Comunicare a scuola

Un’indagine in corso si propone di superare le osservazioni critiche spesso contenute nella letteratura sui minori

di Mario Morcellini 

È fragile, bisognoso di cure, esposto a molteplici influenze. Poco accudito da genitori indaffarati e impermeabile agli insegnamenti di una scuola in difficoltà, è incredibilmente attratto dalla scatola magica televisiva. Preferisce la compagnia della playstation a quella dei propri coetanei. Quando non è manipolato dalla TV, usa i mezzi di comunicazione per registrare atti di violenza e bullismo.

È questo l’identikit del bambino medio italiano che emerge da tanti servizi giornalistici e da una certa letteratura scientifica.

L’interazione con i media ” temuta, mai del tutto accettata, ma spesso favorita dagli adulti ” è un tema ormai sistematicamente associato ai discorsi sui minori. E il modo in cui se ne parla tradisce una visione drammatica e un po’ retrò, che sconta un evidente ritardo rispetto alla realtà della relazione tra giovani e mezzi di comunicazione.

Sembra chiaro, infatti, che i bambini e i ragazzi cui pensano gli adulti sono diversi da quelli reali. Certo, essi appaiono, per molti versi, indecifrabili: sembrano il prodotto di una «mutazione» di cui non è chiaro il segno. Sotto la superficie apparentemente effimera e patinata dei loro stili di vita e di consumo, si nasconde un intero giacimento di valori e controvalori osservabili spesso in modo solo indiziario, una molteplicità di segnali di identità, vissuti contromano rispetto al mondo degli adulti.

L’esperienza insegna anzitutto che l’analisi degli orientamenti culturali, comunicativi e valoriali di bambini e ragazzi richiede un notevole sforzo interpretativo, ma anche dosi di cauta «sospensione del giudizio». Da qui, l’opportunità di valutarli dal punto di vista dell’ambivalenza dei loro stili culturali, oltre gli aspetti di superficie o i titoli da «prima pagina».

Accettarne contraddizioni, discontinuità e segnali deboli rispetto ai protocolli di analisi consolidati permette di cogliere il volto dei nuovi giovani e di rendere evidenti luci e ombre della loro esperienza comunicativa.

Alcuni approdi

Se le certezze in questo campo sono decisamente più deboli delle incertezze, il primo passo da compiere per dipingere un quadro realistico è quello di rinunciare ai toni catastrofici che rappresentano il più resistente pregiudizio nei confronti del ruolo e della potenzialità dei media, la televisione in particolare, per i minori. Bisognerebbe tenere in debito conto, per esempio, che nel corso del tempo non è cambiata solo la TV, con un alleggerimento sostanziale della sua centralità nella vita di tutti, ma sono cambiati anche i ragazzi, molto più aperti a una tastiera multimediale e diversificata di stimoli e sollecitazioni comunicative e culturali.

Parte della recente ricerca scientifica ha scoperto che i bambini usano i media con una vena di intelligenza insospettata per gli adulti. La stessa camera dei ragazzi appare la metafora di un epocale salto generazionale: le tecnologie segnano i confini di una sorta di zona ipermediale «extra-territoriale», di difficile accesso per i genitori. Analogamente, il moltiplicarsi di percorsi comunicativi «alternativi» e più personalizzati (blog, newsgroup, webradio eccetera) prospetta il rischio di una sorta di «provincializzazione» culturale, legata al trincerarsi di giovani e adulti nei rispettivi ghetti espressivi.

Una nuova indagine

Questo è quello che emerge nella nuova ricerca Comunicare a scuola condotta dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma «La Sapienza», in accordo con la Regione Lazio (IX Commissione Lavoro, Pari Opportunità e Politiche Giovanili). I giovani sono ancora una volta oggetto di studio per superare le osservazioni critiche spesso contenute nella letteratura sui minori e demolire il tono pedagogico con cui gli adulti individuano le distanze culturali da loro.

L’indagine, tuttora in corso, coinvolge un campione di 2.400 alunni delle scuole primarie di primo e secondo grado dei venti municipi romani. Il suo intento è duplice: indagare orizzontalmente le abitudini di fruizione giovanile rispetto ai media e alle attività culturali outdoor; valutarne verticalmente l’influenza sulla rappresentazioni sociali della realtà elaborate e condivise da bambini e ragazzi.

Una prima parziale elaborazione dei dati ottenuti dalla somministrazione di un questionario semi-strutturato a 1.200 bambini e preadolescenti «metropolitani», di età compresa tra i 6 e i 13 anni, ha permesso di costruire un identikit piuttosto preciso delle loro abitudini mediali.

I dati descrivono giovani abituati a vedere la TV, anche se con una costanza minore rispetto al passato (la percentuale del nostro campione si attesta intorno al 73,6 per cento a fronte di un 97,1 per cento del campione giovanile nazionale). Pur guardandolo in media tra le due e le tre ore giornaliere, il medium televisivo non è quello preferito. Nell’hit parade dei mezzi di comunicazione di bambini e ragazzi il primo posto è occupato, infatti, dalla console per videogiochi (con il 41,7 per cento delle preferenze). Un posto di rilievo lo hanno anche PC e cellulare. Se il primo, pur essendo usato in particolare dai preadolescenti (93,2 per cento), piace anche ai più piccoli (85 per cento), il secondo è comprensibilmente più diffuso presso i ragazzi (93 per cento vs 43 per cento) che tendono a usarlo come supporto delle relazioni amicali.

