La diplomazia del dialogo

L’egiziana Damietta, importante terminal GNL, è stata scenario dello storico incontro tra San Francesco e il sultano al-Malik al-Kamil, primo atto di una strategia di apertura verso le sponde meridionali del Mare Nostrum, oggi attraversate da nuovi interessi commerciali.

di Franco Cardini (Fonte Abo/Oil)

Italia e Levante, Italia e Oriente, Italia e Asia in genere, Italia e Africa, specie nordorientale. Ce ne sarebbero di cose, da dire. Ma da quando si può cominciare a parlare d’Italia e d’italiani? La questione storica è molto dibattuta: tuttavia esiste un dato sul quale c’è una discreta concordia. L’Italia come realtà socioculturale inizia quando si comincia a veder affiorare, pur nelle sue varianti regionali, un idioma qualificabile come italiano. E questo momento, dopo qualche venerabile precedente altomedievale, si ha da quando un grande poeta ha scelto di redigere non in quel latino al quale lo avrebbe condotto la sua natura di diacono della Chiesa, bensì nel suo vivo e saporoso volgare umbro una delle più belle poesie che siano mai state scritta al mondo, il Cantico delle creature. Ma quel poeta, quel religioso, era a modo suo e avant la lettre un missionario se non addirittura un vero e proprio diplomatico. Si può quindi cominciare da lui.

Francesco e il sultano, tra realtà politica e tradizione orale

Già nel 1217, durante il Capitolo delle Stuoie della sua Fraternitas ormai divenuta Ordo, Francesco d’Assisi aveva disposto l’invio di molti frati nelle terre d’Oltremare, non solo verso la Palestina, ma anche nelle zone sud-orientali del bacino mediterraneo (dall’Egitto alla Grecia).

La provincia ultramarina arriva a inglobare Costantinopoli, la Grecia e le sue isole, l’Asia minore, l’Antiochia, la Siria, l’Egitto, l’isola di Cipro. Ma al 1219 data l’incontro, a Damietta, tra Francesco e il sultano. Si continuerà ancora a lungo, e infinitamente, a discutere, anzi, a polemizzare, anzi, a litigare sul significato della visita di Francesco al sultano, sia in sé e per sé, sia in rapporto al contesto dello sviluppo delle missioni minoritiche.

Si sono davvero incontrati, Francesco d’Assisi e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil, della stessa famiglia del Saladino, fra l’estate e l’autunno del 1219? Pare di sì: o comunque è probabile, dal momento che l’episodio è in varia misura richiamato anche in fonti non francescane; ché, in caso contrario, si potrebbe pensare a una pia tradizione interna all’Ordine.

Esistono difatti cinque testimonianze non tardive e non francescane: la Historia occidentalis del vescovo di San Giovanni d’Acri Giacomo da Vitry, il cronista Ernoul, continuatore della Cronaca di Guglielmo di Tiro; il cronista Bernardo il Tesoriere, epitomatore di Ernoul; l’anonima Histoire d’Eracles empereur et la conqueste de la terre d’outremer, del 1229-31, che conosce Francesco, non parla della visita al sultano ma allude al “male” e al “peccato” che stavano crescendo tra la gente dell’accampamento; infine l’epigrafe funeraria di Fakhr ad-Din Muhammad ibn Ibrahim Fârîsi al cimitero di Qarâfa al Cairo, che a Francesco sembra alludere.

Queste testimonianze corroborano quella di Tommaso da Celano, che rispetto a loro è più recente, e quelle, più recenti ancora, di Giordano da Giano e di Bonaventura – tutte minoritiche, queste tre – che potrebbero altrimenti venir sospettate di aver fondato la leggenda dell’incontro per ragioni e scopi interni all’Ordine o relative alla sua immagine.

Sebbene sia impossibile dire una parola definitiva sull’episodio, è indubbio che almeno simbolicamente questo momento possa essere assunto quale passo iniziale verso un interesse non solo bellico per l’Oriente; anche se, a dire il vero, città come Genova, Pisa, Amalfi, Venezia, già da un paio di secoli avevano scambi commerciali e diplomatici con il sud e l’est del Mediterraneo. Ma certamente dal Duecento, secolo d’oro per lo sviluppo europeo, tali rapporti aumentarono.

