se lo sviluppatore del software ha problemi finanziari o un dirigente perde una battaglia politica interna, un prodotto può languire per anni. Se ad aver problemi sono i clienti, si rivolgono al venditore sperando di essere ascoltati. A volte questo non succede e non è uno spettacolo edificante.

L’open source rovescia questo modello. In base ai termini dell’accordo di licenza open source più diffuso, la GNU General Public License (GPL), il codice sorgente di un programma deve essere reso disponibile ogni qual volta un programma entri in circolazione. Altri programmatori possono farne ciò che vogliono, a una condizione: che ogni modifica apportata avvenga secondo i termini della GPL, vale a dire che il codice sia a disposizione di tutti. La licenza GPL, unita alla cultura meritocratica degli esperti di software, ha prodotto un approccio altamente trasparente e decentralizzato allo sviluppo del software, controllato da comunità di tecnici che decidono la direzione che il loro sforzo dovrà imboccare. Generalmente i gruppi di sviluppo open source rendono pubblici i risultati del loro lavoro, comprese specifiche, codice sorgente, prospetto degli errori e relativi aggiustamenti, piani futuri, proposte di migliorie e discussioni, spesso al vetriolo. Linux è aperto anche in questo senso (e senza alcun dubbio Microsoft lo sorveglia da vicino).

In confronto ai progetti proprietari, nello sviluppo open source ci sono poca gerarchia manageriale, pochi giochi politici, pochi brevetti e marchi e pochi eventi-spettacolo per il lancio dei prodotti. In una parola, meno chiacchiere. A sostenere lo sviluppo di Linux è impegnata una forza lavoro rilevante – almeno diecimila persone – costituita in maggior parte da esperti. Red Hat ha meno di un migliaio di dipendenti, anche se è in forte crescita. Microsoft invece ha 57.000 dipendenti. Da solo, l’ufficio legale di Microsoft costa probabilmente di più dell’intera struttura di gestione del movimento open source. Ed è indiscutibile che per molti ingegneri, la semplicità è una delle principali attrattive della partecipazione ai progetti open source, come volontari o personale stipendiato. «La gente si mette in coda per lavorare da noi», riferisce Tiemann, di Red Hat. «Ci sono talmente tanti programmatori disposti a lavorare sull’open source da permetterci di essere selettivi».

Inoltre, buona parte dei dipendenti specializzati di Microsoft deve lavorare sul controllo della qualità e la correzione degli errori, attività che nei progetti open source spesso sono a costo zero grazie alla “comunità”. In ragione dei suoi tassi di crescita inferiori, Microsoft si trova a essere vittima delle stesse forze su cui un tempo faceva leva: i suoi costi sono mediamente fissi ed elevati, mentre quelli di Linux sono bassi e in diminuzione. Dion Cornett, che si occupa di investimenti in attività open source per conto della società Decatur Jones Equity Partners di Chicago, mi ha dichiarato: «Sulla base della documentazione pubblicata, stimiamo che per Microsoft i costi di sviluppo per i sistemi operativi per i server siano di circa 300 dollari al pezzo. I costi di Sun per Solaris sono anche più elevati. Per Red Hat i costi sono di circa 100 dollari per server ed entro l’anno saranno di 75 dollari».

Ciò nonostante, neppure l’open source è un sistema di produzione perfetto. I suoi punti di forza sono anche le sue carenze. A volte servono decisioni immediate e il modello open source potrebbe non disporre delle entrate necessarie per realizzare ciò che i suoi utenti vogliono e quando lo vogliono. BitMover, rivenditore di strumenti di programmazione, fino a qualche tempo fa ha seguito un approccio intermedio. I suoi prodotti venivano forniti gratuitamente ai programmatori open source a condizione che non fossero utilizzati per creare prodotti concorrenti. Gli sviluppatori di software proprietario, dovevano pagare regolarmente l’importo. Ultimamente, l’azienda ha soppresso la versione gratuita, dicendo che ci sono stati troppi abusi. Larry McVoy, fondatore e amministratore delegato di BitMover, è stato coinvolto in molti progetti open source, ma nutre comunque qualche perplessità su di essi. «Microsoft ha successo perché nell’open source nessuno viene pagato per fare i lavori sporchi, come scrivere noiosi driver per ogni stampante presente sul mercato», egli mi spiega. «Inoltre, l’open source è fondamentalmente una macchina fotocopiatrice che migliora i prodotti esistenti; c’è pochissima innovazione, in parte perché le ricompense sono scarse».

