Cosa sappiamo dei rapporti tra cambiamento climatico e carne coltivata in laboratorio

La carne sintetica arriva negli Stati Uniti. È difficile stabilire se contribuirà a ridurre le emissioni prodotte dall’industria alimentare.

Presto il menu del vostro ristorante di hamburger preferito potrebbe includere non solo opzioni a base di carne, funghi e fagioli neri, ma anche polpette confezionate con cellule animali coltivate in laboratorio. 

Gli Stati Uniti hanno appena approvato la vendita di carne coltivata e l’industria, composta da oltre 150 aziende, sta raccogliendo miliardi di dollari per portare i propri prodotti nei ristoranti e nei negozi di alimentari. In teoria, questa dovrebbe essere un grande risultato per l’ambiente.

Uno dei principali fattori che spingono le aziende a puntare sulla carne coltivata in laboratorio è il suo potenziale nel ridurre l’impatto climatico della nostra attuale industria alimentare. Le emissioni di gas serra prodotte dagli animali che mangiamo (soprattutto mucche) rappresentano quasi il 15% del totale globale, una percentuale che si prevede aumenterà nei prossimi decenni.

Ma se la carne coltivata sia migliore per l’ambiente non è ancora del tutto chiaro. 

Questo perché ci sono ancora molte incognite su come funzionerà la produzione su scala commerciale. Molte delle startup stanno pianificando solo ora il passaggio dai laboratori di ricerca a strutture più grandi per iniziare a produrre cibo che clienti reali e paganti potranno finalmente mangiare.

Il modo in cui avverrà questo cambiamento determinerà se queste nuove opzioni alimentari saranno abbastanza economiche da arrivare nei carrelli delle persone e se la carne coltivata potrà mantenere le sue grandi promesse sul clima. 

Muu-ovetevi, mucche 

L’allevamento di bestiame, soprattutto di bovini, è notoriamente ad alta intensità di emissioni. L’alimentazione degli animali negli allevamenti richiede molta terra ed energia, che possono produrre emissioni di anidride carbonica. Inoltre, le mucche (e alcuni altri animali, come le pecore) producono grandi quantità di metano durante la digestione. Sommando il tutto e facendo una media globale, un chilogrammo di carne bovina può produrre emissioni equivalenti a circa 100 chilogrammi di anidride carbonica (le stime esatte possono variare a seconda del luogo in cui le vacche vengono allevate, del tipo di alimentazione e della gestione degli allevamenti).

A livello cellulare, la carne coltivata è fatta fondamentalmente con gli stessi ingredienti della carne che mangiamo oggi. Prelevando un campione di tessuto da un giovane animale o da un uovo fecondato, isolando le cellule e facendole crescere in un bioreattore, gli scienziati possono produrre carne di origine animale senza i vincoli dell’alimentazione e dell’allevamento degli animali da macello.

L’US Department of Agriculture (USDA) ha appena dato a due aziende californiane, Eat Just e Upside Foods, il via libera alla produzione e alla vendita dei loro prodotti a base di pollo coltivato. Gli Stati Uniti diventano così il secondo Paese ad autorizzare la vendita di carne coltivata in laboratorio, dopo Singapore.

La carne coltivata produrrà comunque emissioni, poiché è necessaria energia per far funzionare i bioreattori che ospitano le cellule durante la loro crescita. Oggi, negli Stati Uniti e nella maggior parte del mondo, è probabile che si tratti di energia da combustibili fossili. Le fonti rinnovabili potrebbero essere disponibili in modo sufficientemente ampio e costante per alimentare le strutture che producono carne coltivata. Tuttavia, anche in questo caso, i bioreattori, le tubature e tutte le altre attrezzature necessarie per gli impianti di produzione hanno spesso emissioni associate che è difficile eliminare del tutto. Inoltre, le cellule animali devono essere nutrite e curate, e anche la catena di approvvigionamento che ne deriva comporta delle emissioni.