Non si può fare a meno di ricordare l’esempio di diplomazia meglio riuscito, ossia la visita al sultano (lo stesso che avrebbe incontrato Francesco) dell’imperatore svevo Federico II. Dopo il fallimento della crociata del 1217-1221 (quando Federico, il quale non aveva nessun interesse a inimicarsi il sultano d’Egitto, i cui territori erano così vicini alla Sicilia e con il quale era, per giunta, in rapporti di amicizia diplomatica, si era ben guardato dal venire in aiuto dei crociati) il nuovo pontefice Gregorio IX pretese che Federico partisse immediatamente in crociata e addirittura, poiché una spedizione pronta nell’autunno 1227 non poté avere inizio a causa di un’epidemia scoppiata fra le truppe, lo scomunicò.

La scomunica scioglieva i sudditi di un sovrano da qualunque obbligo di fedeltà nei suoi confronti: qualunque avversario politico di Federico in Germania, in Italia o in Sicilia avrebbe ora potuto sollevarsi in armi per i propri interessi, proclamando di farlo nel nome della fede. Ciò costrinse Federico a partire (1228), ma non senza aver preso alcune contromisure. Anzitutto, aveva saputo guadagnarsi degli interessi dinastici in Terrasanta sposando l’ereditiera della corona di Gerusalemme, Isabella-Iolanda di Brienne; si presentava quindi in Palestina come legittimo pretendente alla corona, e in quanto tale prevedeva di mettere ordine tra i feudatari e i comuni delle città costiere dalle quali ormai il regno era costituito. Coglieva poi l’occasione per rinsaldare i suoi rapporti di amicizia con il sultano. Difatti, con al-Malik al-Kamil stipulò un trattato in base al quale Gerusalemme gli veniva di nuovo ceduta: ma priva di mura, e con l’esclusione dell’area della moschea di Omar (ritenuta dai cristiani il Tempio di Salomone) che era un luogo santo musulmano. E fu in Gerusalemme che egli cinse solennemente la corona di quel regno (1229), nonostante l’opposizione del clero locale e di quasi tutti i feudatari. Poi rimase alcun mesi in Terrasanta, cercando – senza peraltro riuscirci – di mettere ordine nell’ormai tragica situazione del regno.

L’adozione della Terrasanta e l’intervento papale

Quasi contemporaneamente anche la diplomazia ecclesiastica faceva dei passi avanti in quell’area. Il 1230 è data fondamentale per l’istituzione della Custodia di Terrasanta. Infatti a quest’anno risale il primo riconoscimento ufficiale dell’operato francescano in quei luoghi, contenuto in una bolla di Gregorio IX.

Un forte aiuto all’istituzione della Custodia si deve al re di Napoli che acquistò nel 1333 dal sultano d’Egitto la proprietà del Cenacolo in Gerusalemme trasferendola nel 1342 all’Ordine dei Minori. Ma, tornando al Duecento, non bisogna dimenticare che questo secolo vide anche l’estendersi del raggio d’azione della diplomazia laica ed ecclesiastica fino all’estremo Oriente.

Intorno al 1240 le schiere mongole avevano terrorizzato l’est europeo. Eletto nel 1243, il pontefice Innocenzo IV tenne un duplice atteggiamento nei confronti della minaccia mongola: invitò in diverse occasioni alla crociata contro i tartari; ma, allo stesso tempo, provò a muovere i primi passi di una penetrazione pacifica con la creazione di rapporti diplomatici. Fra le prime missioni vi fu quella del francescano Lorenzo di Portogallo verso l’ilkhanato tartaro di Persia; il suo confratello Giovanni di Pian del Carpine partì poi nel 1245 raggiungendo la capitale mongola, Karakorum.

Anche san Luigi IX di Francia spedì ai tartari i suoi emissari, alcuni dei quali erano religiosi di origine italiana come, il domenicano Ascelino di Cremona che giunse in Persia nel 1247; anche se il viaggio più noto fu quello compiuto dal francescano Guglielmo di Rubruck tra 1252 e 1254, che al pari di Giovanni di Pian del Carpine ha lasciato una memoria scritta di quanto vissuto, più lunga di quella del confratello e di immenso interesse.

Tutto ciò aprì la strada, nella seconda metà del secolo, al grande viaggio del mercante-diplomatico veneziano Marco Polo, che visse in Cina, spostandosi anche in altre regioni dell’Asia, per quasi vent’anni, ponendosi al servizio del Gran Khan e riferì la sua straordinaria avventura nel libro conosciuto in Italia come Il Milione.

