La pietra della follia

Il progresso tecnologico implica necessariamente un progresso nella nostra capacità di dare ordine al reale? Ma oggi, nell’era del metaverso, cosa può venire definito reale? Sono queste alcune delle incalzanti e insidiose domande che risuonano nelle pagine del nuovo libro di Benjamìn Labatut

Tomaso Pignocchi

H. P. Lovecraft, il tetro scrittore americano inventore di un filone assolutamente unico e originale di letteratura dell’orrore; David Hilbert, il matematico tedesco che formulò il teorema di finitezza e che tentò di ricondurre tutta la matematica alla logica; Philip K. Dick, probabilmente il più famoso e originale scrittore di fantascienza del ventesimo secolo, nei lavori del quale la sottile linea tra reale e immaginario, tra normalità e follia, sembra non essere chiara neanche all’autore stesso. Questi tre grandi intellettuali sono accomunati dal fatto che la loro opera ha aperto uno squarcio nel tessuto falsamente ordinato della quotidiana normalità: uno squarcio attraverso cui è possibile intravedere una realtà governata dal caos. E quindi dall’inconoscibile, dall’ingovernabile.

Lovecraft, Hilbert e Dick, apparentemente senza relazioni tra loro, ma animati dalla stessa inquietudine intellettuale, si alternano e s’intrecciano nell’ultimo breve saggio dello scrittore cileno Benjamìn Labatut, La pietra della follia (Adelphi 2021), facendosi carico di tre fondamentali e inquietanti domande, nel solco della precedente e fortunatissima opera dello stesso Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, vero e proprio caso editoriale dello scorso anno. Esiste una relazione diretta tra conoscenza e comprensione? Il progresso tecnologico implica necessariamente un progresso nella nostra possibilità di dare ordine al reale? Infine, cosa è la pazzia?

Per secoli abbiamo convissuto con «l’illusione che questo nostro mondo sia conforme a un ordine, un ordine che possiamo non soltanto riconoscere, ma persino comprendere», scrive Labatut: un «delirio metafisico», una sicurezza priva di fondamento, che aveva però avuto l’indubbio merito di guidare la mano e la mente del filosofo e dello scienziato, indicandogli la via lungo un percorso in cui teoria e pratica avevano sempre viaggiato a braccetto. Se da un lato la riflessione teoretica mirava ad ampliare la conoscenza portandola nel cuore stesso della realtà, dall’altro l’implementazione tecnologica ne corroborava o smentiva le ipotesi avanzate. Un percorso in cui a ogni tappa, a ogni conferma o confutazione, entrambe queste sfere guadagnavano qualcosa: la teoria poteva aggiungere mattoni sempre più solidi al proprio edificio e la pratica ribadire e accrescere la propria affidabilità.

Questo rapporto simbiotico tra scienza e tecnologia oggi sembrerebbe essersi improvvisamente rotto, mettendo in crisi anche il rapporto tra conoscenza e comprensione. In effetti la tecnologia, svincolata dal ruolo di ancella della teoria, non è più un semplice strumento per operare sulla realtà, ma sta diventando creatrice essa stessa di nuove realtà. Sono proprio i nuovi prodotti tecnologici, dalle realtà virtuali alle intelligenze artificiali, a mettere in discussione il modello illuministico di un mondo razionalmente ordinato e ordinabile.

La stessa prodigiosa tecnologia che chiamiamo genericamente Rete, per importanza e conseguenze sembra avere pochi paragoni nell’ambito della storia universale. Nessuna scoperta o invenzione ha ampliato le possibilità di esperienza umana allo stesso modo della potenziale interconnessione totale di ogni essere umano con l’altro. La Rete, in quanto luogo sociale, è innegabilmente un ulteriore piano di esperienza: un altro mondo – allo stesso tempo connesso e separato rispetto a quello dell’esperienza normale – o meglio (o peggio) la possibilità di infiniti di mondi, individuali o sovraindividuali. Pensiamo ai social network, di cui lo sbandierato “metaverso” potrebbe costituire l’approdo finale: per l’utente assiduo (e assuefatto) di queste piattaforme diviene sempre più difficile discernere tra realtà propria e realtà altrui, tra realtà personale e realtà condivisa. Come scriveva Antonio Gramsci, in una citazione posta da Labatut in esergo, «la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».

È qui che entra in campo la esigenza di porre in discussione il concetto stesso di follia, ovvero della percezione distorta e assolutamente personale del reale: una percezione che non collima con quella condivisa dalla maggioranza. Questa concezione della follia era corroborata da un’idea di scienza come specchio in grado di descrivere e rendere intellegibile la realtà per quel che è. Ma anche questa idea di una realtà oggettiva è stata smentita dalla fisica moderna, che ci riconsegna una realtà in cui ogni cosa è sempre e solo in relazione a qualcos’altro e mai in sé, mai in senso assoluto. A questo punto si può ancora parlare di follia? O si tratta semplicemente di una realtà prospettica, una realtà relativa, un individuale modo di dare senso al mondo che ci circonda?

In una situazione di questo genere chi può dire che la visione difforme del cosiddetto pazzo sia quella errata? Cosa distingue il pazzo dalla persona “normale”? Quale è il discrimine tra l’irreale e il reale? La pietra della follia ci suggerisce che forse la soluzione al problema non risiederebbe più tanto nel trovare una risposta a queste domande, quanto nello smettere, serenamente, di porsele. In questo senso, forse paradossale, va intesa la “pietra della follia” che viene estratta dalla testa del malcapitato nella quattrocentesca tavola di Hieronymus Bosch, da cui Labatut ha mutuato il titolo della sua requisitoria contro i «castelli in aria» che «siamo sempre pronti a sostenere, costi quel che costi».

(gv)

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