Reality show

Intervista con Patrizia Grieco,
Amministratore delegato di Siemens Informatica

Intanto si scopre una nuova Roma. Prima i palazzi del potere – politico o imprenditoriale non faceva differenza – stavano al centro della città, fra le antiche rovine che ne segnavano anche metaforicamente un orientamento nostalgico. Oggi tendono a localizzarsi in periferia, alcuni sulla cosiddetta Tiburtina Valley, dove avrebbero dovuto impiantarsi e maturare le piccole ambizioni della elettronica regionale, altri verso Fiumicino, non si sa bene se per accogliere meglio chi arriva dall’aeroporto o eventualmente per andarsene più in fretta.

Siemens ha scelto una via di mezzo, subito dietro il Luna Park dell’EUR, all’inizio della via Laurentina i cui verdi alberi di alto fusto si rispecchiano nelle vetrate dello studio di Patrizia Grieco, manager di grande polso e visione, che si è fatta le ossa nella mitica Italtel di Marisa Bellisario, fino a occupare la posizione di Amministratore delegato, e che ora è stata chiamata alla stessa carica da Siemens Informatica. Passata al nemico? Poiché Patrizia Grieco è una donna che non evita i problemi, ma se mai li anticipa, la sua risposta precede la nostra domanda ed entra subito in medias res, dove il problema delle cose è piuttosto un problema delle idee.

Cominciamo a dire subito che, nel mondo della scienza e della tecnologia, ma anche in quello delle attività produttive, “passare”, da un settore all’altro, da un’impresa all’altra, persino da una nazione all’altra, non è un problema, ma una necessità. Si passa per accrescere le proprie esperienze, per mantenersi vigili e reattivi nei confronti delle realtà progettuali e produttive emergenti, per fecondare esperienze e realizzazioni.

Se mai, il problema è che nel nostro paese si “passa” poco, in quanto prevale una sorta di pigrizia mentale che talvolta si trasforma in inerzia, in ripetitività, in assuefazione. Sia chiaro: ne faccio un problema personale, ma anche e forse soprattutto un problema nazionale. Cosa è più “nazionale”, cosa risponde di più agli interessi di una comunità e di un sistema produttivo se non anche attraversare le frontiere e adoperarsi per portare in Italia la ricerca, i metodi di lavoro, l’impegno imprenditoriale di altri paesi?

Non parlo di situazioni specifiche che, al massimo, fornirebbero indicazioni locali e parziali, ma di atteggiamenti e comportamenti sistemici, che finiscono per influire negativamente anche sulle realtà singolarmente più promettenti.

Parlo dell’Italia, di un paese potenzialmente ricco di risorse intellettuali e manageriali, che tuttavia non riesce a decollare, né a fare fronte alle difficoltà congiunturali, proprio perché ha vissuto un secolo di un inerte e asfittico capitalismo familiare, che tendeva ad accrescere le proprie fortune, finché ha potuto, senza mettersi davvero in discussione, senza affrontare davvero il cambiamento, senza “rischiare” davvero, per usare un termine che caratterizza o dovrebbe caratterizzare proprio lo spirito imprenditoriale.

Così ora, con risorse che sono diventate scarse, difficilmente accessibili e male distribuite, sono più quelli che si lamentano di quelli che si danno da fare per trovare nuove strade e nuove soluzioni.

La presenza delle multinazionali e, in generale, l’inserimento in un mercato più ampio, come quello continentale e quello mondiale, hanno progressivamente rivelato la trama lenta e logora del sistema imprenditoriale italiano. Questa è la pars destruens, da molti condivisa. Ma quella construens? Oltre a fungere da cartina da tornasole per chi sta avanti e per chi sta indietro, oltre a valere per confronto, cosa possono offrire le multinazionali a un paese come l’Italia, in materia di conoscenze, di tecnologie, di mercati?

A questo proposito, basta dire che, per Siemens, l’Italia è il terzo paese del mondo, con quasi 4 miliardi di euro di fatturato e con 10mila addetti, ai diversi livelli di responsabilità. D’altra parte, non siamo di fronte a un avvento recente, a posizioni conseguite negli ultimi anni di crisi nazionale: Siemens ha 150 anni di vita e da 100 opera in Italia.

