Alle radici dell’innovazione

Un lavoro di interfaccia, tra comunità e reti

di Filippo Dal Fiore e Guido Martinotti

Il contesto in cui si innesta il discorso sull’innovazione dipende dal modo in cui il problema è stato affrontato nel corso di decenni di cultura industriale nei vecchi settori cosiddetti “pesanti”, come la chimica o la metalmeccanica. L’attenzione maggiore veniva riposta sulla fase di realizzazione dell’artefatto innovativo, assegnando relativamente poca importanza a quella immediatamente precedente, la generazione dell’idea innovativa, e a quella successiva, l’accettazione dell’innovazione stessa da parte di un'”utenza” finale.

La natura dei prodotti e il dominante determinismo tecnologico hanno fatto passare in secondo piano l’analisi delle componenti sociali dell’innovazione, quelle condizioni che rendono alcune società e alcuni gruppi più innovativi di altri. Fattori che diventano sempre più rilevanti in settori emergenti “smaterializzati” come il design e la comunicazione oltre che, in generale, nei servizi.

Questo secondo approccio porta ad una visione allargata della questione: dalla politica allo sport, dal costume all’arte, dal business alla contro-cultura al terrorismo, l’innovazione prende forma non solo a partire da un atto creativo individuale (la lampadina del genio) ma anche e soprattutto come risultato di particolari spinte sociali sottostanti che mettono in relazione tra loro individui o altre tipologie di attori o “agenti” (come aziende o gruppi).

Non si tratta più soltanto di creare un prodotto o adottare un processo innovativo, quanto di coltivare contesti sociali e di comunicazione a partire dai quali possano più facilmente essere concepite, accettate e diffuse differenti tipologie di innovazione.

Acquisiscono importanza nuovi fattori per l’analisi del fenomeno: le dinamiche di interazione tra gli attori; il linguaggio come forma di mediazione e reificazione dell’innovazione; l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; il ruolo dei trend emergenti; le caratteristiche dei contesti culturali e sociali, nonché la loro apertura e capacità di attrazione dei talenti.

Uno dei concetti portanti in questo campo é quello suggerito da Harvey Moltotch, di lash-up, cioè della sinergia improvvisa che si crea tra i diversi fattori, economici, tecnici, culturali e istituzionali che concorrono a dar vita a un oggetto, ma anche più in generale ogni nuova entità organizzata. Nel suo senso letterale lash-up significa “un qualcosa messo insieme in fretta e in modo (quasi) improvvisato”, nel senso che l’improvvisazione ha più a che vedere con la rapidità del processo conclusivo che non con l’improvvisazione, intesa come superficialità. In effetti gran parte del significato di “lash-up” si ritrova nel termine italiano di “composizione”, soprattutto architettonica. Il vocabolo inglese rende bene, anche foneticamente l’idea che si tratti di un processo che accentua il momento creativo, contrapponendolo a una concezione meccanica del design o di qualsiasi altro prodotto di una sistematica attività produttiva di tipo “ingegneristico”, cui il senso comune attribuisce rigore progettuale e linearità di scopi e di processo. Invece, mutuando un concetto da John Law, che a sua volta lo riprende da Bruno Latour, questa teoria vuole sottolineare l’elemento combinatorio e creativo che sta dietro alla creazione degli oggetti e all’innovazione in genere.

Comunità contro network

Questi temi sono stati al centro della tavola rotonda dal titolo “Communities Vs Networks, come contenitori sociali per l’innovazione”, condotta a Milano lo scorso 13 giugno nell’ambito della conferenza scientifica internazionale Communities and Technologies. Esperti provenienti da 4 continenti e da differenti contesti disciplinari e professionali hanno confrontato le loro idee, a partire dall’assunto che molta dell’innovazione nasca da un lavoro “di interfaccia” tra attori appartenenti a reti sociali ed economiche diversificate.

L’ipotesi di fondo, alla base del workshop, è che quello che nel linguaggio di tutti i giorni chiamiamo “comunità” e “reti” (di persone e di imprese, ma anche di nazioni, basti pensare alla “Comunità Europea”) rappresentino i contesti di maturazione di innovazioni di diverso tipo. Se le comunità, per definizione fondate a partire da un interesse collettivo e da una forte identità condivisa, sono pre-condizione per un’innovazione di tipo lineare e incrementale, i network sono costruiti a partire dalla massimizzazione degli interessi dei singoli individui e agenti e rappresentano il serbatoio per innovazioni radicali.

Prendiamo una divisione aziendale di ricerca e sviluppo o un dipartimento accademico. Normalmente, questi presentano molte delle caratteristiche delle “comunità”: identità comune, specializzazione e ruolo chiari per ogni componente, confini precisi (o fai parte del dipartimento o sei un esterno), abitudini e linguaggio via via più simili per i membri del gruppo. Si consideri ora, di converso, una rete informale formata da ricercatori universitari, membri di una divisione corporate di Ricerca e Sviluppo e funzionari di pubblica amministrazione, per confrontarsi su una linea di progetto di interesse comune. In questo caso, la comunicazione si muove orizzontalmente tra universi di significato e di riferimento diversi, l’interazione rappresenta un momento di confronto, il beneficio della collaborazione è strumentale ai fini dei singoli partecipanti, i confini della rete sono (potenzialmente) riconfigurabili velocemente per obiettivi condivisi diversi.

