Protesi del pensiero

La ricerca sul collegamento tra mente e computer interessa molto anche a livello governativo. Un finanziamento di 24 milioni di dollari potrà aprire la strada a robot controllati dal pensiero, al miglioramento della percezione e della comunicazione e perfino della capacità intellettiva.

di Gregory T. Huang

Walid Soussou utilizza una serie di elettrodi da lui appositamente costruita per collegare il tessutoneurale a un computer. In primo piano (in evidenza nella figura) gli elettrodi appaiono come quadratini neri ai lati di una fetta rosa di cervello di topo. Ted Berger legge il pensiero. Quello dei topi. Nel suo laboratorio alla Università della Southern California, il neurobiologo colloca una minuscola serie di elettrodi su una porzione di cervello di topo in una capsula di Petri. Premendo un interruttore, lo studente Walid Soussou fa partire il flusso di segnali elettrici nel tessuto. Le cellule cerebrali rispondono generando a loro volta impulsi elettrici. Questo schema a spirale di segnali neurali viene raccolto dagli elettrodi e appare sullo schermo di un vicino computer come una scia di colori cha variano dal rosso brillante al blu notte.

Nelle prossime ore, Berger e il suo gruppo di lavoro registreranno i collegamenti elettrici che presiedono a una delle più complesse funzioni del cervello: la memoria. Non è altro che ricerca di base, ma viene portata avanti avendo in mente un obiettivo tecnologico molto importante. Il gruppo di Berger spera di usare l’informazione per realizzare una «interfaccia macchina-mente» avanzata – un congegno che collega i circuiti biologici del cervello a quelli di silicio del computer – che potrà cambiare il modo stesso di pensare.

Negli anni recenti, i gruppi di ricerca sparsi sul territorio statunitense hanno impiantato elettrodi nei cervelli degli animali – e anche di qualche essere umano – e hanno usato i segnali rilevati da questi elettrodi per muovere le braccia dei robot, le leve e i cursori sugli schermi dei computer (si veda Altre ricerche su macchina-cervello a pag. 59). Lo scopo delle ricerche era di fornire ai pazienti paralizzati la possibilità di controllare arti protesici e semplici strumenti di comunicazione. Ma l’obiettivo di Berger è ancora più ambizioso: produrre un chip computerizzato che ripristini le abilità cognitive del cervello, rinforzando la memoria in pazienti che soffrono di disturbi neurologici come la malattia di Alzheimer e l’ictus, migliorando anche, se possibile, le normali capacità intellettive. Per raggiungere questi risultati, i ricercatori devono comprendere i processi neurali che potrebbero dimostrarsi più complessi di quelli che governano, per esempio, il controllo di un arto protesico. «Si tratta di uno dei progetti più ambiziosi dell’intero settore», dice Christof Koch, un esperto di calcolo e sistemi neurali, al Caltech.

Per quanto ardito, il gruppo di Berger non è l’unico a sondare nuove possibilità in quelle che i ricercatori talvolta definiscono protesi neurali. Un programma biennale del valore di 24 milioni di dollari, avviato lo scorso autunno dall’agenzia statunitense DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency), sta rapidamente espandendo i confini della ricerca sull’interfaccia macchina-cervello. I sei progetti finanziati dal programma del DARPA – incluso quello di Berger all’Università della Southern California – intendono favorire lo sviluppo di tecnologie che non solo ripristinino, ma incrementino anche le capacità umane, sostiene Alan Rudolph, responsabile dell’iniziativa della DARPA. Questo approccio di big science coordinato e adeguatamente finanziato al fine di comprendere come possano interagire macchina e mente, egli continua, può contribuire a «importanti cambiamenti nella difesa e nella società.