Il fatto è che non si tratta di un problema quantitativo. Ancora una volta è la qualità che conta, sia in positivo sia, purtroppo, in negativo. Il sistema Italia rischia di perdere peso.

Per esempio, in Inghilterra Siemens Business Services gestisce la struttura tecnologica della BBC, quella del National Savings & Investments e quella del Parlamento del Galles e ciò comporta non soltanto una presenza cospicua, ma anche una specifica e organica responsabilità di organizzazione e di innovazione. In Inghilterra, e in parte anche in Germania, la Pubblica Amministrazione ha due obiettivi fondamentali, connessi all’innovazione tecnologica: quello di abbassare i costi – in alcuni casi si sono ottenuti risultati in questo senso anche del 20/30 per cento – e quella di rendere un migliore servizio ai cittadini.

In Italia, al contrario, la Pubblica Amministrazione resta invece arroccata sulle proprie strutture e convenienze tradizionali e, per quanti sforzi di modernizzazione stia facendo, non riesce a superare quello che si potrebbe chiamare il gap delle forniture rispetto a più razionali, efficienti e redditizie soluzioni di outsourcing. In termini più tecnici, prevale quindi una problematica frammentazione della catena del valore, che certamente non consente radicali salti di qualità verso scenari integrati, che comportino al tempo stesso un costante aggiornamento tecnologico e una sistematica formazione del nuovo personale.

Se poi rivolgiamo l’attenzione dall’ambito pubblico a quello privato, la situazione appare anche più precaria. Il nostro paese, almeno nei settori in cui opera Siemens Informatica, manifesta tutti i vizi delle proprie virtù. La piccola e media impresa costituisce la spina dorsale del sistema imprenditoriale italiano, ma, proprio perché orientata su componenti innovative legate più al prodotto che al processo, in campo informatico tende a esprimere una domanda tecnologicamente meno raffinata, una domanda sostanzialmente ripetitiva e non innovativa, oltre che di dimensioni contenute.

Una domanda, oltre tutto, che non è cambiata da almeno trent’anni, né a livello territoriale, né a livello funzionale, come nel caso dei distretti industriali o delle stesse strutture universitarie, che dovrebbero per definizione maturare modelli di comportamento di eccellenza.

Il problema dunque sarebbe rilevante più sul versate della domanda che sul versante dell’offerta: ma le difficoltà riguardano solo l’Italia o anche l’Europa? In altre parole, dal suo punto di vista, se l’Italia fatica in Europa, l’Europa fatica nel mondo, in particolare nel confronto con gli Stati Uniti?

Non c’è dubbio che i grandi player mondiali sono prevalentemente americani, anche se in questo campo è necessario distinguere tra l’informatica di prodotto – e in proposito basta citare il primato per ora inattingibile di Microsoft – e l’informatica di servizio, dove esistono anche importanti player europei.

In generale Siemens, nell’elettronica, con 75 miliardi di euro di fatturato, è l’ultimo grande player europeo e si situa al terzo posto nel mondo, preceduto da due gruppi americani (IBM e GE) e seguito da altri americani e dagli asiatici.

Ancora una volta, tuttavia, il problema non concerne soltanto le dimensioni, ma le capacità di innovazione, che certamente costano molto, e quindi richiedono dimensioni adeguate, ma soprattutto impongono una flessibilità organizzativa, che nelle grandi dimensioni trova qualche ostacolo, ma di cui non si può fare a meno.

Da questo punto di vista, se una volta si chiedevano al management prevalenti capacità gestionali, nel senso di conferire motivazione e coerenza alla continuità, oggi si chiedono prevalenti capacità decisionali, che lo predispongano sia alle esigenze di destrutturazione sia a quelle di ristrutturazione. Inoltre, e in ogni parte del mondo, questo nuovo management deve essere in grado di interagire con le strutture pubbliche e private della committenza, giovandosi anche di un alto profilo consulenziale, allo scopo di capire davvero le soluzioni capaci di risolvere i problemi del proprio mercato, senza però dare adito a preoccupazioni connesse alla sindrome del Grande Fratello.

Europa, USA: un confronto senza dubbio importante, se non decisivo. Ma siamo sicuri che sia ancora questo lo scenario, prettamente atlantico, in cui, quanto meno per il settore informatico, vanno valutate le capacità concorrenziali e le possibilità innovative? E i nuovi protagonisti, in primis Cina e India, dove cresce il saper fare e il fare costa ancora poco, quale ruolo potranno giocare? E’ giusto occuparsene; ma preoccuparsene?