Nei contesti comunitari la spinta verso la specializzazione porta a una linea di innovazione basata su piccoli incrementi su linee di sviluppo già definite; attraverso i legami deboli dei network, invece, è più facile colmare quei gap di comunicazione che tenevano lontani ambiti di competenza combinabili in modo originale, per dar forma a idee, processi e prodotti radicalmente innovativi.

Ma il fenomeno delle comunità e dei network non si limita ai rapporti tra professionisti o aziende, dal momento che parliamo di “comunità” scientifica, di “network” di cellule terroristiche, di “Comunità” Europea, di “network” no-global, di “comunità” finanziaria, e chi più ne ha più ne metta. I principi di funzionamento di questi aggregati di attori sono sempre gli stessi: se le innovazioni radicali nascono nei contesti di network ma poi per diventare sostenibili devono trovare radicamento in una o più comunità, le innovazioni incrementali nascono nei contesti comunitari ma hanno poi bisogno di essere diffusi attraverso uno o più network. Prendiamo l’Euro: si tratta di un’innovazione indubbiamente radicale nata dalla volontà dei singoli stati sovrani di associarsi per massimizzare i propri individuali benefici economici (una spinta di network). Ma questa stessa innovazione ha poi obbligato gli stessi stati a rispettare una nuova serie di norme, ruoli e un’identità condivisa (una spinta di comunità) necessarie per l’effettiva implementazione della casa monetaria comune.

La forza delle “comunità di pratica”

Si spiega così il boom di attenzione in questi ultimi anni rispetto alle metodologie della “social network analysis” nonchè alle cosiddette “Comunità di Pratica” o CoP, che in realtà assomigliano più a delle “reti”, così come noi le teorizziamo

Nel corso del nostro workshop, alcuni colleghi dell’olandese Wageningen University hanno presentato la loro esperienza nella gestione di 8 comunità di pratica composte ciascuna da circa 40 partecipanti, finanziate dal locale Ministero dell’Agricoltura per l’innovazione nel settore dell’agro-logistica. Le CoP, con un ciclo di vita di 5 anni, sono gruppi di discorso e di progetto formati per affrontare problematiche o questioni di ricerca specifiche (ad esempio, “la nuova governance nelle aree rurali”), riunendo intorno allo stesso tavolo gli addetti ai lavori di varie organizzazioni operanti nel territorio: imprenditori, policy makers, ricercatori, consulenti.

Dopo una prima fase di socializzazione, con la spinta di un esperto o “master” dell’argomento, le comunità si danno le proprie regole di funzionamento e decidono quante volte e in che modi interagire (normalmente bi-settimanalmente in presenza e più di frequente attraverso un sito web dedicato). Un’interessante dinamica riscontrata dai ricercatori olandesi è che nel primo periodo del ciclo di vita di una CoP si assiste a un progressivo processo di accumulazione di conoscenze, fino ad arrivare ad un momento più o meno improvviso di “sblocco” in seguito al quale i partecipanti tornano nelle organizzazioni di appartenenza e danno vita a progetti innovativi, autonomamente o in partnership con qualche altro partecipante.

A questo punto, le CoP si trasformano in luoghi per la celebrazione delle innovazioni prodotte, con il contributo indiretto anche di quei membri -detti lurker- che si limitano ad osservare quello che succede nella comunità senza prendere l’iniziativa.

I contesti urbani e le sedi dell’innovazione

Ultimo tema del nostro workshop, il rapporto tra città e dinamiche dell’innovazione.

Nonostante il senso comune la relazione tra contesto urbano e innovazione non è più così indiscutibile. Certamente in termini molto generali il contesto urbano comprende quelle caratteristiche di accessibilità, capitale umano e sociale e facilità di scambi che facilitano l’innovazione. Tuttavia, oggi, con la crescente diffusione sul territorio delle attività produttive e di scambio e la disponibilità di strumenti di comunicazione e di trasmissione delle informazioni, la città in quanto tale ha perso il monopolio assoluto sull’innovazione. Molte produzioni specializzate sono legate ad aree particolari, i “distretti”, che non sono necessariamente a elevato tasso di urbanizzazione. E molte innovazioni avvengono sulla Rete, in uno spazio non sempre facilmente traducibile in termini localizzativi precisi.

Nel contesto del nostro Working Group sono stati presentati casi molto interessanti di innovazioni in contesti decisamente non urbani, anche se HiTech.

Filippo Dal Fiore è ricercatore in Sociologia dell’Innovazione, affiliato con l’Università di Milano Bicocca e il M.I.T. di Boston. E’ autore, per UTET, del libro “Entità in formazione. Governare il cambiamento tra comunità e network” (ottobre 2005).


Guido Martinotti è professore ordinario di Sociologia Urbana presso l’università di Milano Bicocca e prorettore della stessa università.

Related Posts
Total
0
Share