Come è stata prosciugata la California

I sistemi di sfruttamento dell’acqua a scopo agricolo hanno divorato tutte le risorse disponibili e hanno intaccato le falde acquifere. Ora sta arrivando la resa dei conti.

di Mark Arax

Ieri sera il vento ha finalmente portato via il fumo dalla Sierra in fiamme. Quaggiù nella pianura della California, eravamo soliti considerare la montagna di granito come un luogo a parte, la nostra via di fuga. Ma la distanza non c’è più. Con tutti quei pini morti in balia degli incendi, la Sierra, trasmutata in cenere, è ormai a due passi. Certi giorni respiriamo l’aria peggiore del mondo. In quei pochi giorni in cui possiamo uscire senza rischiare di danneggiare i nostri polmoni e il nostro cervello, ci salutiamo con la speranza che le prossime nuvole di polvere siano quelle della raccolta delle mandorle. Nel frattempo, ringrazio con lo sguardo i miei filtri HEPA. 

La più brutale delle estati nella valle di San Joaquin è finalmente finita. Da giugno la temperatura ha superato i 38 °C per 67 giorni, un nuovo record. La siccità non lascerà andare la sua presa sulla terra. Otto degli ultimi 10 anni sono stati aridi. Questa mattina di ottobre, dopo un mese rintanato, ho deciso di lasciare la mia casa in periferia e vagare nel mezzo della California, il deserto irriguo nella sua forma più suprema. Tra poco, andrò a trovare un vecchio amico, un contadino di nome Masumoto, che ha 80 acri a Del Rey e sta inscatolando l’uva passa. 

Non c’è modo di fare questo viaggio fuori da Fresno alla fine del raccolto, attraverso i campi della cintura agricola più industrializzata del mondo, senza pensare all’acqua e come l’uomo la imprigiona con dighe, fossi, canali, acquedotti, pompe. Quella stessa acqua che dà origine a ogni cosa animata e inanimata che ora si stende davanti ai miei occhi: la vigna, il frutteto, il campo di cotone e la casa; l’acqua il cui troppo e il troppo poco può distruggerci. Ho guidato mille volte lungo la Highway 99, attraversando una valle che i geologi definiscono il paesaggio più alterato dalle mani dell’uomo nella storia. Quanto successo qui, con ogni mezzo necessario, è stato fatto per sopperire alla mancanza d’acqua.

La conquista della California non è stata impresa da poco. Si è basata sulla cancellazione della fioritura più prolifica di popolazioni indigene negli Stati Uniti. La civiltà che si frapponeva era in formazione da almeno 10.000 anni e forte di 300.000 anime: Yokuts, Maidu, Miwok, Klamath, Pomo, Chumash e Kumeyaay, solo per citarne alcune. Vivevano leggeri sulla terra. Si sono mossi quando la natura li forzava con le alluvioni o con la siccità. Quando appiccavano un incendio alle foreste per diradarle, si limitavano a bruciare i cespugli e i rami più bassi.   

Mentre i genocidi si susseguivano, la cancellazione della cultura indigena della California si è svolta in tre atti: missione spagnola, occupazione messicana, insediamento americano. Le atrocità andavano di pari passo con gli strumenti dell’epoca: vaiolo, sifilide, coltello, Colt 45. Per primi vennero i francescani in toga guidati da padre Serra, schiavista e santo, che utilizzò gli indiani come forza lavoro per erigere le prime rozze dighe e canali per portare l’acqua in luoghi dove non era mai stata: le sue 21 missioni, da San Diego a Sonoma. 

Poi vennero i don del Messico, liberati dal giogo della Spagna, il cui amore per la California durò solo un quarto di secolo, dal 1821 al 1848. Mescolando lignaggi europei, messicani e americani, si chiamarono Californios. Invece di domare la natura della California, accumularono milioni di acri. Nelle rancherie, macellavano un vitello al giorno per banchettare, bevevano grandi quantità di vino e brandy e organizzavano matrimoni reali in cui le figlie che erano state rinchiuse nelle scuole di Buone Maniere finalmente uscivano al sole. Le loro promesse di restituire le terre della missione e i corsi d’acqua agli indigeni sopravvissuti non sono mai state rispettate.

Thomas Ovalle

I coloni americani si aggiravano da decenni: montanari, cacciatori di pellicce, esploratori e geometri. Nell’estate del 1846, con l’appoggio del governo americano presero possesso del confine occidentale di un continente lungo 1.600 km, senza sparare un colpo ufficiale. Cosa fa un popolo quando la terra che conquista copre 11 regioni topografiche e 10 gradi di latitudine, dove la pioggia arriva a 3.550 mm da un lato e 50 mm dall’altro? Un altro popolo avrebbe stabilito l’autonomia di ogni regione. Loro tracciarono una linea intorno al tutto, lo dichiararono uno stato e iniziarono il loro infinito armeggiare per colmare le differenze tra una parte e l’altra.