La ricerca produrrà una nuova generazione di elettrodi, chip e software per computer che potranno consentire ai soldati, per esempio, di controllare arti artificiali superveloci, di pilotare veicoli a distanza e di guidare robot mobili in ambienti pericolosi, usando solo la forza del loro pensiero. Questi apparecchi, inoltre, velocizzeranno i processi decisori, miglioreranno le capacità cognitive e la memoria e renderanno possibile comunicare senza fili tra cervelli di persone diverse. 

Anche se queste applicazioni sono tanto spettacolari quanto ancora allo stadio ipotetico, gli scienziati non le ritengono più una semplice fantasia. La ventata di ottimismo è in parte alimentata da una serie di recenti progressi nelle neuroscienze, nell’hardware dell’interfaccia e nell’elaborazione del segnale. E il flusso di nuovi capitali indubbiamente aiuta. «DARPA sta facendo confluire nel settore risorse mai viste precedentemente», afferma William Heetderks, direttore del Neural Prosthesis Program ai National Institutes of Health. Poiché i ricercatori non mancano di proposte innovative, egli conclude, i nuovi finanziamenti «cambieranno profondamente la situazione».

CONTROLLO A DISTANZA

Tra le ondulate colline di Durham, nel North Carolina, Miguel Nicolelis della Duke University sta cercando di insegnare nuove abilità a scimmie adulte. Ma prima i loro cervelli devono imparare ad ascoltare. 

Negli ultimi anni, Nicolelis e il suo gruppo di lavoro hanno mostrato che i segnali nervosi raccolti dagli elettrodi impiantati nei cervelli degli animali possono garantire un controllo rudimentale delle braccia automatiche. Ma c’è un problema: gli animali non sanno di star controllando qualcosa. Per arrivare a una fase in cui gli animali – e infine gli uomini – possano intraprendere compiti più sofisticati, sostiene Nicolelis, la comunicazione in tempo reale tra mente e macchina deve diventare reciproca.

I ricercatori dell’Università della Southern California sperimentano il comportamento di parti specifiche di una fetta di cervello per reallizzare una migliore interfaccia macchina cervello. Pertanto, nel laboratorio di Nicolelis, un macaco reso non solo controlla un braccio automatico attraverso segnali nervosi raccolti dagli elettrodi mpiantati nella sua testa, ma è anche in grado di ricevere il feedback dal robot, per ora sotto forma di un cursore sullo schermo che mostra i movimenti del robot. Messi in stanze separate, il macaco e il braccio automatico sono collegati attraverso cavi, un microcomputer e un processore parallelo. Il prossimo passo sarà migliorare il feedback tattile. Quando il macaco prova a usare il braccio automatico per prendere un boccale da birra di gomma, il braccio automatico manderà segnali per forzare i trasduttori collocati nell’arto superiore dell’animale; questi motori vibreranno energicamente quando la presa del robot si chiude. E infine, dice Nicolelis, il sistema potrebbe fornire un feedback ancora più diretto stimolando elettricamente le regioni sensoriali del cervello. «L’abilità consiste nel fornire il giusto tipo di feedback in modo che il cervello della scimmia consideri il robot come una parte del suo stesso corpo», egli afferma.

Una volta «chiuso il circolo» dell’interazione mente-macchina, continua Nicolelis, i ricercatori possono cominciare a pensare realisticamente a sistemi di progettazione le cui capacità fisiche sono superiori a quelle delle persone normali. Per esempio, aggirando nervi e muscoli e collegando direttamente il cervello all’arto automatico, egli spiega, potrebbe essere possibile tagliare i tempi di reazione di un fattore di sei. Egli prevede che molti laboratori faranno esperimenti in grado di dimostrare un simile incremento di abilità fisiche di base entro i prossimi cinque anni. 

