Misurare l’inquinamento per difendere la natura

Una strada per raggiungere l’obiettivo di difendere la natura la offrono i campionatori biomimetici passivi, costituiti da film di polietilene a bassa densità precaricati con standard interni a concentrazioni determinate impiegati come riferimento.

di Luca Longo

L’inquinamento dei terreni, dei sedimenti e delle acque prodotto da contaminanti organici rilasciati da attività umane ha raggiunto livelli preoccupanti in aree sempre più vaste, soprattutto nei Paesi con un minore livello di sviluppo economico e sociale.

Particolare interesse rivestono gli inquinanti persistenti che si accumulano nell’ambiente senza la possibilità di una rapida degradazione in sostanze innocue. Anche in Italia, ad esempio, dopo oltre 40 anni alcune aree sono ancora contaminate dal para-diclorodifeniltricloroetano (DDT) – e dal suo prodotto di degradazione diclorodifenildicloroetilene (DDE) – introdotto nel secondo dopoguerra per combattere le zanzare, e quindi la diffusione della malaria e del tifo, ma proibito negli anni settanta per i suoi gravi effetti cancerogeni.

Per questo, numerose attività di ricerca vengono orientate verso lo sviluppo di tecnologie in grado di individuare e quantificare natura, posizione e concentrazioni degli inquinanti nocivi per l’ecosistema. Il comune obiettivo è l’individuazione di metodi di campionamento ed analisi in grado di soddisfare i requisiti imposti dalle autorità di regolamentazione delineando protocolli affidabili, economici e semplici da utilizzare.

I metodi tradizionali di campionamento di terreni e sedimenti si basano sul prelievo diretto con carotaggi o dragaggi seguito dalla determinazione della concentrazione degli inquinanti nei campioni prelevati. Si tratta di tecniche invasive che, oltre ad essere costose, possono in alcuni casi portare ad una involontaria mobilitazione – in forte concentrazione e in zone localizzate – di inquinanti accumulatisi per anni che altrimenti sarebbero rimasti intrappolati nella matrice.

Inoltre, con queste tecniche si determina solo la concentrazione totale del contaminante. Contrariamente alle apparenze, questa misura non fornisce una indicazione sufficiente per valutare l’impatto ambientale legato a quel determinato inquinante perché non considera che solo una frazione del contaminante totale presente nel suolo è effettivamente mobilizzabile e biodisponibile; quindi in grado di comportare un rischio reale per l’ambiente.

Per ovviare a questo problema, sono state sviluppate tecniche di campionamento basate sulla esposizione di alcune specie di organismi bentonici – di solito molluschi come vongole o cozze d’acqua dolce (Mya Arenaria, Unio pictorum,…) – e sulla successiva analisi del reale bioaccumulo dell’inquinante nei grassi dei molluschi. Queste tecniche si prestano, però a diverse possibilità di errori di valutazione dovuti alla biologia del molluschi stessi ed alle condizioni ambientali e stagionali che influenzano il loro metabolismo. Inoltre, non si tiene conto delle differenze fra la loro affinità verso quell’inquinante rispetto a quella di tutte le specie animali e vegetali realmente presenti nell’ambiente e quindi potenzialmente danneggiabili dall’inquinante stesso.

Oggi le tecniche di monitoraggio si stanno orientando verso la valutazione diretta dei contaminanti biodisponibili mediante campionamento passivo. Sono basate sulla diffusione passiva dei contaminanti idrofobici dalla fase acquosa presente nel sedimento o nel suolo ad uno speciale campionatore inserito nella matrice stessa. I contaminanti disciolti in acqua si ripartiscono tra la matrice ed il campionatore secondo leggi matematiche facilmente sviluppabili.

Le metodologie di campionamento passivo sono in grado di stimare direttamente le attività chimiche di contaminanti idrofobici in matrici complesse come i sedimenti, basandosi sul fatto che in sistemi all’equilibrio l’attività della specie chimica in una qualsiasi fase è uguale all’attività in ogni altra fase.

Presso il Centro Ricerche Eni per le Energie Rinnovabili e l’Ambiente sono stati inventati e provati sul campo originali campionatori biomimetici passivi costituiti da film di polietilene a bassa densità precaricati con standard interni a concentrazioni determinate impiegati come riferimento. I campionatori vengono infilati verticalmente nella matrice e lasciati esposti al contaminante presente fino al raggiungimento dell’equilibrio di ripartizione fra matrice e campionatore, quindi permettendo di mediare le concentrazioni su un arco temporale molto più lungo di quello dei metodi tradizionali di carotaggio o dragaggio. Recuperati ed analizzati i campionatori, si può calcolare la concentrazione degli inquinanti biodisponibili presenti nell’acqua interstiziale del sedimento e nella colonna d’acqua soprastante.

Per calibrare i campionatori “in situ”, si valuta la concentrazione residua degli standard interni dopo che il campionatore ha avuto modo di rilasciare gli standard all’esterno secondo gli stessi meccanismi di adsorbimento degli inquinanti. A questo scopo sono impiegati composti marcati che non interferiscono analiticamente e presentano caratteristiche chimico-fisiche simili a quelle delle molecole inquinanti.

La pellicola estratta viene sezionata a diverse altezze per permettere di valutare il profilo della concentrazione degli inquinanti con la quota. Gli inquinanti vengono estratti con solvente e quindi concentrati e inviati all’analisi gascromatografica combinata con spettrometria di massa.

Questo protocollo – sviluppato presso il centro ricerche Eni di Novara in collaborazione con il CNR e l’Università del Piemonte Orientale – relativo al monitoraggio con i campionatori passivi per la determinazione dei tristemente noti DDT e DDE nei sedimenti, è stato ufficializzato con la sua pubblicazione nell’ultimo numero del Notiziario dei metodi analitici IRSA a cura dell’Istituto di Ricerca sulle Acque del CNR, che rappresenta il riferimento nazionale per la legislatura del settore.

(sa)

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