Alla ricerca della ricerca

Non se ne parla, o non abbastanza. Se ne abusa invece in campagna elettorale, per dimenticarla subito dopo, prima voce a saltare nei bilanci, a maggior ragione in tempi di crisi. Anche i media la snobbano, se non quando fa scandalo, o diventa gossip. Perché «non vende». Ma qual è davvero lo stato (anche d’animo) attuale della ricerca italiana? Abbiamo cercato di fotografarlo chiedendo il parere di chi ha fatto della scienza una ragione di vita.

di Silvia Andreoli

Una scelta obbligata per continuare a crescere

Umberto Veronesi

Oncologo, direttore scientifico

dell’Istituto Europeo di Oncologia.

Cosa sta accadendo nel mondo della ricerca italiana?

In questo paese c’è stata una politica poco attenta alla ricerca, che trova la sua causa nello scarso livello di percezione favorevole della scienza, in generale, a livello sociale. L’Italia è un paese storicamente non incline a coltivare la scienza. In questo momento, la tendenza della società si è acuita. Sono molto forti oggi gli irrazionalismi, le dimensioni delle superstizioni e degli esorcismi.

Si tratta, insomma, di un fondamento diffuso nella popolazione che certamente non spinge l’uomo politico a investire in scienza.

Partiamo dal principio che, per mestiere, il politico «annusa» o cerca di percepire qual è l’umore della popolazione per accontentarla. Non riscontrando, tra i bisogni primari, quello di investire nella scienza, in qualche modo la congela, la tiene in stand by. Questa è la ragione di base, che si riconduce, dunque, tanto a un elemento di natura sociale, quanto a un altro di pragmatismo politico.

Un terzo elemento importante riguarda le strutture di ricerca. In Italia contiamo numerosissimi istituti, che vivono momenti di alti e bassi e che attualmente conoscono una realtà troppo frammentata. Enti tra loro slegati, con una dispersione di energie e una parcellizzazione che ne riduce l’efficienza e anche le potenzialità. Le conseguenze ci sono state anche in termini di qualità.

In passato, per esempio, il CNR dominava tutti i campi della ricerca – quello della fisica, quello della materia, quello della vita – si occupava della ricerca pura e della ricerca pratica, applicativa. Ancora oggi il CNR ha una grande potenzialità, conta numerosi istituti di buona e ottima qualità. Tuttavia gli interventi, non sempre organici, hanno indotto una situazione di confusione e di minore efficacia. Per l’aspetto organizzativo, il cambiamento dovrebbe, invece, seguire una strada di potenziamento e collegamento tale da creare un sistema di rete. Si dovrebbe ispirare alla realtà tedesca degli istituti Max Planck, che funzionano benissimo. Si tratta di istituti autonomi, molto specializzati, di diritto privato, ma finanziati in gran parte dallo Stato. Un modello che noi, in Italia, dovremmo riprendere. Così riusciremmo finalmente a metterci alla pari con l’Europa e creare una vera e propria base forte, in un futuro prossimo, magari compattando in un solo sistema Germania e Italia.

Come vivono oggi gli scienziati italiani?

A causa delle difficoltà di cui si è detto, l’Italia conta attualmente un numero non elevatissimo di scienziati, ma quelli che ci sono vantano un’elevata qualità. Il meccanismo indotto dall’insensibilità della politica e dal contesto sociale determina una sorta di selezione spontanea: se una persona sceglie di fare ricerca in Italia, è estremamente motivata, nel senso che sa di accedere a un mondo difficile. Se si ostina a diventarne parte, pur di assecondare le proprie aspirazioni e l’inclinazione per la conoscenza, di solito è e diventa un buon ricercatore.

Non è un caso, dunque, che venga internazionalmente riconosciuta la capacità dei nostri ricercatori. In tutte le statistiche mondiali risulta anzi che la produttività scientifica pro capite dei nostri scienziati è molto alta, tra le più significative. L’esiguità del numero è l’altra faccia della stessa medaglia.

Ritiene che in questo momento la comunità scientifica si sia ripiegata su se stessa, perché demoralizzata dalla sensazione che non ci sia una politica capace di ascoltare la voce della ricerca?

Che il mondo politico italiano sia adesso poco interessato alla ricerca è un’evidenza e quindi i ricercatori si sentono abbandonati, trascurati. Tuttavia non credo che questo abbia determinato un movimento articolato e coerente di ripiegamento. Però la percezione è che esista un malessere.