Nel 1848, arrivò però il cataclisma dell’oro. Durante la notte sbarcarono a terra a decine di migliaia, minatori pazzi da tutto il mondo, la maggior parte dei quali non sapeva cosa significasse estrarre. Andarono sulle montagne e sui fiumi a scavare con le mani, ma scoprirono che l’estrazione dell’oro era un processo su scala industriale. Acqua! Acqua! Acqua!”, gridava James Mason Hutchings, un inglese che intorno al 1850 pubblicò l’”Illustrated California Magazine”, un trimestrale di incomparabile eccellenza. “Non acqua da bere, perché può essere trovata gorgogliare su ogni cima di montagna, ma acqua con cui lavorare. Gli uomini che lavorano scavano l’oro per ottenere prosperità. Perciò, grideremo: “Acqua! Acqua! Acqua!”

Quando si abbatté la grande imondazione del 1862, la rivista di Hutchings non esisteva più. La descrizione dei danni prodotti dalle acque alluvionali venne portata avanti da William Brewer, che aveva studiato a Yale ed era venuto a ovest per esaminare le risorse naturali della California. “Quasi tutte le abitazioni e le fattorie di questa immensa regione sono scomparse”, scrisse. “L’America non ha mai assistito a una tale desolazione”. Brewer era arrivato a riconoscere la peculiare forza d’animo del californiano di sopravvivere a tutto: “Nessun popolo può sopportare la calamità come questo popolo. Ci sono abituati».

La gente ha dimenticato l’alluvione con la stessa nonchalance con cui ha dimenticato la siccità. La loro mancanza di memoria assunse i contorni di una forma paradossale di resilienza. Tornarono a scavare con ritrovato vigore. Eressero 10.000 km di fossati e costruirono una diga alta 30 metri. I flussi dei fiumi della California settentrionale erano ora decisi da una manciata di industriali. 

Per raggiungere le vene più profonde dell’oro, inventarono cannoni idraulici che sparavano acqua con una forza tale da far saltare le pareti dalle montagne. Nei fiumi veniva travasato il materiale sterile, più di un miliardo di metri cubi di macigno, roccia, ghiaia e fango. Decine di migliaia di acri di nuove colture piantate nella pianura alluvionale iniziarono a soffocare per gli afflussi d’acqua delle miniere. 

Per quanto riguarda il futuro della California, gli industriali che vivevano in cima alla Nob Hill di San Francisco avevano una scelta da fare: oro o grano? Isaac Friedlander, che aveva fatto fortuna accaparrandosi il mercato della farina per i campi minerari, “strappò” un milione di acri di terreno della valle praticamente per niente. Divenne il Re del Grano.

Sto navigando nel deserto, è vero, ma non è il Mojave. La valle di San Joaquin, lunga 420 km e larga 80 miglia, si qualifica come deserto solo per le scarse precipitazioni medie, meno di 250 mm all’anno. Cinque fiumi, due dei quali importanti, scendono dalla Sierra attraverso la sua larghezza. Il meglio della terra, un terriccio che mescola sabbia e argilla, fa crescere barbabietole grandi quanto la testa di un orco. Il sole splende 280 giorni all’anno e non piove da maggio a settembre. La coltre di nebbia cala d’inverno sugli alberi da frutto e di noci. Mi riviene in mente una frase che il padre di mio padre, Aram Arax, un poeta-agricoltore, ripeteva spesso: “L’albicocca deve sentire il bacio della morte in inverno per trattenere i suoi frutti in primavera”. 

I 49ers, un nome scelto in onore degli uomini che si distinsero per il proprio coraggio e lo spirito pionieristico nella corsa all’oro, sapevano cosa fare con questa fecondità. Nello stesso modo si comportarono i coltivatori di cotone del sud che furono cacciati dalle loro piantagioni dal punteruolo. Recintarono i fiumi con un reticolo di fossati e ne invertirono il corso. Prosciugarono anche la grande palude interna e il lago Tulare, il più grande specchio d’acqua dolce a ovest del Mississippi. Spazzarono via alci, antilopi e mustang e svuotarono il cielo dalle anatre. Appiattirono la collinetta e il pantano con il Fresno Scraper, una macchina trainata da cavalli, e trasformarono 6 milioni di acri in una piano scorrevole per far circolare l’acqua.

