Il laboratorio di visione dell’Università di Padova

Il Laboratorio della Divisione computazionale e Navigazione autonoma

di Silvia Andreoli

A entrarci, nel laboratorio della divisione computazionale e navigazione autonoma, dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Padova, si respira una sensazione di calma operosa. Come se davvero gli occhi, le menti e le mani degli studenti di dottorato che ci lavorano sotto la guida del professor Ruggero Frezza si muovessero in perfetta sincronia.

Qui si fa ricerca, quella ricerca italiana di cui troppo spesso si parla per compiangerla o decretarne l’assenza, una ricerca che invece è viva, entusiasta, piena di buone idee.

Il progetto iniziale, commissionato una decina di anni fa dall’Agenzia Spaziale Italiana, consisteva nell’ “insegnare” ai robot a vedere. Da allora molti altri ne sono seguiti, sostenuti da fondi universitari o con finanziamenti esterni. Vari, diversi, articolati, tutti mostrano l’eclettismo e la competenza dei tanti giovani appassionati che da tempo si avvicendano tra queste stanze.

La matrice comune dei progetti sviluppati è la stessa e rappresenta il cuore della ricerca di questo istituto: l’utilizzo delle metodologie proprie della teoria dei controlli e della teoria della stima. In altre parole ogni applicazione in studio ha come base la creazione di modelli probabilistici.

Lo scienziato dal profilo umano

Su questo il professor Frezza ha molto da dire. Lui, che si è laureato a Padova nel 1985 con menzione di migliore della facoltà di Ingegneria, non ha mai disatteso le promesse, lavorando prima con Arthur Krener all’University of California, Davis (Master of Science nel 1987, PhD nel 1990) e ritornando quindi a Padova, dove è professore associato dal 1992. Da oltreoceano ha portato con sé un grande senso di fattibilità della tecnologia, il solido pragmatismo di chi con le idee e le passioni ha un lungo rapporto d’amore. E sa guardare al futuro. Proprio quello di cui l’università ha bisogno. Un futuro, che come dice Frezza non ha però nulla di “futuristico”. E lo dichiara subito: è forte l’intento dell’Istituto di arrivare ad una maggiore diffusione a livello di imprese delle applicazioni derivanti dalla teoria dei controlli, piuttosto che non un’aspirazione ideale alle grandi rivoluzioni.

“Fin da quando sono tornato dagli Stati Uniti” spiega Frezza “soprattutto nei primi anni, ci siamo trovati a domandarci come mai non accadesse che gli studenti creassero piccole aziende qui intorno. Insomma come mai dal più grande dipartimento di ingegneria del Triveneto non si attivassero iniziative imprenditoriali dei laureati per mettere a frutto quello su cui avevano lavorato in maniera assolutamente soddisfacente e che sarebbe stato di grande aiuto all’imprenditoria media locale”. Così già nel 1995 nasce la prima spin off con l’obiettivo di realizzare un sistema di controllo per l’automazione di un parquettificio locale. “Entrando in un parquettificio” continua ” si ha una sensazione incredibile, perché ci sono file intere di selezionatrici – soprattutto donne perché pare che tengano l’attenzione per un tempo più lungo- che osservano le listarelle e devono classificarle. Un compito rapidissimo, circa un pezzo al secondo. Automatizzare questa fase significava prima di tutto capire quali erano i criteri per cui le operatrici classificavano le tavolette come appartenenti all’uno o all’altro dei gruppi. Questa è stata la parte più complessa del nostro lavoro. Si è trattato, infatti, di creare un modello matematico dei dati necessari a identificare le listarelle. Il numero delle informazioni racchiuse in un’immagine è spaventosa. Questo vale per ogni settore. Anche ciascuna tavoletta ha un contenuto informativo pazzesco che una macchina non può memorizzare senza una lentezza che la rende inutile. Bisogna semplificare, ossia l’approccio, – e questo vale per numerosissime altre applicazioni – è quello di comprimere le informazioni in alcune caratteristiche che raccolgano gli aspetti salienti del problema specifico che si deve risolvere. Nel caso raccontato l’attenzione si è concentrata sul colore, l’orientamento delle venature, lo spessore. Abbiamo quindi scelto un certo set di tavole di legno da cui abbiamo estratto queste caratteristiche. Le caratteristiche sono vettori di numeri, ossia filtrando l’immagine con opportuni meccanismi si ottiene un vettore di numeri per ciascuna delle tavolette prese in esame. Quindi nello spazio n dimensionale, dove n è la dimensione del vettore, si deve andare a valutare se questi numeri si distribuiscono in modo omogeneo generando dei cluster, classi appunto. Quando ciò avviene, significa che le informazioni scelte sono tali da consentire una segmentazione del mondo delle tavolette. La distinzione fatta dalla macchina viene a questo punto confrontata con quella umana. In termini tecnici si dice che si crea una matrice di confusione, che viene utilizzata per ridurre il rischio di errore inserendo, se necessario, aggiustamenti nel vettore costruito. Infine abbiamo montato telecamere sulla macchina che trasporta le listarelle perché procedesse alla selezione.

