I beni culturali come capitale sociale

Un’articolata antologia di testi introduttivi ai diversi settori della cultura, come risorsa relazionale, consente di valutare il ruolo delle politiche pubbliche.

di Mario Morcellini 

L’innovazione in atto nel settore dei beni culturali reclama una specifica prospettiva sociologica, come punto di partenza per nuove e più organiche politiche tese a promuovere l’analisi, la valorizzazione e l’accesso allo straordinario patrimonio artistico-culturale italiano. Questa la convinzione che anima il volume recentemente curato da Mario Aldo Toscano ed Elena Gremigni (Le Lettere, Firenze, 2008): un’articolata e originale antologia di testi introduttivi all’analisi scientifica del settore dei beni culturali e, in particolare, alla legittimazione di una specifica tradizione sociologica in materia.

In questo spirito, i beni culturali sono programmaticamente assunti nella loro più ampia e inclusiva dimensione di beni sociali: una speciale categoria di “beni relazionali” che, per essere pienamente compresi, esigono dunque una sociologia dedicata nel contesto della sociologia della cultura contemporanea. La prospettiva sociologica sui beni culturali resta infatti a tutt’oggi marginale, frammentaria e poco organica nel panorama italiano: ciò anche alla luce dell’estrema eterogeneità della letteratura di riferimento e delle stesse ascendenze scientifiche di un terreno “di confine”, di per sé profondamente aperto alle contaminazioni e alle eterodossie disciplinari.

Gli apporti multidisciplinari e il percorso antologico “sperimentale”

Proprio l’estrema latitudine degli scenari multidisciplinari delineati dalle scienze sociali, umanistiche ed economiche − a partire dalla rilettura dei “classici” e dei contributi fondativi maturati in ambito filosofico, letterario, antropologico, sociologico e manageriale – diventa l’orizzonte di partenza per la “formulazione delle ipotesi di lavoro” della nuova disciplina.

Grazie a un attraversamento mirato dei temi chiave e degli sviluppi contemporanei nel settore, il volume si offre come un contributo concreto alla definizione dell’apparato concettuale, delle metodologie e degli obiettivi conoscitivi che animano la disciplina nascente. In particolare, il percorso antologico sperimentale proposto al lettore si sviluppa attorno a sei principali percorsi filologici e tematici: la valorizzazione della memoria storica e sociale e, dunque, dell’identità condivisa; le valenze educative e i processi di apprendimento; il mutamento nel significato nei valori dell’esperienza artistico-culturale per i pubblici contemporanei; la democratizzazione dell’esperienza artistica nell’epoca della riproducibilità digitale; la compenetrazione con l’industria culturale e le sue contraddizioni. Infine, le nuove prospettive economiche e manageriali dischiuse dall’innovazione del settore e dalla sua gestione strategica a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.

Ogni nucleo tematico corrisponde a una specifica sezione dell’antologia, introdotta da una nota critica ai testi: questi ultimi consentono di ripercorrere il pensiero dei classici e delle più autorevoli voci contemporanee, spaziando dall’estetica ai “padri” del pensiero sociologico, fino ad alcuni recenti contributi provenienti dall’economia della cultura. Prospettando la strada per future implementazioni, utili soprattutto nella direzione oggi tracciata dalle scienze manageriali e comunicative, la rassegna antologica configura un percorso “aperto” e uno strumento interessante anche sotto il profilo del potenziale impiego didattico, in un settore in cui – come noto – restano a tutt’oggi carenti l’offerta sia di formazione sia di ricerca.

Al cuore del volume − e, più in generale, della “scoperta” dei beni culturali da parte delle scienze sociali − la consapevolezza del profondo cambiamento in atto nella percezione condivisa del “valore” della cultura. Su questo punto insiste la densa introduzione di Mario Aldo Toscano, dal titolo programmatico Beni culturali e sociologia. Chiude il volume la Postilla finale curata da Elena Gremigni (pp. 507-522), proponendo una lettura evolutiva del settore a partire dalla sua spesso “ingombrante” definizione giuridica; il tutto con particolare riferimento alla mission decisiva di valorizzazione e, in particolare, al ruolo della didattica nell’esperienza sociale dei beni culturali.

Il valore dei beni culturali ieri e oggi

Nelle intenzioni dichiarate degli autori, l’analisi sociologica dei beni culturali muove dal (e, a un tempo, punta al) riconoscimento del settore come fonte di valore a tutto tondo – culturale, civico ed economico − per i singoli e per il sistema-paese.

Da una parte, un’ennesima “anomalia” del caso italiano è segnata in questo settore dalla straordinaria e capillare concentrazione del patrimonio artistico-culturale di cui il nostro paese è depositario, e rispetto al quale gli anni Novanta del secolo scorso hanno rappresentato un momento decisivo di innovazione e rilancio del sistema domanda-offerta, grazie a una pluralità di nuovi fermenti (privatizzazioni, servizi aggiuntivi, estensione degli orari di apertura, marketing e comunicazione, ampliamento dell’utenza eccetera). Il cambiamento in atto da oltre un decennio (eloquentemente documentato, a livello nazionale, dall’ISTAT e dalle altre fonti statistiche di settore) conferma la cultura dal vivo fra i capitoli più espressivi dell’innovazione in atto nel tempo libero degli italiani: ciò alla luce di un superamento della dimensione di “nicchia”, di un tendenziale avvicinamento agli standard europei e, dunque, di una capacità di presa sul pubblico indubbiamente superiore rispetto al pur recente passato.