Mentre Nicolelis è impegnato a replicare e migliorare capacità come afferrare e sollevare, i ricercatori dell’Università del Michigan stanno spingendo le interfacce macchina-cervello verso nuovi confini del controllo fisico. L’ingegnere biomedico Daryl Kipke e il suo gruppo stanno insegnando a topi e scimmie a guidare i movimenti di una serie di robot mobili usando solo le loro menti. Il feedback è importante, sostiene Kipke, perché consente agli animali di acquisire esperienza nell’interazione con un apparecchio completamente estraneo, in questo caso una creatura robotica a sei gambe, lunga mezzo metro, chiamata RHex (si pronuncia rex).

Finora l’agile robot deve essere programmato per muoversi in una certa direzione o diretto a distanza con un collegamento senza fili controllato manualmente. Ma le interfacce macchina-cervello, dicono i ricercatori della Università del Michigan, potrebbero consentire un controllo più rapido e coordinato. In un futuro lontano, i soldati o la protezione civile – auspicabilmente in diversi siti – potrebbero collegarsi mentalmente a un computer centrale per controllare un gruppo di RHex dislocati sul territorio. Guidati da impulsi cerebrali, i robot dovrebbero condurre ricerche e missioni a rischio in zone di guerra e aree sinistrate, fornendo ai loro controllori feedback tattili, visivi e audio. «Questo è l’obiettivo finale», afferma Kipke.

Anche se il raggiungimento di questa meta richiederà probabilmente ancora decenni, il gruppo di Kipke ci sta già lavorando sopra, ricavando segnali dai neuroni nelle aree cerebrali che sono coinvolte nella pianificazione e nell’esecuzione dei movimenti. Con tutto il disturbo delle cellule circostanti, è come provare ad ascoltare una singola conversazione in uno stadio di baseball. Entro un anno, i ricercatori impianteranno chirurgicamente schiere di elettrodi di silicio – ognuno non più spesso di un capello – nel cervello di un animale e collegheranno ognuna di queste serie a un circuito flessibile a bassa potenza che assomiglia a un cerotto di un centimetro quadrato sulla pelle dell’animale.

Il circuito accelererà l’elaborazione globale dei segnali e permetterà di inviarli senza fili a un computer centrale. In questa sede un software personalizzato trasformerà i segnali nei movimenti di un cursore sul computer, che gli animali osserveranno. 

Il passo successivo, continua Kipke, sarà connettere il cursore al sistema di controllo senza fili di RHex in modo che quando il cursore si muove a sinistra, anche il robot faccia la stessa cosa. Durante l’estate il gruppo di Michigan, insieme al fisiologo Dan Moran della Washington University, prevede di avere a disposizione una scimmia a St. Louis che farà superare a RHex un percorso a ostacoli ad Ann Arbor, in Michigan. I segnali di controllo andranno avanti e indietro su Internet, e la scimmia controllerà su uno schermo una rappresentazione grafica della posizione e dei movimenti del robot. L’obiettivo generale dell’attuale progetto è verificare se queste interfacce riescono a impegnare il cervello – facendo uso sia dei comandi neurali sia del feedback – a gestire congegni sempre più complessi e remoti. «Entro cinque anni, sapremo se potremo farlo», conclude Kipke.

AL LIMITE DELLA PERCEZIONE

Mentre Nicolelis e Kipke sono impegnati a migliorare la capacità della mente di controllare congegni esterni, altri partecipanti all’iniziativa dell’agenzia DARPA sperano di intervenire sul funzionamento interno del cervello, in particolare sulle capacità di trasmettere, ricevere ed elaborare immagini e suoni. Esplorando le aree mentali visive e uditive, i ricercatori intendono scoprire se questo tipo di informazione può essere trasmessa tra cervello e computer per migliorare la percezione e la comunicazione. Se avranno successo, i progetti potrebbero aprire la strada a interfacce del tutto nuove in grado di perfezionare le capacità umane di riconoscere volti e oggetti, di capire discorsi e di prendere decisioni; potranno persino permettere la comunicazione mente-mente senza fili, sostiene Rudolph della DARPA.