Simili operazioni sono state ideate anche per ricreare quella che, nelle aziende tessili, viene definita la ‘mano’. Chi fa confezioni di abiti quando sceglie le stoffe porta con sé un esperto che, al tocco, riesce a definire se una pezzatura è setosa, se è croccante persino. La ditta che ci aveva contattato voleva da noi un sistema che garantisse la produzione di un tessuto che avesse sempre la stessa ‘mano’ “. La mano, già, la mano umana, come i ‘nasi’ per il vino. E come fare dunque? Davvero possiamo avvicinarci a questo? “La mano di una stoffa non è valutabile in senso oggettivo” prosegue Frezza, “pertanto si ripresenta il problema come percezione delle classi omogenee, allo stesso modo che nel legno, anche se qui è il tatto l’organo di senso più coinvolto. Ma il nodo rimane quello di identificare quale sia l’informazione che viene utilizzata per risolvere la classificazione da parte di chi la fa in maniera istintiva. In questo caso abbiamo impostato la soluzione sui risultati di uno studio americano che dimostrava una buona correlazione tra l’attrito statico a diverse forze normali e la mano. In pratica si usano pesi diversi per creare diverse pressioni sul tessuto. Da queste misurazioni si ottiene il vettore delle caratteristiche e si opera quindi in maniera analoga all’altro esempio”. Ma le metodologie dei sistemi di controllo sono state impiegate dal laboratorio anche per la classificazione del fondo marino o per la identificazione del terreno, con ostacoli o senza ostacoli, da parte di un veicolo autonomo. Quello del movimento è un altro dei grandi temi qui approfonditi, e non solo il movimento meccanico ma anche quello umano con un’infinità di applicazioni possibili di riproduzione.

Classificazione, modelli matematici e teoria dei controlli

Pur mutando gli ambiti specifici l’approccio di base è il medesimo: un modello matematico, un algoritmo delle probabilità. “Non c’è nessuna intelligenza artificiale, nessun ragionamento evoluto da parte del calcolatore” avverte Frezza. “Il grosso del nostro lavoro è arrivare alla modellizzazione dell’informazione. In tutti i casi illustrati non era facile valutare quello che si stava costruendo. Un’immagine è creata da infiniti fattori: la posizione dell’osservatore, lo spettro di luce, la geometria della scena, tutti aspetti che l’occhio umano coglie e traduce ad una velocità istantanea. Ma mentre il materiale cui attingere per la classificazione sono le scelte umane, dobbiamo riuscire a creare un modello semplice ma completo che la macchina possa usare senza appesantimenti eccessivi. Faccio un esempio: la fotografia di un bambino in movimento contiene 4 megabytes, pari a 500 pagine di un libro, però è possibile restituire con ottima approssimazione la stessa idea con una costruzione diversa, grafica, per punti mobili, che di bytes ne occupa invece 128, ossia meno di una riga di testo. Questa è la vera scommessa: comprimere in poco spazio informazioni che comunque rendano la macchina in grado di svolgere efficientemente il suo compito”.

Parola d’ordine: semplificare

Sebbene si occupino dunque di analisi della visione, studio del movimento e soluzioni per la realtà virtuale, ossia riuscire a ricreare lo spazio tridimensionale, qui sembra che poca pregnanza abbiano filosofie o ideologie su cosa sia o non sia la macchina intelligente, il bambino elettronico di Alain Turing o il Golem di Meyrink. Qui mancare la corrispondenza significa sbagliare la stima. Un eccesso di complessità, nelle applicazioni, rischia di diventare sinonimo di inefficacia, inutilità. “Quando ci si confronta con le imprese su problemi reali, spesso ci si accorge che l’incrementazione tecnologica, pur essendo avanzata, si basa su principi molto semplici, altrimenti si perde robustezza” sottolinea Frezza. E fa piacere sentirselo dire, dopo un po’ troppo rumore sul futuro di una macchina che sarebbe destinata a sostituire l’uomo, nel 2030, dice qualcuno, nel 2050 qualcun altro. Profezie che rischiano di assordare, come spesso fanno i grandi proclami, la forza e l’intelligenza di cambiamenti più minuti, forse, ma che se diffusi capillarmente possono creare effetti anche grandiosi.