Difficile poi dire che cosa accadrà. Io credo che alla fine prevarrà il buonsenso, prevarrà la ragione. Bisogna far emergere la razionalità, perché, in una visione globale, generale del mondo, i paesi privi di innovazione scientifica sono destinati a rallentare e infine regredire.

Non c’è scelta. Per stare alla pari con gli altri paesi europei e americani siamo destinati a investire in questo settore.

Anche la politica se ne renderà conto. Se si vuole un paese che continui a crescere, bisogna investire in scienza e ricerca. Sono convinto che sia ciò che tutti ormai comprendono. Se ancora manca un passaggio concreto verso questa soluzione, ripeto necessaria, è di nuovo una ragione politica: non c’è una richiesta sufficientemente ampia da parte della gente. La scienza non è avvertita come un’esigenza preponderante dagli elettori e pertanto, viene rimandato l’intervento, sempre spostato in secondo piano. A maggior ragione nei momenti di crisi, in cui le risorse sono più esigue.

La scienza ha bisogno di pensare lontano

Vittorino Andreoli

Psichiatra e scrittore.

Qual è lo scenario attuale della ricerca in Italia?

La prima considerazione da fare si lega al tempo presente. Oggi la cultura dominante è una cultura in tempo reale, come se il mondo non avesse un futuro lontano. Questa condizione caratterizza l’Occidente nel suo complesso, un vasto territorio in affanno, che corre senza chiedersi perché. Anzi è importante non chiederselo, proprio per evitare di trovare che si sono perduti i sensi dell’agire. è un problema certamente italiano, ma io che sono ritornato sovente, anche recentemente, nei luoghi dove ho lavorato, Cambridge, in Inghilterra, Harvard, quando sono stato a Boston, constato che quella specie di atmosfera religiosa di cui godeva la ricerca non c’è più. Quando io ero a Cambridge, c’erano sette premi Nobel a lavorare. Oggi non ce ne sono, ma i premi Nobel li assegnano ancora. Tuttavia oggi li danno per bagatelles, come dicono i francesi, non per elementi d’un valore decisivo, come a Watson e Crick, per la scoperta del DNA. Oggi tutti i piani di ricerca devono avere un obiettivo rapido e dare i risultati presto.

Il secondo motivo per comprendere quanto sta accadendo nel mondo della ricerca riguarda il problema della razionalità. La scienza è un’emanazione della ragione e la ricerca scientifica deriva dalle metodologie, dai processi della razionalità, insomma dall’idea che con la ragione sia possibile giungere a delle conclusioni definitive. Oggi si parla di limiti della ragione, si parla di una società liquida, quindi che manca persino di una struttura.

La scienza ne ha fortemente risentito. L’Occidente, l’unica attività che ancora fa, è la scienza dell’inutile: moda, bellezza, automobili, che poi devono essere veloci anche se nelle strade non si può superare il limite dei 130 km all’ora. Questa realtà attraversa anche gli Stati Uniti d’America, che hanno svolto, a lungo, il ruolo di grandi mecenati della ricerca. Oggi hanno chiuso le borse, non solo per le persone non americane, ma anche per gli americani. Parlo della ricerca pura, la vera ricerca scientifica. Né può assimilarsi a questa la cosiddetta ricerca applicativa, che è in sé strutturalmente limitata, in quanto finanziata per un obiettivo specifico e concreto: dare luogo, ancora una volta, a cose, oggetti, prodotti e tecnologie. La scienza ha tutt’altro respiro. Ha bisogno di pensare lontano.

Si parla spesso di fuga di cervelli: sono i giovani soprattutto ad andarsene. Non c’è uno spazio per loro in questo contesto mutato?

Si deve stare attenti a non guardare ai giovani ricercatori come a delle vittime. Se si analizza la loro concezione della ricerca, si scopre che in fondo, sempre, mira a risultati a breve termine. Adesso i ricercatori che vanno nei laboratori vorrebbero trovare qualcosa subito, quindi la loro è una ricerca un po’ servile alle applicazioni, che è poi la ricerca che piace all’America.

Insomma oggi i giovani scappano dalla ricerca pura, esclusi alcuni piccoli eroi che fanno il teatro di avere il grande cervello che nessuno vuole. La ricerca non ha bisogno di eroi. Ho conosciuto alcuni cervelli espatriati, tutto sommato non abbiamo perso molto.