Io preferisco pensare ai grandi paesi orientali, che si stanno rapidamente affermando sulla scena della globalizzazione, in termini di opportunità piuttosto che di rischio. Voglio dire che le reazioni di paura mi sembrano rispondere più a una irrazionale difesa di interessi precostituiti e ormai anacronistici, che a una visione aperta e integrata dei nuovi scenari della economia mondiale. Oltretutto, mi sembra anche che tra il dire e il fare, tra le dichiarazioni di principio e le pratiche correnti, ci corre se non il mare, almeno un Rubicone.

In primo luogo, per restare nel settore dell’elettronica, bisogna sfatare l’incidenza del costo del lavoro come fattore di successo di Cina e India e degli altri paesi del Sud Est asiatico. Nei costi totali il costo del lavoro incide per non più del 10 per cento e quindi, se cinesi e indiani stanno facendo passi da gigante, non è perché i loro addetti costano meno, ma perché i loro ingegneri sono più bravi.

E per fortuna che sono più bravi, dal momento che di conseguenza anche noi siamo in grado di reperire operatori qualificati. Siemens Business Services conta attualmente circa 8000 addetti in India e sta avviando nuove attività nelle Filippine. Ma questo è soltanto il riflesso di una strategia articolata a livello mondiale, che prevede per esempio l’installazione di call center in Turchia e in Canada.

Insomma, come nelle imprese nazionali a suo tempo si è passati da una organizzazione per comparti a una organizzazione per progetti, così nel caso delle imprese multinazionali ciò che conta è l’affidabilità del progetto, non dove sia possibile realizzarlo, anche perché spesso è necessario realizzarlo in molte diverse parti del mondo.

Questo richiamo al progetto, o meglio alla capacità di orientarsi per progetti, appare fondamentale anche per il nostro paese. Tornando alla situazione italiana, quali interventi si possono pensare di porre in opera per rilanciare il processo di modernizzazione e per non perdere i più pressanti appuntamenti con il futuro?

Proprio perché l’Italia sembra incapace di cambiare, mentre il resto del mondo cambia in maniera sempre più profonda e accelerata, l’impegno di rinnovamento non può che passare attraverso una combinazione virtuosa di fattori diversi, che dovrebbero investire sia il settore pubblico sia quello privato, sia le condizioni della ripresa sia quelle del rilancio.

Da un lato, infatti, sono indispensabili politiche governative più attente e sensibili all’innovazione, anche se l’innovazione è costosa e richiede soprattutto un respiro più lungo dei continui provvedimenti di emergenza da cui è afflitta la nostra politica economica e industriale, per non parlare della politica della ricerca, di cui si stenta persino oggi a riconoscere le tracce.

Dall’altro lato anche la struttura industriale del paese deve perseguire una logica di eccellenza, che implicherebbe almeno due fattori di promozione: quello della concorrenzialità e quello della sollecitazione progettuale.

Per quanto concerne Siemens Informatica, potrei citare almeno due di queste proiezioni di eccellenza, che tra l’altro coinvolgono direttamente e in maniera cospicua la qualità stessa della vita quotidiana: la prima si trova proprio qui a Roma, dove è nato il Centro di sviluppo per le applicazioni delle smart card; la seconda concerne le problematiche connesse alla registrazione dei dati biomedicali, che servono ad aggiornare costantemente il profilo sanitario di ogni cittadino e che rispondono alla attuale e prevalente vocazione “personalizzata” della sanità. A questo scopo, stiamo avviando un importante progetto con uno degli ospedali più accreditati del paese, che coinvolge l’intero sistema ospedaliero, dai sistemi informativi ai sistemi medicali, dai sistemi di sicurezza alla automazione degli edifici.

Per concludere, non c’è eccellenza senza progetto, ma non c’è progetto senza una visione motivata e motivante del mondo di domani: una visione che non può basarsi soltanto su affermazioni retoriche, su un “sogno” bello e però generico, ma che deve nascere dalla capacità di sintetizzare in maniera convincente e propulsiva le istanze del pubblico e del privato, quelle della domanda e dell’offerta, quelle della dimensione nazionale e della dimensione internazionale.

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