C’è del vero in queste parole. La crescita di richiesta commerciale di prodotti open source attenua i problemi, ma apre la strada al tempo stesso a un nuovo paradosso. Una delle obiezioni all’open source è che alla fine potrebbe creare una nuova generazione di grandi, ricchi e cattivi monopolisti. Davanti alla crescente importanza di Red Hat, i critici non vedono altro che una nuova Microsoft. In un mondo completamente open source, verrebbe da chiedersi, come potrebbe Red Hat detenere il potere che attualmente Microsoft riveste? La spiegazione sta nel valore che i grandi clienti aziendali assegnano a compatibilità, stabilità e servizi. Red Hat analizza ogni singolo pezzo di codice consegnato; certifica le applicazioni; riscrive il suo codice per sette diverse architetture di microprocessore; fornisce e verifica i driver di dispositivo; scrive il codice che ottimizza le prestazioni di specifici computer; garantisce il servizio per sette anni; offre lo stesso prodotto in una quindicina di lingue; risponde al telefono ventiquattr’ore su ventiquattro e sette giorni su sette. I clienti che utilizzano software Red Hat per condurre i loro affari non cambierebbero facilmente fornitore, anche se il codice sorgente venisse messo a disposizione da qualsiasi concorrente. Il codice fornito da Red Hat, insomma, diventa in una certa misura un vero standard dell’ambiente Linux.

Ma con tutto questo, probabilmente Red Hat non avrà mai lo stesso potere che oggi ha Microsoft. Uno dei motivi è che i suoi prodotti sono sottoposti alla clausola GPL e altre aziende possono – e lo fanno – prendere il codice Red Hat e rivenderlo.

Le sorprese del futuro

Visti i suoi notevoli benefici, è interessante speculare sulle possibili evoluzioni del modello open source. Molti ritengono che esso possa essere esteso anche ad altri settori dell’economia. Una possibilità ovvia è il mondo dell’editoria; sono attualmente in corso diversi interessanti esperimenti, compresa Wikipedia, una enciclopedia open source che consente a tutti di inviare un nuovo articolo o di correggere gli articoli già scritti (si veda Larry Sanger’s Knowledge Free-for-All, January 2005). Un altro esempio è la Public Library of Science, che mette gratuitamente a disposizione via Web le pubblicazioni scientifiche commentate, lasciando che i lettori possano riprodurne e utilizzarne i contenuti in altre opere a patto di citare gli autori originari. Lo schema aggira il complesso e costoso (ed enormemente profittevole) meccanismo dell’industria editoriale scientifica proprietaria. Biotecnologie e industria farmaceutica sono ritenute da molti un fertile terreno di sperimentazione dell’open source.

Infine, c’è da chiedersi se le caratteristiche migliori dell’open source possano essere combinate con i vantaggi del modello proprietario. Una possibilità può essere quella di inventare un meccanismo di compensazione per gli sviluppatori indipendenti di open source. I precedenti sono interessanti. Per esempio, nell’industria discografica, i membri della Società americana dei Compositori, Autori ed Editori percepisce un compenso per ogni esecuzione pubblica o radiotelevisiva di un brano. Analoghi diritti alla compensazione potrebbero essere integrati nel codice sorgentge aperto senza scatenare una problematica di dipendenza dai prodotti associata al software commerciale. Venditori e utilizzatori avrebbero l’opzione di accettare o meno il codice che richieda una compensazione; potrebbero riscrivere il codice troppo costoso e rimpiazzarlo; i diritti di compensazione potrebbero essere negoziabili, fino a dare la possibilità di sospenderli automaticamente dopo un certo periodo di tempo.

Che tutto questo accada o meno, non c’è dubbio che si asisterà a un’ulteriore evoluzione. Steve Weber, docente di scienze politiche presso l’Università della California a Berkeley, che ha studiato a fondo l’industria dell’open source ed è stato consulente di IBM e di altre aziende, afferma: «Il modello è ancora molto giovane. Sicuramente evolverà di pari passo con la tecnologia e l’intero settore industriale». I risultati ottenuti sono già notevoli sia dal punto di vista sociale sia da quello tecnologico.

Creatori di tutto il mondo, unitevi; non avete altro da perdere che giacca e cravatta.

Charles Ferguson ha conseguito il dottorato in scienze politiche al MIT, dove ha ultimato le ricerche post-dottorato e dove rientrerà questo autunno, come ricercatore. Ha fondato e diretto la società Vermeer Technologies venduta a Microsoft nel 1996 per 133 milioni di dollari. Ferguson possiede tuttora una notevole quantità di azioni Microsoft, un portafoglio parzialmente ma non completamente tutelato da altri investimenti. Possiede anche una piccola quantità di titoli Red Hat, posizione anch’essa in parte ma non completamente salvaguardata. Non ha altri interessi rilevanti legati ai contenuti di questo articolo.

Charles Ferguson ha conseguito il dottorato in scienze politiche al MIT, dove ha ultimato le ricerche post-dottorato e dove rientrerà questo autunno, come ricercatore. Ha fondato e diretto la società Vermeer Technologies venduta a Microsoft nel 1996 per 133 milioni di dollari. Ferguson possiede tuttora una notevole quantità di azioni Microsoft, un portafoglio parzialmente ma non completamente tutelato da altri investimenti. Possiede anche una piccola quantità di titoli Red Hat, posizione anch’essa in parte ma non completamente salvaguardata. Non ha altri interessi rilevanti legati ai contenuti di questo articolo.

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