La ricerca è un lavoro di pazienza, è un lavoro coerente, insistente. Nel tempo di laboratorio bisogna stare lì, andare avanti, si è quasi sepolti, bisogna non aver voglia di pubblicità. Invece oggi se capita che qualche ricercatore faccia una buona osservazione, da eroe fa anche spettacolo. Da quel momento diventa un attore, non più un ricercatore.

Certo, poi di soldi non ce ne sono, e quelli che ci sono vengono distribuiti in una maniera assurda. I finanziamenti pubblici sono soggiogati da pratiche vergognosamente burocratiche: ogni sostegno economico alla ricerca impone continui controlli e un’attività estenuante di relazioni sullo stato delle cose. Per poter avere i fondi, poi, si deve dimostrare in anticipo che cosa si intende scoprire nell’anno in cui si è finanziati. Ma può essere che si lavori in laboratorio per cinque anni e non si scopra niente. I risultati arrivano, magari, tutti insieme nel sesto anno. L’altra fonte di finanziamento, quella privata, viene dalle industrie. Si tratta, tuttavia, di un investimento solo per ricerche applicative a quel dato ramo d’industria e non assimilabili in nulla alla grande ricerca scientifica.

Che cosa vede come tendenza nel prossimo futuro?

Nel 1955 Jean Piaget ha inventato la dizione sciences de l’homme, le quali hanno come proprio oggetto di ricerca l’uomo intero, quelle che hanno a che fare con la psicologia, con la psichiatria, con i comportamenti, con l’uomo e in questo si differenziano dalla ricerca, per esempio, del fisico delle particelle che studia, come Rubbia, le particelle a energia zero. Tra le sciences de l’homme sta avvenendo qualcosa di nuovo. Perché queste scienze, che si erano negli ultimi decenni ancorate alle scienze dure – alla biologia, alla matematica – oggi si stanno staccando. Stanno tornando a legarsi alle filosofie. Insomma si sta intravedendo di nuovo il distacco dalla scienze dure per ritornare, come succedeva in passato, a far parte delle cosiddette scienze del pensiero, che non hanno bisogno di una ricerca scientifica anzi ne sono all’opposto. Forse questo garantirà maggiore spazio di libertà e apertura.

Altri stimoli, credo, verranno da quanto accade fuori dal mondo occidentale e fuori dalle grandi mentalità burocratiche. Parlo della ricerca in paesi che sono l’India, i paesi dell’Est, e forse qui c’è da attendersi qualcosa. Le motivazioni sono forti, anche se non sono ricchi come l’Occidente.

Manca il dialogo tra ricerca e mondo politico

Roberto Battiston

Fisico, Dipartimento di Fisica, Università di Perugia,

e Sezione INFN di Perugia.

In passato l’Italia vantava un rilievo primario in una serie di aree anche scientifiche. Oggi nella ricerca si investe poco e sempre di meno. Perché?

Viviamo in un paese in cui la ricerca scientifica non è mai stata ai primi posti dell’interesse della società né della politica che la rappresenta. Nonostante l’Italia abbia dato natali ad alcuni grandissimi scienziati, il ruolo della scienza nella cultura è da lungo tempo abbastanza marginale.

Un altro punto importante è che oggi la ricerca è diventata un’attività che coinvolge nei vari paesi centinaia, migliaia di persone e deve essere fatta in modo assolutamente coordinato e pianificato, operando su lunghi periodi, con grandi investimenti, in un contesto internazionale estremamente competitivo.

In Italia le comunità scientifiche si sono spesso auto-organizzate e hanno individuato figure di riferimento capaci di dialogare con il mondo politico. In questo modo sono state operate scelte strategiche in campo scientifico, che poi la politica ha, più o meno sistematicamente, accolto.

Insomma il motore delle strategie sono state le singole comunità scientifiche o addirittura parti di esse attraverso rapporti fiduciari con il mondo della politica. Questo ha creato un sistema che, con i suoi limiti, funzionava, sia pure a macchia di leopardo e con perdite di esercizio significative. Grazie a questa situazione l’Italia in alcuni settori ha saputo raggiungere e mantenere livelli internazionali.