Nel 1286 era inoltre partita dall’Italia una missione di grande importanza: quella del francescano Giovanni da Montecorvino, che sostò in India e raggiunse la Cina nel 1294 per fondarvi più tardi a Pechino, nel 1307, la prima diocesi della Chiesa cattolica. Con la fine della pax mongolica e la caduta nel 1368 della dinastia sinomongola degli Yuan, le missioni in Cina divennero più difficili. Si riaffacciarono nuovamente nel giro di circa due secoli: arrivando questa volta dal mare e guidate dalla Compagnia di Gesù.

Ma l’ideologia missionaria della seconda ondata era basata su concezioni molto diverse rispetto a quelle dei francescani e dei domenicani. Primo protagonista di essa fu il padre Alessandro Valignano, nominato nel 1572 visitatore delle missioni delle Indie Orientali. Il Valignano aveva un progetto ambizioso: far penetrare il cristianesimo nei tre più grandi potentati d’Oriente, in India presso il Gran Mogol Akbar, in Giappone e nell’impero cinese alla corte di Pechino. Il migliore interprete del suo metodo basato sull’acculturazione tra cristianesimo latino e culti locali fu il suo discepolo Matteo Ricci: dopo Marco Polo, il viaggiatore italiano più noto in Cina. Nel 1602 egli inaugurò la prima missione cristiana nella Capitale e nel 1609 dette inizio ai lavori della prima chiesa pubblica di Pechino; morì a 58 anni, l’11 maggio del 1610. Sino a quel punto, i convertiti erano circa 3.000.

Nel secolo che seguì, le conversioni salirono a 200.000 e non riguardarono più soltanto i ceti colti, ma tutti gli strati sociali. Nella seconda metà del Seicento, però, sull’onda del successo, cominciarono ad arrivare in Cina anche domenicani e francescani, che entrarono presto in conflitto con i gesuiti su quello che era ormai definito cattolicesimo di “rito cinese”.

La Questione dei Riti venne presentata a Roma e nel 1704 papa Clemente XI dette torto alla Compagnia di Gesù. Ciò dette luogo a una lunga crisi che condusse nel 1724 alla soppressione di questo primo tentativo d’impianto del culto cristiano nell’impero.

I nuovi scenari all’indomani dell’apertura di Suez

Frattanto, la penetrazione diplomatica italiana continuava nel Vicino Oriente. Nel 1422, un’ambasceria fiorentina si recò dal sultano mamelucco al fine di aprire ai mercanti toscani i porti del Cairo; ma anche Venezia inviò a più riprese i suoi rappresentanti.

Senza dubbio l’avvio d’una politica navale fiorentina contribuì a peggiorare i rapporti tra Firenze e Venezia, fino allora caratterizzati da una solida alleanza. Quanto ai turchi ottomani, che avevano conquistato Costantinopoli nel 1453 e che a più riprese minacciarono l’Europa fino ai primi del Settecento, i loro rapporti diplomatici e commerciali con Venezia, con Genova, con Firenze e col regno di Napoli furono tuttavia floridi e i loro ambasciatori ben accolti anche durante i periodi di guerra.

Gli stati italiani preunitari – specie la Repubblica di Venezia, il Granducato di Toscana, il Regno di Napoli – svilupparono una discreta attività diplomatica verso l’Asia: soprattutto – a parte l’impero ottomano – nei confronti della Persia degli shah safawidi e poi qajar, alla volta dei quali partivano spesso (come alla volta della Russia degli czar) proposte sia commerciali, sia di alleanza militare contro gli ottomani. Invece il giovane Regno d’Italia, dopo un decollo in apparenza militare in realtà diplomatico quale la partecipazione sardo-piemontese alla “guerra di Crimea” del 1854, si volse con discreta decisione a valutare il suo ruolo nel Mediterraneo.
A questo scopo già prima della guerra del 1859 il Piemonte si era avvicinato alla Francia di Napoleone III, che aveva allora la leadership nell’ambizioso disegno del taglio dell’istmo di Suez al quale il nostro paese era interessato soprattutto a causa dei suoi rapporti già proto-coloniali con Eritrea e Somalia.

Ma dopo il 1870 e la sconfitta dell’imperatore dei francesi contro la Prussia, che lo obbligò abdicando a vendere il suo pacchetto azionario del Canale di Suez ch’era stato appena inaugurato nel 1869, il Regno d’Italia individuò i suoi nuovi convenienti alleati al tempo stesso negli “Imperi centrali”, con i quali contrasse il patto detto di “Triplice Alleanza”, e nella Gran Bretagna – padrona ormai tanto di Gibilterra quanto di Suez – che manifestava un vivo interesse per l’Italia, per la sua posizione geografica di “molo” che divide in due bacini il Mediterraneo e per le buone prospettive d’investimento industriale e cantieristico.