Di fatto, come già abbiamo avuto modo di segnalare ripetutamente sulle pagine di questa rivista, dagli anni Novanta a oggi le statistiche culturali ufficiali registrano un significativo aumento nella penetrazione di tutte le tipologie di spettacolo e intrattenimento dal vivo outdoor, senza alcuna esclusione: dal cinema alle discoteche; dai concerti di musica leggera agli spettacoli sportivi; fino a consumi tradizionalmente giudicati di qualità quali musei, mostre, spettacoli teatrali, concerti di musica classica. In particolare, il trend di crescita ha premiato in questi anni soprattutto il consumo saltuario rispetto a quello abituale, con ciò prospettando una promettente fuoriuscita della cultura dal vivo da una dimensione tradizionalmente “iniziatica” ed elitaria e, di fatto, una crescente differenziazione dei pubblici di riferimento e dei loro sistemi di aspettativa.

Ciononostante, è evidente che molto resta da fare per promuovere anche nel nostro paese una domanda culturale matura. I dati nazionali ricordano, infatti, che la diffusione sociale del consumo culturale outdoor resta ancora circoscritta, attestandosi in tutti i casi al di sotto di una soglia di penetrazione del 30 per cento (con l’unica eccezione del cinema) e, di fatto, all’insegna di forti disparità sociali e territoriali. Ma, soprattutto, sono le rilevazioni internazionali (prime fra tutte, quelle dell’Eurobarometro) a provare a tutt’oggi la persistenza di rilevanti distanze e ritardi rispetto alla situazione di altri paesi.

Il “senso del sacro” nell’esperienza culturale

D’altra parte, occorre riconoscere quanto i radicali cambiamenti legati alla ridefinizione degli assetti giuridici e organizzativi di settore, all’impatto delle tecnologie e, non ultimo, al cambiamento profondo dell’utenza, abbiano lasciano fondamentalmente intatto – a un tempo “democratizzandolo” per nuove fasce di pubblico – il valore più universale di cui il patrimonio artistico-culturale è portatore: la capacità di “interpellare” in profondità gli attori sociali, di richiamare questi ultimi a un sistema di valori aspirazionali. Un potere che – come noto − sostiene e travalica a un tempo le incombenze della vita quotidiana, ivi incluso l’ambivalente bisogno di “appartenenza” e “distinzione” sociale che proprio dal consumo culturale e artistico trae fondamentale linfa.

Torna a emergere così, seppur in termini inediti rispetto al passato, un senso del “sacro” nei beni culturali, che va in direzione della spiritualizzazione dell’esistenza e che è tale per settori sociali sempre più ampi, oggi “abilitati” al godimento della cultura da crescenti livelli di istruzione e competenza fruitiva.

In una prospettiva “neo-durkheimiana”, e con robuste risonanze in classici del pensiero sociologico quali Marcel Mauss, Max Weber e Vilfredo Pareto, si sottolinea come “l’esperienza del sacro dei Beni Culturali ovunque ci conforta nel varcare i confini del nostro involucro individuale” , identificando la loro valenza − profondamente sociale − di sistema di valori e di relazioni. Un’opportunità di trascendenza che, diversamente dall’aura di sacralità legata all’elitismo e alla separatezza dominanti nel passato, può scaturire oggi proprio dal continuo e auspicabile allargamento della base sociale della cultura. è l’ennesima riprova della chance − tanto più decisiva in tempi di recessione e crisi economica − di investire con convinzione sull’accesso, intervenendo sulle “barriere” di natura anche economica al consumo culturale.

Prospettive aperte

I beni culturali si offrono dunque all’osservazione come una risorsa relazionale e un “capitale sociale” ante litteram: veri e propri beni “di cittadinanza”, il cui consumo è di per sé fonte di nuovi valori sociali, coesivi, comunitari per gli attori contemporanei. Ciò in virtù di una funzione eminentemente espressiva e partecipativa della cultura, fortemente rilanciata nell’odierna società della conoscenza e della comunicazione.

Tuttavia, come sottolineano gli autori, non mancano profonde contraddizioni nell’oggi. Di fatto, la tensione sociale che anima il settore, da una parte, tende a essere spinta alle estreme conseguenze dai sempre più frequenti fenomeni ed eventi di massa, attraverso i quali si consuma una spettacolarizzazione spesso fine a se stessa della cultura e, di fatto, una valorizzazione troppe volte puramente economica del settore. D’altra parte, quella stessa tensione sociale è clamorosamente disattesa da politiche pubbliche che, nel sistema-paese, appaiono sempre meno orientate a investire sulla valorizzazione di arte e cultura e, più in generale, su nuovo e più avanzato modello di welfare socio-culturale.

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