Negli ultimi anni, questo meccanismo è diventato sempre meno efficace. Ci sono stati interventi pesanti di commissariamento e riordino degli enti che hanno comportato un intervento della politica molto più diretto che nel passato. Questa riorganizzazione, partita con il ministro Moratti, proseguita con Mussi e ora continuata dal ministro Gelmini, è lungi dall’essere terminata. In un contesto di equilibri già delicati il prolungarsi di questa situazione ha un effetto destabilizzante sul mondo degli enti di ricerca. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: progressivo contenimento, prima, e riduzione, ora, degli effettivi, congelamento dei ruoli, blocco dei concorsi. Da parecchi anni il decisore politico interviene nel mondo dell’università e della ricerca, perché evidentemente non è convinto che una gestione veramente autonoma della ricerca possa dare dei buoni risultati. Purtroppo questa tesi è in parte avvalorata dall’esistenza di storture e abusi da parte di segmenti, sia pur minoritari, delle comunità scientifiche. Tuttavia gli effetti della cura rischiano di uccidere il cavallo.

In questo momento, come comunità scientifica, qual è l’elemento di cui soffrite di più?

Manca il dialogo, non ci sono canali veri di comunicazione. Le parti, il mondo scientifico e quello politico, diffidano troppo una dell’altra. Si sta determinando un buco spaventoso di progetti e pianificazione nella ricerca, ne faremo le spese nel prossimo futuro. Si parla tanto di giovani, ma attualmente il principale interesse è quello di rimuovere i «vecchi», non di promuovere i giovani, i migliori dei quali vanno direttamente all’estero. Abbiamo assistito a un crollo drammatico delle iscrizioni ai dottorati di ricerca che sono la fase iniziale della formazione scientifica post laurea. I giovani hanno mangiato la foglia, hanno visto in che convulsioni si trova il mondo universitario. I dati riportati da Stella in un recente articolo sul «Corriere della Sera», a proposito del brain drain italiano fanno rabbrividire. Un fenomeno che non colpisce solo i giovani. Esso colpisce anche i migliori fra i ricercatori affermati.

Tutto questo senza sapere quale sarà la futura organizzazione della ricerca. Ci sarà attenzione per la scienza di base o solamente per quella applicativa? Cosa accadrà della ricerca vera e propria, quella curiosity driven, che è alla base di ogni ulteriore livello di ricerca? Se noi non la sosteniamo, questa ricerca, che costa ma non dà subito risultati, non verrà mai a galla ciò che essa potrebbe produrre, perché se tagliamo il livello iniziale, quello della curiosità, questo colpirà anche il livello successivo, quello dell’applicazione. La cosa paradossale è che, mentre in America Obama, ereditando una crisi finanziaria di dimensioni apocalittiche, reagisce accettando di aumentare il deficit, per portare al 3 per cento del PIL gli investimenti nella ricerca, in Italia la sola parola d’ordine è, almeno fino a ora: «Tagliamo». Ma i politici americani, a differenza di quelli italiani, sanno bene che cosa sia la scienza, quanto essa serva per l’economia, per una politica e una strategia globale.

Dunque il ricercatore, che soffre di queste difficoltà e della mancanza di riconoscimenti, è quantomeno arrabbiato?

In realtà la rabbia richiede energia e implica la possibilità di essere convogliata in una direzione costruttiva. La rabbia e basta porta all’ulcera. Se una persona è sana di mente e realizza che la situazione sta nei termini che ho cercato di descrivere, probabilmente pensa: «Dove posso investire le mie poche forze per continuare a fare un lavoro dignitoso? Sono ancora in grado di portare avanti attività di ricerca importanti?». Fino a quando la risposta è sì, questa persona cercherà il modo di farlo. Ma è chiaro che mano a mano che si riducono le prospettive e le risorse nel nostro paese, l’interesse di queste persone inevitabilmente si sposterà verso altri paesi. Prima o poi si potrebbe spostare non solo la mente ma anche il corpo. è una questione di sopravvivenza e di dignità. Di sopravvivenza culturale.

La ricerca pubblica tra eccellenza e provincialismi

Angela Santoni

Immunologa, Università La Sapienza di Roma,

e direttrice dell’Istituto CNR IBPM.

Quali sono le problematiche principali di chi lavora oggi in Italia nel settore della ricerca pubblica?