Prima di realizzare simili congegni, i ricercatori devono comprendere come «estrarre» dati dal cervello e come «inserirli», afferma Tomaso Poggio, un esperto d’intelligenza artificiale del MIT. Poggio e il neurofisiologo, sempre del MIT, James DiCarlo, che conducono le ricerche più importanti nel programma DARPA, stanno lavorando sulla percezione visiva e il riconoscimento di oggetti nel macaco reso. I ricercatori presenteranno oggetti, come forme astratte, automobili e animali sullo schermo di un computer. Un possibile esperimento è basato sulle precedenti collaborazioni con Earl Miller, un neuroscienziato del MIT: i ricercatori addestrano una scimmia a decidere se un animale generato al computer assomiglia più a un cane o a un gatto (si veda Letture mentali a fianco). Il computer altera i tratti creando, per esempio, un’immagine che è al 60 per cento gatto e al 40 per cento cane. Mentre la scimmia prende la sua decisione, i ricercatori usano elettrodi impiantati per registrare i segnali provenienti dai neuroni nella corteccia visiva: alcune di queste cellule si eccitano quando la scimmia vede un gatto, altre quando vede un cane.

Un software di simulazione tarato sui dati delle precedenti prove dovrebbe allora elaborare i segnali cerebrali e «leggere» la decisione della scimmia. I ricercatori confrontano poi questa previsione con la risposta volontaria della scimmia, ottenuta premendo il bottone «cane» o «gatto». «Noi utilizziamo l’algoritmo per creare un’associazione tra il comportamento di questi neuroni e il processo decisionale in modo che successivamente, dall’attività elettrica degli stessi neuroni, possiamo comprendere cosa sta vedendo la scimmia», spiega Poggio. Sulla base dei risultati preliminari, egli continua, il computer potrebbe riuscire a fare previsioni corrette nel 90 per cento dei casi, usando i segnali provenienti soltanto da qualche centinaia di neuroni. La prossima sfida dei ricercatori del MIT, che potrebbe vederli impegnati tra due anni, è verificare se possono inserire percezioni nel cervello attraverso la stimolazione elettrica. Essi prenderanno le mosse da semplici immagini come linee e forme. Ma infine i ricercatori potrebbero riuscire a introdurre piccole quantità di corrente nel cervello di una scimmia e indurla a pensare che sta vedendo un cane su uno schermo mentre in realtà si tratta dell’immagine di un gatto, o lo schermo è addirittura vuoto. In teoria tutto ciò è realizzabile, sostiene Koch del Caltech, un collaboratore del progetto. Il problema comunque è stimolare i neuroni giusti, un compito non semplice considerando che 100.000 cellule sono raccolte in ogni millimetro cubo di corteccia cerebrale e che ogni cellula ha centinaia di collegamenti con le altre.

L’obiettivo finale è connettere le tecnologie di estrazione e inserimento, perfezionando la comunicazione da mente a mente mediata dal computer. All’interno dell’iniziativa della DARPA, gli scienziati della Vanderbilt University propongono di realizzare e collaudare questo sistema. Come primo passo, essi prevedono di collegare i neuroni delle aree uditive del cervello di una scimmia a cellule simili in un’altra scimmia. I ricercatori faranno poi ascoltare un suono solo a una scimmia e verificheranno se la seconda scimmia, seduta in un’altra stanza, risponde a sua volta. 

Ma molti scienziati considerano la comunicazione da mente a mente una scommessa azzardata. A parte la difficoltà di scegliere e stimolare il giusto numero di neuroni, dice Heetderks dei NIH, un simile sistema sarebbe limitato dalla sua velocità di elaborazione: la comunicazione orale richiede un maggior flusso informativo del riconoscimento di oggetti o del controllo motorio. «Potrebbe funzionare», afferma Heetderks, «ma non mi stupirei se ci volessero tre settimane per avere lo stesso tipo di conversazione che stiamo avendo adesso».