E le emissioni della carne coltivata potrebbero essere significative. Alcuni dei primi lavori in questo campo si sono basati su materiali e tecniche prese in prestito dall’industria biofarmaceutica, dove le aziende talvolta coltivano cellule per produrre farmaci. Si tratta di un processo delicato e strettamente regolamentato che coinvolge ingredienti di elevata purezza, reattori costosi e molta energia, afferma Edward Spang, docente di scienza e tecnologia alimentare presso l’Università della California, Davis. 

Spang e il suo team hanno cercato di stimare l’impatto climatico della carne coltivata ipotizzando le attuali tecniche di produzione. Per quantificare i potenziali benefici per il clima, i ricercatori hanno esaminato l’impatto ambientale totale dell’agricoltura animale e della carne coltivata in un’analisi nota come valutazione del ciclo di vita. Questo tipo di analisi somma tutta l’energia, l’acqua e i materiali necessari per realizzare un prodotto, indicando il risultato in termini di emissioni equivalenti di anidride carbonica. 

In un recente studio preprint, non ancora sottoposto a peer-review, Spang ha stimato il potenziale di riscaldamento globale totale della carne coltivata in diversi scenari basati su ipotesi allo stato attuale dell’industria.

Gli scenari sono stati suddivisi in due categorie. La prima serie ipotizzava che la carne coltivata sarebbe stata prodotta con processi e materiali simili a quelli utilizzati nell’industria biofarmaceutica, compresa una fase di purificazione ad alta intensità energetica per rimuovere i contaminanti. Gli altri scenari ipotizzavano che la produzione di carne coltivata non richiedesse ingredienti ad altissima purezza e si affidasse invece a input simili a quelli utilizzati oggi nell’industria alimentare, con un fabbisogno energetico ed emissioni inferiori. 

Le due serie hanno generato risultati ed esiti climatici molto diversi. Un processo di tipo alimentare produce da 10 a 75 chilogrammi di emissioni di anidride carbonica, un valore inferiore alla media globale delle emissioni prodotte dall’industria della carne bovina e in linea con la produzione attuale di alcuni Paesi. Nel processo di tipo biofarmaceutico, invece, la carne coltivata comporta emissioni significativamente maggiore rispetto alla produzione di carne bovina odierna: tra 250 e 1.000 chilogrammi di anidride carbonica per ogni chilogrammo di carne bovina, a seconda dello scenario specifico.  

Dov’è la bistecca? 

Lo studio di Spang, apparso in aprile, ha scatenato titoli di giornale a effetto sul potenziale di emissioni alle stelle. Lo studio ha anche attirato rapide critiche da parte di alcuni operatori del settore e una lettera aperta ampiamente diffusa che mette in discussione le sue ipotesi.  

Gli esperti hanno contestato in particolare l’ipotesi che i materiali utilizzati per la produzione di carne coltivata debbano utilizzare ingredienti di tipo farmaceutico e passare attraverso intensi processi di purificazione per rimuovere i contaminanti chiamati endotossine. Si tratta di pezzi della membrana esterna di alcuni batteri e vengono rilasciate durante la crescita e la morte dei microbi. La loro rimozione è spesso necessaria nei processi biofarmaceutici, poiché anche quantità minime possono danneggiare la crescita di alcuni tipi di cellule e provocare risposte immunitarie.   

Il processo che rimuove questi contaminanti è il principale responsabile delle elevate emissioni osservate in una serie di scenari dello studio. Tuttavia, questa fase di purificazione non sarà necessaria nella produzione commerciale di carne coltivata, afferma Elliot Swartz, scienziato del gruppo industriale Good Food Institute e tra gli autori della lettera aperta. I diversi tipi di cellule sono colpiti dalle endotossine in modo diverso e quelle che saranno utilizzate per la carne coltivata dovrebbero essere in grado di tollerare livelli più elevati, il che significa che è necessaria una minore purificazione, afferma Swartz. 