Se paragoniamo l’Italia agli altri paesi della Comunità Europea, compresi Grecia, Spagna e Portogallo, l’investimento è di gran lunga più basso e comunque insufficiente rispetto alle potenzialità di ricerca attuali. Si tratta, tuttavia, di una tendenza non solo del presente, anche se nel corso degli anni la situazione è peggiorata a fronte di una generale problematica economica che ha investito i conti pubblici. è, però, mancato in Italia un investimento serio, anche se i governi sia di destra sia di sinistra hanno sovente sventolato, in maniera demagogica, la parola ricerca. Oggi gli Stati Uniti, con Obama, destinano più fondi a questo scopo, ma i democratici americani sono sempre stati molto attenti al tema, poiché ritengono che il futuro di una società sia appunto legato ai progressi delle scienze e delle loro applicazioni.

Non si deve però pensare che questa situazione abbia reso l’Italia secondaria riguardo ai risultati scientifici. La ricerca italiana, soprattutto in alcuni settori, è eccellente. Anzi, nel corso degli anni – e da più di trenta lavoro in questo ambito – ho potuto assistere a progressi davvero significativi. Non a caso abbiamo uno scienziato come il professor Mantovani, immunologo, tra i ricercatori più citati.

Tuttavia, è purtroppo vero che in Italia si fatica moltissimo, a causa di un apparato burocratico terribile, alla mancanza di investimenti adeguati. Penso che un ricercatore americano, un tedesco o un inglese avrebbero difficoltà a lavorare in Italia in alcune delle condizioni in cui noi operiamo. Molti dei risultati cui arriviamo sono legati a una forte motivazione individuale, alla dedizione e in parte anche ai sacrifici, in termini di tempi o di risorse, capaci così di compensare le carenze di tipo amministrativo.

Insomma accade nel mondo della ricerca quello che avviene nella società civile italiana, dove la famiglia supplisce a una serie ingente di mancanze, nell’ambito pubblico dei servizi. L’Italia, poi, è tra i paesi europei con i costi più elevati nel settore della ricerca, riguardo alle apparecchiature, ai reagenti o ai macchinari necessari. Il risparmio, invece, ricade tutto sul personale. In questo modo sicuramente non si promuove la cosiddetta internazionalizzazione della ricerca italiana, per cui giovani stranieri arrivano dall’estero per il dottorato. Un flusso che sarebbe auspicabile per sprovincializzare il nostro ambiente.

Non mancano però tentativi che invertono la rotta. Quest’anno alla Sapienza è stato indetto un bando per gli stranieri. Abbiamo ricevuto circa una cinquantina di domande per la scuola di dottorato in biologia e medicina molecolare che coordino. Molte provengono da paesi come India, Bangladesh, Vietnam, o Africa, però qualcuna anche da candidati europei.

Crede che il fatto di essere una ricercatrice anziché un ricercatore abbia qualche rilievo nell’ambito scientifico italiano?

Personalmente non ho mai avvertito alcuna situazione di svantaggio. Nel corso degli anni, poi, sono aumentate le posizioni delle donne nella ricerca. Alla Facoltà di Medicina, ormai il numero di studenti di sesso femminile è estremamente elevato, come quello di coloro che frequentano il dottorato. Dove sono poche è nei ruoli di leadership.

Credo, però, che questo riguardi le modalità organizzative della società italiana nel suo complesso, non specificamente il mondo della ricerca. Ma oggi le giovani sono molto determinate, potranno forse ottenere più evidenza. Rimane, tuttavia, il fatto che la ricerca in Italia appare un lavoro sempre meno appetibile, non solo per il trattamento economico, ma anche per le incertezze che riguardano l’inserimento dei giovani e la programmazione della propria attività.

Quale sembra essere ora lo scenario prossimo per la ricerca italiana?

Ho riscontrato un tentativo di maggiore sensibilità nella necessità di fare una valutazione più meritocratica dei progetti e dei risultati ottenuti. Tuttavia oggi sarebbe anche necessaria una programmazione maggiore e più a lungo termine degli investimenti per la ricerca. Oggi capita spesso di non sapere quali saranno le risorse finanziarie e umane che si avranno a disposizione nei prossimi sei mesi… e non è certo facile organizzare una ricerca lavorando in condizioni di tale precarietà.

Nuove regole,tempi rapidie più competitività

Roberto Cingolani

Fisico, Università di Lecce, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT),

direttore del Laboratorio Nazionale di Nanotecnologie (NNL).

L’IIT di Genova, che lei dirige, vuole essere un nuovo modello di ricerca in Italia. Di che cosa si tratta e come si inserisce nel panorama generale di un paese che investe poco nella ricerca?