PROCESSI COGNITIVI AL SILICIO

All’Università della Southern California, il gruppo di Berger sta sviluppando interfacce macchina-cervello sempre più ardite. Una volta tracciati gli schemi dei segnali di alcune aree cerebrali, i ricercatori prevedono di intervenire sul modo in cui il cervello elabora l’informazione e comunica con se stesso, in breve su come la mente pensa. Queste ricerche potrebbero un giorno condurre a protesi neurali che ripristinano e addirittura migliorano processi cognitivi come la memoria. Sarà forse possibile andare da un medico per ricordare avvenimenti dimenticati da molto tempo o acquistare hardware che rafforza la nostra capacità di ricordare i nomi delle persone.

Il gruppo di Berger sta facendo un piccolo passo in questa direzione con lo sviluppo di un chip per computer che imita l’elaborazione del segnale dell’ippocampo, un’area del cervello a forma di spirale che è fondamentale nell’apprendimento e nella formazione dei ricordi. Fortunatamente il flusso informativo nell’ippocampo dei topi è diretto, dice Berger, e l’organizzazione appare simile, anche se più complessa, a quella dell’ippocampo umano.

Ciò che rende le cose difficili è che – almeno dal punto di vista di Berger – la memoria nel cervello è rappresentata da schemi dinamici di neuroni eccitati, non da una disposizione fissa di bit, come nel caso della memoria del computer. «Se qualche parte del cervello sembra come una RAM, non si tratta di memoria», afferma Berger. E i neuroni sono intrinsecamente complessi. Se si vuole eccitarne uno, il tempismo è fondamentale: potrebbe essere necessaria una combinazione di impulsi dai neuroni circostanti o stimoli ripetuti da un messaggero in quel determinato momento.

Per cogliere queste dinamiche, il gruppo di Berger ha sviluppato modelli matematici dei singoli neuroni in questione e ha cominciato a trasformare i modelli in hardware. Se il neurone A manda un tipo particolare di impulsi al neurone B, afferma Vasilis Marmarelis, ingegnere biomedico all’Università della Southern California, il modello ci dice quale schema il neurone B invierà al neurone C. «Non è particolarmente eccitante», egli continua, «ma è il primo passo di un viaggio che sarà molto lungo». In futuro i ricercatori inseriranno migliaia di schemi neuronali su un chip di silicio a bassa potenza. 

Alla fine di quest’anno, spiega Berger, l’esperimento di verifica si svilupperà in questo modo: su una porzione dell’ippocampo del topo, gli scienziati dimostreranno che i segnali elettrici dell’area A sono elaborati dall’area B e trasmessi all’area C. Essi poi rimuoveranno i neuroni dell’area B e mostreranno che non c’è più segnale in uscita nell’area C. Infine, instraderanno i segnali attraverso un chip prototipo – in sostituzione dell’area B – per vedere se completa il circuito e produce lo stesso schema complessivo di segnale come la parte sana (si veda Il restauro della memoria sopra).

Se questa fase avrà successo, il passo successivo sarà sperimentare il chip negli animali. Entro tre anni Berger prevede di passare la sua interfaccia al gruppo guidato dal fisiologo Sam Deadwyler, della Wake Forest University. Deadwyler sta addestrando delle scimmie a ricordare immagini di clip art fatte apparire rapidamente su uno schermo e a riconoscerle successivamente all’interno di una serie. Allo stesso tempo, egli sta registrando segnali dall’ippocampo che gli consentono di riconoscere quali neuroni sono importanti per eseguire il compito e perfino per prevedere se la scimmia sceglierà in modo corretto. Quando l’interfaccia di Berger sarà pronta, afferma Deadwyler, i ricercatori disattiveranno temporaneamente l’ippocampo, così il primate non potrà fare quello che gli viene chiesto; poi inseriranno il chip nell’area coinvolta per vedere se l’interfaccia può consentire alla scimmia di portare a termine la prova. 