D’altra parte si guardava alla Francia: ma il fallito accordo del 1882 per la conquista della Tunisia compromise il regime di “buon vicinato” tra Parigi e Roma e suggerì a quest’ultima di orientarsi sempre più su Londra. L’ascesa al trono imperiale germanico del turbolento Guglielmo II, l’ostilità nei confronti dell’Austria date le mire espansionistiche sia italiane sia austro-ungariche sull’Adriatico e sulla penisola balcanica e, infine, la guerra per l’annessione di Tripolitania e Cirenaica contro la Turchia ch’era alleata di Germania e Austro-Ungheria, consigliarono l’Italia – che aveva frattanto manifestato già qualche interesse per il Lontano Oriente e aveva inviato missioni sia in Giappone, sia in Cina – di passare dalla “Triplice Alleanza” con tedeschi e austro-ungarici alla “Triplice Intesa” con francesi, inglesi e russi. E fu l’ingresso nel 1915, nella prima guerra mondiale.

La Grande Guerra fu un’immane tragedia, uno spaventoso lavacro di sangue. Ma ciò non toglie che l’Italia fosse un attore di secondo piano nel conflitto e che, per questo, le potenze vittoriose la trattassero alla fine di esso con molti meno riguardi di quanto il governo italiano avrebbe sperato; e anche che molte promesse di vantaggi economici e ampliamenti territoriali venissero disattese. Nel secondo dopoguerra, un’Italia dissestata e dolorante riprese tuttavia, tra le altre cose, anche il cammino diplomatico, base del quale erano, da una parte, un residuo di credibilità internazionale (che aveva contribuito a far riconoscere al paese l’amministrazione fiduciaria della Somalia fino al 1960), dall’altra la sua adesione alla NATO che la induceva a muoversi nella scia della leadership statunitense. Tuttavia, all’interno di questo schema dalla strette maglie, il paese riuscì a riprendere quota e a guadagnare credibilità grazie non solo a scelte diplomatiche caute e calibrate, ma altresì a personaggi come Enrico Mattei che riuscì a fare dell’Eni il centro di una vera e propria “diplomazia parallela” e come il giurista Giorgio La Pira, sindaco “santo” di Firenze, austero cattolico fautore di un messaggio di giustizia sociale e creatore dei “Colloqui Mediterranei” che fra gli Anni Cinquanta e Sessanta segnarono gli amichevoli rapporti tra Italia e mondo arabo.

La crisi della “prima repubblica” italiana e i febbrili avvenimenti dell’ultimo quarto di secolo hanno portato nuovi e non sempre positivi mutamenti in una politica estera italiana che per più versi è sembrata, per forza di cose, conformisticamente votata a una sorta di “vocazione alla subalternità” rispetto alla superpotenza statunitense e ai suoi alleati. Qualche sparso e disordinato sintomo di originalità si è semmai presentato durante il “ventennio berlusconiano”, con improvvisate aperture verso la Russia o l’Iran, mentre proprio di recente – sull’onda delle crisi libica e siriana – il governo italiano ha dato segni di un rinnovato interesse per l’Africa e l’Asia, senza dubbio connesso ai problemi delle migrazioni e della minaccia terroristica, ma anche alla prospettiva di apertura verso risorse e mercati importanti. Ciò potrebbe preludere a una nuova era politico-diplomatica e, magari a nuove e più ampie alleanze. Come nel 1954 la scoperta del metano al largo dell’Egitto offrì una splendida occasione all’originale inventiva di Enrico Mattei, oggi quella dei nuovi giacimenti di petrolio e di metano individuati nelle acque internazionali del Mediterraneo orientale potrebbe rappresentare per l’Italia una nuova provvida occasione economica, tecnologica ma anche diplomatica.

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Franco Cardini

Fiorentino, è professore emerito di Storia medievale presso l’istituto Italiano di Scienze Umane, oggi confluito nella compagine della Scuola Normale Superiore di Pisa. È Directeur d’Etudes presso l’Ecole des Hautes Etudes en Science Sociales di Parigi e Fellow della Berenson Foundation/Harvard. Si è occupato soprattutto di ricerche sui rapporti tra Europa e paesi musulmani tra medioevo ed età moderna.

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(sa)

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