Thomas Ovalle

L’Eden perduto

Quando il loro “giardino” fu pronto per essere mostrato, gli opuscoli promozionali lo esaltorono senza mezzi termini: “Contea di Fresno: un distretto meravigliosamente prospero in California. La terra del sole. Frutti e fiori. Niente ghiaccio. Niente neve. Niente bufere di neve. Niente cicloni”. La notizia della loro impresa – “il primo grande esperimento di irrigazione da parte della razza anglosassone” – arrivò fino a Istanbul, nella soffitta dove mio nonno Arax si nascondeva dai turchi nel 1918. Suo zio, che aveva perso moglie e figli nei massacri ed era fuggito a Fresno, gli scriveva lettere che descrivevano un Eden in una valle ai margini della Sierra: “Devi vederlo con i tuoi occhi per crederci”.

Mio nonno stava cercando il modo di arrivare alla Sorbona, per studiare letteratura francese e diventare uno scrittore, ma le lettere continuavano ad arrivare. Nell’estate del 1920, dopo un viaggio di 11.000 km, arrivò alla stazione nel centro di Fresno. Nipote e zio, sopravvissuti al genocidio, si abbracciarono e salirono su una scintillante Ford modello T, viaggiando da un fiume all’altro, attraverso una distesa già nota come la “capitale mondiale dell’uva passa”. 

Mentre mi avvicino al fiume Kings, ora nient’altro che sabbia, mi ritornano alla mente le parole usate per descrivere la nostra ultima fattoria, quella con gli alberi di melograno che mio padre, Ara, e suo fratello, Navo, con rammarico di mio nonno, vendettero qualche anno prima che nascessi. Sono cresciuto a non più di 15 km di distanza da quei 60 acri, ma avrebbe potuto benissimo essere un oceano di distanza, perché chi eravamo e cosa avevamo fatto per far fiorire il deserto non era un argomento di cui si poteva discutere. 

Avevamo il Re del Cotone, il Re dell’Uva, il Re del Melone e il Re del Pomodoro proprio in mezzo a noi, uomini che si erano impossessati dell’acqua comune, ma come questo fosse avvenuto rimaneva un mistero. Canali di irrigazione pieni di neve sciolta attraversavano i nostri quartieri, ma non mi è mai venuto in mente di chiedere da dove provenisse l’acqua, a chi andasse e con quale diritto. I canali non erano recintati e uno o più figli dei contadini messicani, che cercavano di rinfrescarsi d’estate, vi annegavano ogni anno. “Non avvicinarti a quei canali”, mi avvertì mia nonna Alma. “Se cadi dentro, non fermeranno il flusso finché il raccolto non sarà finito”. 

La nuova terra non somigliava alla vecchia terra. Appena un anno dopo l’arrivo di mio nonno, i contadini armeni e giapponesi avevano piantato così tanta uva da far essiccare in uva passa che Sun-Maid, il più grande trasformatore di uvetta e frutta secca al mondo, non riusciva a venderne la metà.

La grande siccità degli anni 1920, rivelò la follia e l’avidità dell’agricoltura californiana. Oltre ad aver messo “le redini” ai cinque fiumi, i contadini ora usavano pompe a turbina per impadronirsi della falda acquifera, l’antico lago sotto la valle. In una terra di sovrabbondanza, stavano piantando centinaia di migliaia di acri di colture. Non si trattava di terreno agricolo di qualità, ma sporco, povero e salato al di là della portata dei fiumi. Con l’aggravarsi della siccità, le nuove fattorie estraevano tutta l’acqua possibile dal terreno e le loro pompe non potevano scendere più in basso. I loro raccolti stavano morendo. 

Un grido venne rivolto dagli agrari ai politici: “Dateci un fiume”. Stavano osservando le piene del fiume Sacramento a nord. Se il piano sembrava audace, beh, un furto del genere era già stato compiuto dalla città di Los Angeles, muovendosi lungo la montagna fino a “rubare” il fiume Owens. È così che il governo federale, negli anni 1940, arrivò a costruire il Central Valley Project, arginare i fiumi e installare enormi pompe nel delta del Sacramento-San Joaquin per spostare l’acqua nelle fattorie morenti nel mezzo. 

È così che lo stato della California, negli anni 1960, ha costruito lo State Water Project, installando più pompe nel delta e un acquedotto lungo 715 km per spostare più acqua nella California del Sud.  È così che siamo arrivati al sistema attuale, durante il decennio più secco della storia dello stato, durante il quale gli agricoltori della valle di fronte alla scarsità d’acqua, hanno alzato la posta e hanno aggiunto mezzo milione di acri in più di colture permanenti: più mandorle, pistacchi , mandarini. Hanno abbassato le loro pompe di centinaia di metri per inseguire la falda acquifera in diminuzione, risucchiando così tanta acqua che il terreno sta affondando. I cedimenti stanno facendo crollare canali e fossati, riducendo il flusso dell’acquedotto. 

Come spiegare un comportamento folle?