In tre anni, a Genova, partendo da zero, abbiamo creato l’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia), un laboratorio di 25.000 metri quadri, uno dei più grandi in Europa. Abbiamo portato in Italia 380 persone da 37 paesi. Oggi, terminata a dicembre 2008, la fase di start up, l’IIT è a tutti gli effetti una realtà che deve continuare con le proprie forze, imparando a essere altamente competitiva. Il piano scientifico è piuttosto ambizioso, è stato valutato, dettagliato, espanso verso direzioni importanti, che sono tutte collaterali allo sviluppo della tecnologia che abbiamo chiamato robotico-umanoide. Una combinazione di ingegneria, nanotecnologia, materiali, neuroscienze con alcune aperture alla farmacologia. Abbiamo anche creato una piccola rete di laboratori satelliti in Italia, che sviluppano parti specifiche del programma scientifico di IIT. Attualmente sono una ventina i brevetti tra sottomessi e già registrati e oltre 500 le pubblicazioni scientifiche (fra laboratorio centrale di Genova e rete). L’IIT si ispira a un modello anglosassone, che prevede la possibilità di arruolare le persone secondo modalità diverse da quelle attualmente in uso in Italia: selezione diretta attraverso dei panel di valutazione; un controllo periodico sull’andamento della ricerca, a cadenza annuale, attraverso un panel esterno (il consiglio tecnico scientifico), la cui valutazione ha effetto anche per incrementare una parte della retribuzione, legata ai risultati; e una policy di risorse umane, che attribuisce stipendi più alti di quelli che ci sono normalmente nel pubblico in Italia, sebbene non permanenti ed esclusivamente a tempo determinato. Sono questi i tre cardini fondamentali di IIT, che potrebbero funzionare come modello per altre realtà di ricerca, che soffrono assai più di problemi organizzativi che non per l’esiguità dei finanziamenti.

Che prospettive ci sono oggi per i giovani nella ricerca in Italia?

I problemi con cui si scontrano i giovani ricercatori in Italia non sono, secondo me, di carattere tecnico-scientifico, bensì sociologico. Prendiamo uno scienziato che abbia ottenuto un contratto pluriennale, il famoso assegno di ricerca, o semplicemente un contratto a tempo determinato come ricercatore in un ente di ricerca, per esempio università, CNR, INFN. Questa persona percepisce uno stipendio fra 1.200 e 1.600 euro netti al mese, 12 o 13 mensilità per due o tre anni. Con questo stipendio a seconda di dove risieda, se a Milano o a Lecce, si garantirà una qualità della vita più o meno decorosa. Ma quando questo giovane andrà in banca e chiedere un prestito per comprarsi non la casa, ma la moto o la macchina, il prestito gli verrà quasi certamente negato. Persino il sistema bancario che noi abbiamo è tarato sul posto permanente. è chiaro che questi giovani che stanno, da un lato, lanciando la loro carriera e, dall’altro, fondando la loro vita (si presuppone che abbiano un fidanzato, una fidanzata, che vogliano metter su famiglia ) si trovano a essere demotivati e infelici del proprio mestiere. Nella ricerca, che richiede entusiasmo, passione e dedizione, questo rischia di essere uno dei principali meccanismi inibitori per la crescita del nostro vivaio di giovani, svuotando questo mestiere di attrattività. Eppure continuiamo a essere degli apprezzati produttori di giovani colti, a livello di scuole e di università, e, in alcuni settori, abbiamo una comunità scientifica estremamente propulsiva.

Il problema è sociale, socio-culturale. Rendiamo la ricerca più appetibile. Mutuiamo dallo sport talune regole. Lo sport vive di graduatorie, non è immaginabile un campionato di calcio senza una classifica, o dove l’allenatore venga eletto dai calciatori. Anche nella ricerca, dunque, inseriamo una valutazione più rigorosa. Parlo di una valutazione sui progetti, ma anche del personale sia in fase di reclutamento sia in itinere, di uno snellimento sostanziale delle procedure di appalto per l’acquisto di qualunque macchinario e per la costruzione di infrastrutture di ricerca, di risolvere l’annoso problema di rispettare una tabella dei tempi nella creazione di un laboratorio. Il tempo è uno dei fattori necessari, insieme ai neuroni e al capitale, per il successo nella ricerca. Il tempo rende competitivi. Quando si offre qualcosa di simile in Italia, i giovani non scappano: anzi, con l’IIT ne abbiamo richiamati moltissimi dall’estero.