Nonostante i frequenti allarmismi di coloro che ritengono la TV una cattiva maestra, nel nostro campione la frequentazione televisiva non ha soffocato altre forme di consumo culturale, sopratutto interattive e sociali. Basti pensare che l’attività più praticata dai preadolescenti è «vedere gli amici».

L’immaginario giovanile

Prestare attenzione a come i ragazzi trascorrono la giornata, scoprendo cosa amano guardare, leggere o fare, permette di avanzare ipotesi su quanto e in che modo i «mondi mediali», insieme alle altre agenzie di socializzazione, contribuiscono ad alimentare l’immaginario giovanile. Per questo la ricerca ha cercato di andare oltre la costruzione dei tempi mediati nella vita di bambini e ragazzi, per concentrarsi sulla percezione che essi hanno della realtà, sulle loro paure e valori, per scoprire in che misura questi fossero elaborati attraverso metafore e immagini «mediate».

L’analisi rileva bambini, e ancor più ragazzi, spesso guidati nella lettura del mondo dalle rappresentazioni mediali. Per piacere ai propri coetanei, per esempio, credono che servano soprattutto bellezza e simpatia, associate a doti di bravura e intraprendenza per le femmine, di forza e abilità per i maschi. Raccolgono poi percentuali considerevoli risposte come «vestirsi alla moda», «essere fighi» o avere oggetti come la playstation, le macchinine, le figurine eccetera.

Così, bellezza, forza, intraprendenza, competitività e successo personale sembrano ai bambini requisiti importanti per agire nella società. E la spettacolarizzazione mediale appare la probabile ragione dell’attualità dei «vecchi» valori dell’avere e dell’apparire.

Alla richiesta di indicare, invece, cosa sia importante per loro, i ragazzi prima affermano di non saperlo, poi segnalano «amici» e «famiglia». E se gli intervistati si pongono al centro dell’universo dei propri genitori, credendo di essere loro la cosa più importante per il padre e la madre, ciò che più conta per gli amici è il divertimento, seguito dall’amicizia e dal possesso di una bella casa, di un lettore mp3 o di un gameboy. La proiezione sui coetanei dei desiderata dei bambini sembra piuttosto evidente.

Tra le paure, invece, emerge un curioso mix di timori ordinari e fuori dal comune. Prevedibile e piuttosto ordinaria è, per esempio, la preoccupazione per la morte. Più originali le paure di «mostri», «fantasmi», «vampiri», «sangue», «leoni», «coccodrilli», «giganti» o «zucche di Halloween». Il sospetto che buona parte di queste preoccupazioni sia legata a immagini televisive o mediali sembra rafforzato da quei bambini che dichiarano esplicitamente di essere spaventati da film o telefilm come cream, The ring, CSI o Harry Potter 4, ma anche da chi sostiene di aver paura dell’«assassino nella doccia», immagine che ricorda una scena di Psycho.

Una conferma del ruolo dell’immaginario mediale nell’elaborazione di tendenze, credenze e apprensioni viene inoltre da chi dichiara di temere terremoti, uragani, pedofili, rapimenti o attentati terroristici, collegati probabilmente alle immagini di telegiornali e programmi di cronaca, a cui i bambini tendono ad attribuire assoluta veridicità.

In conclusione, i media sono molto di più che semplici ambienti di trasmissione della conoscenza. Si configurano, infatti, come spazi di scambio e condivisione di valori, idee e simboli che condizionano i processi di identificazione individuale e collettiva fino a porsi come ambiti di socializzazione. In essi i giovani da un lato soddisfano il bisogno di individualizzazione, dall’altro ricostruiscono appartenenze simboliche e linguistiche in un quadro socioculturale svuotato di punti di riferimento certi.

In questa prospettiva, la comunicazione assume un nuovo significato: non svolge più soltanto una funzione di supplenza alla crisi moderna, ma moltiplica le occasioni di dialogo e interazione, grazie soprattutto all’aggiornamento offerto dalle tecnologie. Diventa uno spazio di accumulazione capitalistica di simboli e segni che aumentano le chances di identificazione, riconoscimento, scoperta ed esplorazione di sé e del contesto circostante.

Se anche l’universo dei media tendesse a prevalere su quello dell’esperienza diretta, come le ricerche lasciano intendere, questo non significherebbe necessariamente che i suoi contenuti vengano assorbiti tutti, o in modo passivo.

Rifiutando di sottolineare solo gli aspetti potenzialmente positivi dei media, a senza voler sopravvalutare quelli negativi, la ricerca dimostra che serve una visione di confine. Da una parte, per esempio, la scatola magica esercita un forte fascino sui piccoli spettatori, così da diffondere subculture, mode, linguaggi e rafforzare valori, credenze e timori. Dall’altra, i bambini dimostrano di essere un pubblico attivo, capace di selezionare i contenuti e distinguere i piani della realtà e della fiction, confrontando ciò che vedono in TV con le loro già acquisite e personali conoscenze ed esperienze.

Certo l’analisi della ricerca Comunicare a scuola non è ancora conclusa. Restano da indagare sia l’effettiva relazione tra usi sociali dei media e vissuti, stili di vita, comportamenti e preoccupazioni dei minori, sia il grado di «coltivazione» delle visioni della realtà elaborate da bambini e ragazzi. Così, il seguito dell’indagine, caratterizzato da metodi non standard pensati per un campione circoscritto di soggetti, costituirà per noi una sfida interessante. La speranza di aver suscitato qualche dubbio, invece, sulla solidità delle percezioni negative nel dibattito media-minori è già un primo importante risultato.

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