Inoltre, Berger e Deadwyler vogliono verificare se il chip può migliorare la memoria: essi impianteranno il chip in un animale con l’ippocampo integro. Con il chip, la scimmia potrebbe riuscire a ricordare la figura per un periodo più lungo di tempo o essere in grado di riconoscerla in una serie più grande. In futuro, sostiene Deadwyler, sarà forse possibile collegare il cervello di una persona a un hardware che rende la memoria più stabile o che permette di ricordare una quantità sempre maggiore di informazioni, come quando si sta correndo in un aeroporto affollato e si ha bisogno di ricordare un numero telefonico in pochi secondi. Ma i tempi non saranno brevi. «è ancora lontano il momento in cui ci libereremo di carta e penna», dice Heetderks dei NIH. 

Il gruppo di Berger si oppone allo scetticismo di alcuni scienziati che non accettano la premessa fondamentale che la memoria è costituita esclusivamente di schemi dinamici di attività neuronale. E va anche oltre le difficoltà di ordine pratico che si trovano a fronteggiare altri gruppi di ricercatori sulle protesi neurali. Al momento nessuno sa esattamente quali neuroni – o quanti – devono essere coinvolti per riuscire a ottenere congegni utili. A seconda dell’applicazione i ricercatori potrebbero aver bisogno di accedere contemporaneamente a migliaia di cellule cerebrali. Esistono inoltre ostacoli di calcolo da superare prima che le interfacce possano elaborare in serie flussi paralleli di dati neurali in tempo reale. 

Ma forse la sfida tecnica più impegnativa consiste nel collegare fisicamente un hardware rigido alle delicate cellule cerebrali e mantenere queste connessioni per mesi o a volte perfino per anni, dice John Chapin, un fisiologo del Downstate Medical Center della State University of New York, che a metà degli anni Novanta ha contribuito alla definizione dei metodi per accedere ai segnali cerebrali. Poiché i neuroni cambiano continuamente le loro posizioni e modificano le loro connessioni, l’interfaccia deve essere flessibile, biocompatibile e adattabile ai cambiamenti nei segnali che riceve. Cosciente di questi problemi, Rudolph della DARPA sta cercando di promuovere una piattaforma standardizzata di elettrodi a sostegno dell’iniziativa, in modo che ogni gruppo non debba reinventare la ruota. Ma è più facile a dirsi che a farsi. «Gli scienziati preferirebbero usare uno spazzolino da denti non loro più che gli elettrodi di qualcun altro», dice Koch del Caltech.

Anche se le tecnologie delle interfacce funzioneranno, potrebbe passare molto tempo prima che vengano accettate. Pazienti paralizzati, desiderosi di migliorare le proprie capacità fisiche, accetterebbe di buon grado i rischi dell’intervento chirurgico e la prospettiva di avere dell’hardware impiantato nei loro cervelli, ma molte persone sane si tirerebbero indietro di fronte a una simile prospettiva. In effetti, spiega Rudolph, «non prevediamo di impiantare questo tipo di congegni nelle persone sane». La strategia vincente per riuscire a ripristinare o migliorare le capacità umane, egli continua, consisterà nel guadagnare l’accesso ai segnali cerebrali in un modo non intrusivo, possibilmente senza cavi, elettrodi o interventi chirurgici.

Prima che l’agenzia DARPA – o chiunque altro – investa in questa nuova generazione di tecnologie per il rilevamento del segnale cerebrale, i ricercatori devono stabilire se le protesi neurali saranno funzionali nelle loro nuove applicazioni. «Se i tentativi saranno coronati dal successo», conclude Rudolph, «avremo assolto l’importante compito di dimostrare che è possibile farlo e che – se può essere trovato uno strumento non invasivo per estrarre lo stesso tipo di informazioni – si può lavorare al miglioramento delle prestazioni umane». E anche se questa possibilità è ancora lontana nel tempo, le nostre menti possono già prepararsi a nuovi stili di pensiero.

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