Ritiene che la ricerca italiana sia in una fase di apertura?

Sta avvenendo un profondo dialogo fra tutti i componenti del mondo della ricerca. L’università interroga se stessa, gli enti si interrogano, anche il Ministero della Ricerca opera delle riflessioni sui metodi e sulla governance. Sta crescendo l’interdisciplinarità. Ormai c’è un totale travaso di tecnologia, computazione, hardware e life science in una specie di insalatone culturale. è inevitabile che si stia mettendo in discussione sia dal punto di vista dei profili, della preparazione, sia anche dal punto di vista della gestione, tutto l’impianto della ricerca. Naturalmente sta anche crescendo il disagio dovuto alla situazione dei giovani. Poi interviene un terzo elemento importante: nei momenti di congiuntura pesanti come questo, le componenti industriali private tendono a essere più conservative, hanno meno possibilità di investire e questo, soprattutto nelle discipline tecnologiche, è un problema importante. Se le grandi aziende tendono a investire di meno, c’è meno domanda di ricercatori, meno domanda di formazione e meno domanda di sviluppo tecnologico. è altrettanto vero che nelle congiunture peggiori bisogna investire, per essere pronti al momento del riavvio.

Pertanto non condivido il pessimismo sulla ricerca italiana, quello nerissimo e catastrofico, né condivido l’acrimonia con cui talvolta si guarda a esperimenti e progetti pilota come quelli di IIT. Servono certamente più risorse, ma anche meno complicazioni nella gestione delle risorse esistenti. E poi è necessario credere in ciò che facciamo e nel valore del nostro lavoro. In questo ho sempre in mente l’esortazione del Capo dello Stato, a ritrovare il nostro orgoglio e cercare di correggere i nostri errori, con buona volontà.

La miopia politica e la barriera ai giovani

Marcella Diemoz

Fisica, dirigente di ricerca all’INFN e coordinatrice nazionale

dell’esperimento CMS al CERN.

Secondo la sua prospettiva di scienziata che sta seguendo progetti importanti a livello internazionale, qual è in questo momento la situazione della ricerca in Italia?

Per la ricerca in Italia non c’è attenzione. Si tratta di una situazione generale e non nuova. Mi riferisco in particolare alla ricerca pura, sebbene nemmeno quella applicativa venga sufficientemente implementata. Ciò che stupisce, in tempi come quelli attuali, di pesante crisi, è la miopia politica, una miopia che rende ciechi di fronte al fatto che, anche a livello strettamente economico, la ricerca rappresenta una risorsa straordinaria, un investimento estremamente proficuo. In concreto, questo significa, infatti, che, se si ha denaro da investire, si può procedere all’acquisto di strumentazioni, di macchinari, all’ampliamento e al potenziamento dei laboratori. Dunque, a prescindere dal prossimo futuro, in cui la ricerca pura potrà portare a innovazioni, l’investimento innesta anche nell’immediato una spinta economica: fa circolare ricchezza, la produce. Sviluppiamo un indotto importante, facciamo muovere le industrie dell’alta tecnologia, un mercato di know how non indifferente. In questo momento, per esempio, in Europa come in America, si stanno creando numerosi centri di calcolo, per l’elaborazione dei dati più diversi, strutture che applicano il cosiddetto calcolo «a griglia». Al contrario, all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), proprio in questo momento ci stiamo confrontando con l’estrema difficoltà di organizzare un sistema necessario ad analizzare i dati che escono dalla grande macchina su cui lavoriamo, perché non ci sono i fondi necessari. Mentre gli altri paesi realizzano che la ricerca è una via per uscire dalla crisi, non solo nel lungo periodo, ma anche nell’immediato, la politica italiana sceglie come strada quella dell’aumento della cubatura dei fabbricati. Già questo è sufficiente a dare il polso della situazione culturale di un paese. Un paese che avrebbe bisogno di una classe dirigente preparata su temi di cui, invece, pare del tutto inesperta o, quantomeno, distante. Né ci sono grosse differenze tra destra e sinistra. La parola ricerca serve in campagna elettorale, ma appena il governo si insedia e deve affrontare la Finanziaria, i tagli ricadono sempre nel nostro settore. La politica non è interessata alla ricerca, perché la ricerca non rende. Non rende in termini di voti.

Quali soluzioni si potrebbero approntare per ovviare a questa situazione?