Nessuna civiltà aveva mai costruito un sistema più articolato per trasportare l’acqua. Si estendeva su terreni agricoli. Si estendeva nei sobborghi. Ha fatto sorgere tre città di livello mondiale e la quinta economia del mondo. Ma non ha cambiato la natura essenziale della California. La siccità e le inondazioni rappresentano la California. Un anno i nostri fiumi e torrenti producono 30 milioni di acri di acqua. L’anno successivo arrivano a 200 milioni di acri. L’anno medio, 72,5 milioni di acri-piedi, è virtuale.

Sono seduto sotto il portico di una fattoria secolare, a mangiare kebab e pilaf con David “Mas” Masumoto. Stiamo osservando quasi in silenzio i suoi 80 acri di frutteti e vigneti non lontano dal fiume Kings. La sua piccola squadra di lavoro è tornata a casa. Ci siamo conosciuti 25 anni fa in occasione del suo primo libro, Epitaph for a Peach, un racconto su una fattoria tramandata di padre in figlio e la determinazione del figlio a difendere un’antica varietà del frutto. Il cimelio si chiamava Sun Crest, ed era caduto in disgrazia sul mercato perché si ammaccava troppo facilmente. Dorato, dolce e succoso, valeva la pena di salvarlo, pensò Mas. “Se lo si assaggia, riporta indietro nel tempo”, mi aveva detto. “Il frutto è memoria”.

Non avevo sentito un contadino parlare in quel modo dai tempi di mio nonno, quindi ho scritto una storia su di lui sul “Los Angeles Times”, e lui mi ha dato un giovane Sun Crest da piantare nel mio giardino, che ha prodotto così tante pesche che mia moglie, dopo il nostro divorzio, lo fece tagliare. Mas, invece, aveva salvato la pesca. Lo chef Alice Waters, per esempio, ha letto il suo libro e ha iniziato a servire Sun Crest, da sole, come dessert da Chez Panisse.

Indica un punto nel frutteto dove i peschi sono ancora in piedi, più nodosi e segnati dalle intemperie, ma sempre attivi. Si annovera tra i fortunati. Suo padre, Takashi, ha scelto bene questa terra. Si trova all’interno di un distretto di irrigazione in cui anche negli anni a basso deflusso, la sua falda freatica viene ricaricata. 

Finiamo i nostri kebab e percorriamo le file secolari. Le viti senza semi Thompson sembrano pronte a baciare l’inverno e ad addormentarsi. Ma l’uva ambrata stesa su vassoi di carta nel terriccio terrazzato è solo a metà cotta. Questo tipo di uva viene colta all’inizio di settembre per evitare la prima pioggia autunnale. Ci vogliono solo 12 giorni perché il sole della valle faccia raggrinzire un chicco d’uva in un passito. 

Setaccia i grappoli con le mani bruciate dal sole, cercando quello più appiccicoso. Si mette un paio di chicchi in bocca. “Non ha il sapore che pensavi, vero? Gli chiedo. Lui guarda il cielo e risponde: “Questa estate è stata un caldo record. Dovrebbero essere maturati subito. Ma il sole non splendeva come al solito. Tutto quel fumo e quella cenere degli incendi boschivi ha cambiato i raggi, immagino. Li ha piegati in qualche modo”.

Annuisco e continuo ad ascoltare. Sta parlando del ciclo della natura. La siccità ha contribuito a uccidere gli alberi nella foresta. Essiccati dalla sete, sono stati sterminati dagli scolitidi. Poi è arrivato il fuoco. Il fumo e la cenere hanno rallentato la maturazione dell’uva sulla vite e l’essiccazione in uvetta. Grazie al vento ora il cielo è sereno, ma è troppo tardi. Ottobre ha cambiato l’angolazione del sole che colpisce i filari.  “Abbiamo perso il nostro forno”, dice. “Probabilmente manderò queste uvette all’essiccatore meccanico. Non è mai successo prima. Non avranno lo stesso sapore”.

Era difficile trovare un posto più dolce sulla terra per l’agricoltura. Mas aveva la terra, aveva il fiume, aveva la falda acquifera e aveva il sole, o almeno credeva di averlo. Non disponeva della scienza per spiegarlo, ma si è trovato di fronte al cambiamento climatico. “La natura è viva. Il clima è vivo. Non abbiamo altra scelta che combattere, ma qui fuori è follia cercare di controllare la natura», spiega.

Ci abbracciamo per salutarci. Salgo sulla mia piccola Chevy, accendo il motore elettrico e torno a casa in mezzo a nuvole di polvere. Le melagrane stanno diventando rosse e non posso fare a meno di pensare: quanto tempo abbiamo?

Mark Arax è l’autore di The Dreamed Land: Chasing Water e Dust Across California.

(rp)

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