Intervista a Luca Ravagnan: Consigli utili contro la fuga dei cervelli

Critiche sentite al sistema Paese ma anche grande fierezza di essere italiano.

di Matteo Ovi

Volendo parlare di quei giovani innovatori italiani che ce l’hanno fatta, che son riusciti a superare lo stadio iniziale di idea per arrivare a un prodotto, una startup o un’azienda, siamo tornati a parlare con Luca Ravagnan, uno dei vincitori del premio TR35, Young Innovators Under 35 (Edizione 2011).

Quell’anno, Ravagnan e soci avevano appena fondato la startup WISE con l’intenzione di produrre e commercializzare dispositivi elettronici e MEMS su supporti estensibili da destinare ad applicazioni nel campo della biomedicina, della biotecnologia e della sensoristica.

Osservando la lista di premi e riconoscimenti conseguiti da allora sorgerebbe spontaneo immaginare che il progetto si sia rivelato tanto buono, e la realizzazione da parte dei suoi ideatori tanto efficace da garantire alla startup una facile ascesa. Interpellando lo stesso Ravagnan, scopriamo però che non è stato così.

“Ripensando al nostro percorso non posso che raccontare una esperienza di forte fatica. Il sistema Paese ci ha consentito di partecipare ad alcune iniziative positive, ma nella sostanza abbiamo incontrato più difficoltà che agevolazioni”.

Ravagnan racconta quindi la difficoltà che i giovani innovatori e imprenditori devono affrontare se ambiscono ad allevare la propria idea. “E’ stato essenziale per noi avviare una ‘campagna promozionale’ all’esterno dei confini nazionali”, dice.

“Il primo round di investimento di “venture capital” – per 1 milione di euro – sta finalmente giungendo al termine, ma chi ci ha aiutati maggiormente è stato un fondo tedesco nato e studiato per supportare aziende tedesche. WISE è stata a prima startup non tedesca ad essersi aggiudicata il loro supporto, e stiamo parlando di un fondo che ha aiutato più di 180 aziende prima di noi”. Sconcertante quindi apprendere come il migliore alleato di un’azienda italiana si sia rivelato essere un sistema che di italiano non ha nulla e che è stato fortuitamente incontrato nel corso di un Investors Meeting.

“Il fondo Agite! S.p.A. era stato il primo a credere nella nostra idea e a darci la spinta iniziale con 80.000 euro e supporto imprenditoriale”, precisa Ravagnan, “ma è stato solo dopo l’interessamento al di fuori dei confini italiani che altri fondi di investimento nostrani hanno cominciato a comportarsi meglio”.

Da una certa soddisfazione essere ricordati come i primi ad aver conferito un riconoscimento alla validità e all’innovazione del progetto. “Dopo il premio TR35 abbiamo ricevuto tanti altri riconoscimenti, tra cui il premio di 300.000 euro del Nanochallenge, tenutosi quello stesso anno”, racconta Ravagnan, che non nasconde però la sua perplessità sul valore dei premi odierni. “In tanti ora vogliono darci le pacche sulle spalle e congratularsi con noi, ma questo non ci aiuta tanto ad andare avanti”.

Ed è a questo punto che Ravagnan descrive le due amare lezioni apprese dalla fondazione di WISE: “Anzitutto, se dovessi tornare a creare un’azienda del genere, non la farei mai in Italia. E’ sufficiente spostarsi in Svizzera per trovare porte più aperte che in Italia. La seconda lezione, che può valere come consiglio per tutti coloro che volessero promuovere un’idea o la propria startup, è quella di lavorare molto su business plan e comunicazione, recandosi a investor meeting internazionali”.

Stando a Ravagnan, occorre più che mai uscire dai confini per apprendere come gira il resto del mondo, cosi da poter distinguere i propri punti forza e gli aspetti che necessitano di miglioramento. “Esplorando opportunità anche all’estero, senza necessariamente uscire dai confini europei, si può entrare a contatto con numerosi investitori con i quali andare avanti”.

Parlando dello stato attuale di WISE, apprendiamo da Ravagnan che è in corso la preparazione dei primi dispositivi per dimostrare la capacità produttiva dell’azienda in vista di un futuro incremento nella domanda. “Nell’arco dei prossimi mesi potrebbe essere siglato un contratto di sviluppo con una o più multinazionali del settore per portare avanti assieme lo sviluppo dei prodotti, la finalizzazione degli elettrodi e per avviare la fase che, per i prossimi tre anni, ci vedrà impegnata nei trial clinici, partendo dalla sperimentazione su cavie per poi arrivare all’uomo e alla marcatura CE”.

Chiedendogli quali suggerimenti avrebbe da dare alle future generazioni di giovani innovatori, Ravagnan ci risponde che “occorre chiedersi cosa si intende fare nella propria vita, i ricercatori o gli imprenditori, e fare cosi una scelta di campo”. “Occorre avere coraggio, perché chi parte da una spin-off universitaria si trova, a un certo punto, a dover adottare una mentalità differente da quella utilizzata nel mondo della ricerca, passando dall’amore per l’ “eleganza” scientifica al pragmatismo un po’ rude del mondo dell’imprenditoria. Occorre essere molto auto critici e saper guardare se’ stessi e il proprio progetto con occhio razionale e obiettivo, parlare molto con le persone e ricevere feedback per capire se l’idea di business dietro la propria innovazione è fattibile. Bisogna esser pronti a ricevere anche risposte non entusiastiche e farne tesoro. A un certo punto le obiezioni finiranno”.

Come chiave di chiusura, Ravagnan ci spiega come, nonostante gli aspetti normativi debilitanti, i tagli e i blocchi alle spese, addirittura i grant concessi ma non pagati, l’Italia gode di qualità difficili da trovare altrove. “Nel mio caso, le persone che hanno composto il team sono state fondamentali. Il nostro è un team impagabile di cinque italiani, dotati di una capacità positiva di arrangiarsi e di fare con pochi mezzi ciò che altri non avrebbero saputo fare. Poi, in fondo, la formazione in Italia è buona e il prezzo del lavoro un po’ più basso che all’estero”.

La nota più rincuorante da parte sua è però quella che ci lascia riguardo i cervelli in fuga: “Certo, è dura, ma nonostante tutto sono contrario alla fuga dei cervelli. Ce la si può fare anche restando vicino a casa, senza lasciare che il nostro talento finisca dall’altra parte del mondo”.

(MO)

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