Il problema, come ho detto, è culturale. Una incultura frutto di un’educazione fatta senza criterio dalla televisione. Il livello dei dibattiti in Italia oggi è imbarazzante. Il valore è l’immagine, importante è il denaro. Il mezzo televisivo ha tuttavia una forza di penetrazione sbalorditiva, capace di annientare gli altri sforzi. Noi, per esempio, lavoriamo molto nelle scuole, siamo attivi con programmi di diffusione della cultura scientifica e riscontriamo anche forti entusiasmi. Ma la legge dei grandi numeri parla di un universo in cui la stragrande maggioranza dei ragazzini vuole fare il calciatore, mentre le coetanee sperano di diventare veline. Che cosa importa com’è nato l’universo?

La difficoltà a vedere delle soluzioni deriva specialmente dal problema delle giovani generazioni, da come vengono cresciute, ma anche dal muro che tiene fuori i giovani dalla ricerca. Abbiamo molti giovani ricercatori bravissimi che, non avendo alcuna prospettiva in Italia, poiché si sono ristretti persino i posti a tempo determinato, si spostano negli altri stati europei o americani. Ancora oggi, l’università italiana produce, almeno nel mio settore, la fisica, giovani di altissima qualità. Per esempio nell’ultimo concorso del CNRS nel mio settore in Francia, che ha livello nazionale e cadenza annuale, tre tra i primi classificati erano italiani. è terribile assistere di continuo a questa sorta di emorragia di risorse. Siamo noi ormai i primi a consigliare ai giovani di trovare un impiego all’estero, e lo trovano, a riprova della loro qualità, oltre che del fatto che all’estero la situazione non è paralizzata e asfittica come in Italia. Naturalmente un periodo di formazione all’estero sarebbe sempre auspicabile, ma poi questi ragazzi dovrebbero essere messi nelle condizioni di tornare e lavorare qui. Non ci si rende conto che investire nei giovani, nella loro preparazione per poi «cederli» ad altri laboratori costituisce, anche in senso economico, una perdita secca per il paese.

Perché le cose cambino avremmo bisogno di un Obama. Per il momento, non appare nulla di rilevante all’orizzonte. A questo problema si aggiunge un generale disinteresse anche da parte dei media, convinti che la scienza non sia capace di fare richiamo, non offra delle storie e quindi, non conquisti i lettori. Quando poi, com’è accaduto alla presentazione dell’esperimento in corso al CERN con l’acceleratore di particelle, la stampa interviene, le domande che pone sono sempre «sensazionalistiche». Si cerca la fine del mondo, o, nel migliore dei casi, una risposta immediata: «ma se l’esperimento riesce, a che cosa serve?». Come se si fosse domandato a Galvani, mentre faceva saltare le rane, che cosa produrrà quello che fai? Il telefonino, la televisione…

Ricercatori e ricercatrici. Stessa condizione?

Una differenza esiste. Non nella prima fascia – in quello che chiamiamo entry level – dove le donne ricercatrici, in Italia, per quanto riguarda la disciplina fisica, coprono il 29 per cento delle posizioni. Invece, quando ci si sposta alle fasce alte, ossia alla docenza, il numero si abbassa molto: il 7 per cento nell’ultimo passo della carriera. Un dato che, negli ultimi dieci anni, (l’analisi che riporto si riferisce al periodo compreso tra il 1997 e il 2007) non è sostanzialmente mutato. Nel 1997, infatti, la percentuale delle donne presenti all’entry level era del 25 per cento, contro l’attuale 29 per cento, e tra i professori del 5 per cento, a fronte del 7 per cento oggi. Un confronto che parla chiaro e che evidenzia, di nuovo, la natura intrinseca del problema, che non può spingersi solo con il rallentamento che sovente interessa la carriera femminile, poiché una donna rimane a casa qualche tempo per la maternità e la crescita dei figli. Siamo un paese vecchio. Vecchio e ignorante. Un paese che sta portando di nuovo alla ribalta l’idea che la donna debba occuparsi della casa, dei figli e del marito, sognando qualcosa che somigli al principe azzurro, anche se ormai un po’ attempato.

Naturalmente siamo anche intelligenti ed esistono aree di eccellenza nella ricerca. Chiunque scelga questo mestiere lo fa per passione, non per i soldi, né tanto meno per la fama. Per passione, per curiosità. Mi chiedo quali e quante cose riusciremmo a fare se fossimo governati in modo adeguato.

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