Per una ingegneria di ventura

A cominciare dalla prima spin off del 1995 – delle cinque nate sinora quattro sono vive e sane, con un buon numero di impiegati e fatturati ragguardevoli (Biovision 1996, BTS nel 2000, 3Ducational nel 2004 e VI-grade nel 2005)- il professor Frezza ha sempre dato il proprio appoggio attivo. Oggi il suo obiettivo è proprio di implementare questo tipo di iniziativa. D’accordo con un buon numero di imprenditori della zona, tra cui anche nomi molto conosciuti, sta lavorando ad un progetto volto ad agevolare l’incontro tra offerta e domanda, ossia tra le applicazioni dei sistemi ideate dagli studenti durante le tesi o nel dottorato e le aziende che da queste innovazioni possono ricavare un interesse. Frezza è molto chiaro: “Lo scopo è riuscire a far sì che molti dei risultati, metodologie e applicazioni di metodologie che facciamo qui, effettivamente trovino una continuazione, che non si arenino nei cassetti degli studenti”. In questa cornice si inserisce anche la Startcup, una competizione rivolta a chi ha un’idea e sappia svilupparne un business possibile. Partita quattro anni fa, oggi Startcup coinvolge una dozzina tra le più importanti Università italiane. Solo a Padova, nelle edizioni passate, sono stati presentati oltre 400 piani di business. “Ma quelli che si sono trasformati in imprese” precisa Frezza ” si contano sulle dita di una mano”. Perché? è la domanda che ritorna. Forse – ed è su questa strada che adesso Frezza si è mosso in maniera ancora più concreta – perché manca una vera comunicazione tra aziende e università ed è solo dalla sinergia tra imprenditori e gruppi di ricerca, invece, che si può sviluppare questo mondo. Un mondo che non mira all’invenzione di altissima tecnologia per cui sono richiesti investimenti alla portata solo di colossi multinazionali, ma invece abbordabili e utili per i bilanci e l’immagine delle aziende medie e piccole che costituiscono la forza e la ricchezza di molta economia italiana.

La forza della concretezza

Questa attenzione all’aspetto concreto è forse il lato più identificante del laboratorio. Un punto di grande forza, perché competenze anche elevatissime se ne trovano in molti centri di ricerca, ma rimane spesso la sensazione, soprattutto a chi non ne fa parte, di un mondo che rischia di chiudersi in se stesso, dove il rapporto tra uomo e macchina pare raggiungere le simmetrie di una sfida eroica. Creatore e creatura perdono progressivamente i confini propri per entrare in un universo da millenni di dominio della letteratura, dell’arte, delle religioni. A Padova, invece, si percepisce il senso pratico della scienza da cui subito, però, per un curioso gioco della mente, o delle emozioni umane – che, anche qui, dicono, siamo ben lontani dal potere mappare con un algoritmo – scaturisce l’entusiasmo. Un entusiasmo discreto, mai urlato, un entusiasmo ben tenuto in segreto sotto le lenti degli occhiali e l’aria timida di questi ragazzi che si vede proprio che non c’è altro posto dove vorrebbero stare. E come dargli torto se Frezza è riuscito davvero a portare tra queste stanze, un po’ di quell’atmosfera mitica da “american sylicon dream”, sottolineando la forza attiva della creatività umana che, per funzionare, non ha bisogno di troppo. Ma nemmeno di troppo poco.

Ecce homo

Però alla fine, ascoltando i progetti e gli obiettivi, viene da pensare che sì, anche nella costruzione dei modelli e delle soluzioni matematiche dei problemi tecnici, la grande, straordinaria, variabile rimane sempre l’uomo. Nemmeno chi si occupa di progetti di visione può andare indenne dal fascino della complessità di quest’universo di carne e anima. E mentre, con abilità straordinaria e tanta ingegnosità di idee, le macchine vengono dotate di occhi per tradurre in gesti ciò che l’uomo fa d’istinto, quello che emerge, con più passione e veemenza, è il desiderio di saperne un po’ di più su di noi. Sull’istinto, sullo sguardo, su quel movimento sinuoso di un corpo che attraversa la strada mentre l’occhio lì, proprio lì, si ferma e indugia, sedotto da una forma che per la macchina sarebbe ancora solo l’insieme di angoli e curve compresse in un sapiente algoritmo matematico.

Box: Dai sistemi di telecamere al veicolo autonomo

Attualmente la struttura del laboratorio del professor Frezza conta quattro dottorandi. Tra i progetti in studio è stato creato un sistema di telecamere per l’analisi del movimento, che potrà avere importanti applicazioni in clinica, ma anche, per esempio, negli effetti speciali cinematografici. Accanto, è possibile vedere una piattaforma costruita (per conto terzi e in uso in Germania) con una trasmettitore radio e vari processori cui sono stati collegati sensori di temperatura, che permette attraverso un algoritmo di localizzazione, di identificare se, per esempio, scoppia un incendio e dove. Un altro progetto, nato questa volta in collaborazioni con Ducati corse, si occupa di sensorizzare un modello ST4 della casa per studiare la dinamica del movimento della moto. Un’attenzione particolare viene riservata anche all’analisi e traduzione a sistema del movimento e della velocità dei veicoli per applicazioni di realtà virtuale. E’ inoltre in costruzione un super calcolatore.

Lo scorso anno, invece, gli studenti del corso di visione hanno creato un veicolo autonomo. Con fondi residui è stata acquistata un’automobile, poi sensorizzata, dotata di antenna Gps, 4 telecamere, un laser range find e 3 calcolatori a bordo. 45 ragazzi, in sei mesi, hanno fatto un lavoro eccezionale. La macchina si muove ora attraverso semplici joystic ma anche in modo autonomo attraverso la programmazione delle coordinate geografiche (sistema tuttora in via di perfezionamento).



http://www.biovision.it


http://www.bts.it


http://www.3ducational.com


http://www.vi-grade.com

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