I risultati dello studio differiscono da quelli di molte precedenti analisi del settore, che in generale hanno rilevato che la carne coltivata ridurrebbe le emissioni rispetto alla produzione di carne bovina convenzionale. La maggior parte di questi studi presuppone che i produttori di carne coltivata siano in grado di evitare i metodi ad alta intensità energetica descritti nel preprint e che, invece, si sviluppino fino a raggiungere grandi strutture commerciali e progrediscano verso l’utilizzo di ingredienti di qualità alimentare più ampiamente disponibili. 

L’esperienza fornirà un quadro migliore del potenziale impatto climatico dell’industria, afferma Pelle Sinke, ricercatore presso CE Delft, una società di ricerca e consulenza indipendente che si occupa di energia e ambiente. “In tutte le tecnologie innovative c’è un’enorme curva di apprendimento”, afferma Sinke. “Non sono sicuro che dovremmo preoccuparci così tanto del fatto che la carne coltivata aggiungerà un enorme impatto al clima globale”.  

In un’analisi pubblicata nel gennaio 2023, lui e il suo team hanno stimato le emissioni associate alla carne coltivata nel 2030, ipotizzando che il processo di produzione possa utilizzare ingredienti di qualità alimentare e che raggiunga la scala commerciale nel prossimo decennio. Secondo questo studio, il potenziale impatto sul clima è compreso tra i 3 e i 14 chilogrammi di anidride carbonica per chilogrammo di carne coltivata. 

La collocazione delle emissioni totali della produzione di carne coltivata in questo intervallo dipende in gran parte dalla provenienza dell’energia per il funzionamento dei bioreattori: se proviene dalla rete elettrica, che si baserà ancora in parte sui combustibili fossili, l’impatto delle emissioni di carbonio sarà molto più elevato rispetto a quello che si avrà se si utilizzeranno le energie rinnovabili per alimentare la struttura. Dipende anche da quali ingredienti sono presenti nei terreni di coltura delle cellule. 

In ogni caso, la ricerca di Sinke ha rilevato che le emissioni totali sarebbero significativamente inferiori a quelle generate dalla produzione di carne bovina, che secondo lo studio equivale a 35 chilogrammi di anidride carbonica in un sistema ottimizzato in Europa occidentale (il pollo e la carne di maiale si attestano rispettivamente a circa tre e cinque chilogrammi di anidride carbonica). 

L’analisi di Sinke non è la sola a stimare che la carne coltivata potrebbe avere un impatto climatico minore rispetto all’agricoltura convenzionale. Una prima analisi del settore, pubblicata nel 2011, ha stimato che la produzione di carne coltivata ridurrebbe le emissioni di gas serra tra il 78% e il 96% rispetto alla produzione di carne in Europa, ipotizzando che la produzione avvenga su scala commerciale. 

La carne coltivata potrebbe avere importanti benefici per il clima, afferma Hanna Tuomisto, professore associato presso l’Università di Helsinki e autore dello studio del 2011. Recentemente Tuomisto ha pubblicato un altro studio che ha rilevato potenziali benefici climatici per la carne coltivata. Tuttavia, aggiunge, il vero impatto del settore sul clima deve ancora essere determinato. “Ci sono ancora molte domande aperte, perché non sono molte le aziende che hanno costruito qualcosa su larga scala”, ha detto Tuomisto. 

Fino a quando le mucche non torneranno a casa 

L’aumento della produzione di carne coltivata in impianti più grandi è un processo in corso.

Upside Foods, una delle due aziende che hanno ricevuto il recente riconoscimento dell’USDA, gestisce attualmente un impianto pilota con una capacità massima di circa 400.000 libbre (180.000 chilogrammi) all’anno, anche se la sua capacità produttiva attuale è più vicina alle 50.000 libbre. Il primo impianto commerciale dell’azienda, attualmente in fase di progettazione, sarà molto più grande, con una capacità di milioni di libbre all’anno.  

“In tutte le tecnologie innovative c’è un’enorme curva di apprendimento”. 

Pelle Sinke

Secondo le stime interne, i prodotti di Upside dovrebbero richiedere meno acqua e suolo per essere prodotti rispetto alla carne convenzionale, ha dichiarato Eric Schulze, VP of global scientific and regulatory affairs dell’azienda. Tuttavia, ha aggiunto, “dovremo produrre su scala più ampia per misurare davvero e comprendere l’impatto che vogliamo avere”. 

Eat Just sta attualmente gestendo un impianto dimostrativo negli Stati Uniti e ne sta costruendo uno a Singapore. Questi impianti comprendono reattori con capacità rispettivamente di 3.500 e 6.000 litri. L’azienda prevede di produrre milioni di chili di carne all’anno in un futuro impianto commerciale contenente 10 reattori con una capacità di 250.000 litri ciascuno.  

Ci sono già “molte ragioni per essere fiduciosi” riguardo all’impatto climatico della carne coltivata, ha dichiarato Andrew Noyes, VP of communications di Eat Just. “Tuttavia, il raggiungimento di questi obiettivi dipende da diversi fattori legati all’ottimizzazione e alla scalabilità del nostro processo produttivo, nonché alla progettazione di futuri impianti di produzione su larga scala”. 

Anche se le recenti attività normative sono state celebrate come una pietra miliare per l’industria della carne coltivata, questi prodotti non saranno presto presenti nel vostro ristorante di hamburger. Per ridurre i costi di produzione, le aziende devono ancora costruire impianti più grandi e farli funzionare correttamente.

Parte di questa crescita significherà abbandonare le attrezzature e gli ingredienti più costosi che il settore ha preso in prestito da altre aziende, afferma Jess Krieger, fondatore e CEO di Ohayo Valley, un’azienda che produce carne coltivata: “Non è così che faremo in futuro”. I fattori che hanno portato al peggiore scenario di emissioni di Spang, come la purificazione intensiva, i reattori costosi e i supporti di tipo farmaceutico, non sono necessari per la produzione.  

È vero che le aziende in fase iniziale utilizzano ancora spesso ingredienti di livello farmaceutico, afferma Elliot Swartz del Good Food Institute. Tuttavia, sul mercato sono già disponibili opzioni più economiche e di tipo alimentare. Sia Eat Just che Upside Foods affermano di voler utilizzare questi ingredienti non farmaceutici nelle loro eventuali operazioni commerciali.  

I metodi ad alta intensità energetica non sono insostenibili solo per il pianeta, afferma Sinke, ricercatore del CE Delft. Molti processi che si basano su tecniche biofarmaceutiche non saranno utilizzati nell’industria non solo perché produrrebbero emissioni elevate, ma “perché nessuno può permetterseli”. 

Da parte sua, Spang concorda sul fatto che l’economia probabilmente impedirà alla carne coltivata di seguire il tipo di produzione che porterebbe a impatti climatici estremi. “Se richiede input farmaceutici, non credo che ci sarà un’industria”, afferma. “Sarebbe troppo costoso; non mi pare una strada percorribile”.  

Per Spang, tuttavia, ci sono ancora molte domande aperte a cui rispondere e piani da realizzare prima che l’industria possa iniziare ad avere credito come soluzione per il clima. “Il salto dal laboratorio all’impatto climatico economicamente vantaggioso, a mio avviso, è ancora molto lungo”, afferma Spang.

È ancora possibile che la carne coltivata diventi un importante elemento positivo per il clima, soprattutto quando le energie rinnovabili come l’eolico e il solare diventeranno più ampiamente disponibili. Un’industria in cui le cellule possono essere coltivate in modo efficiente in grandi reattori, alimentate con ingredienti ampiamente disponibili, con elettricità prodotta da fonti rinnovabili, potrebbe essere un modo significativo per contribuire a ridurre l’impatto del nostro sistema alimentare.

Ma le strutture che lo renderebbero possibile sono per lo più ancora in fase di progettazione e non è ancora chiaro quale percorso potrebbe seguire la carne coltivata per arrivare nei nostri piatti.

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