La carbon tax di frontiera è ingiusta

È ipocrita da parte dei paesi più avanzati penalizzare quelli in via di sviluppo per le emissioni di carbonio, investendo allo stesso tempo nell’estrazione di combustibili fossili.

di Arvind P. Ravikumar

Il piano di ripresa economica dell’Unione europea si distingue per la sua attenzione per il clima, gli investimenti sostenibili e un equo fondo di transizione. Nell’ambito di questo accordo, l’UE propone anche, entro il 2023, un adeguamento delle frontiere del carbonio, noto anche come imposta sul carbonio alle frontiere, sulle importazioni. In parole povere, questa reviisione implica un’imposta sulle merci importate come acciaio o cemento, dove l’importo dell’imposta dipende dalle emissioni di carbonio associate alla produzione di tali beni.

L’argomento a favore è che gli adeguamenti alle frontiere del carbonio spingeranno i paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni e a livellare il campo di gioco per le imprese locali che sviluppano prodotti a basse emissioni di carbonio. Non si tratta di un’idea solo europea. Diverse organizzazioni statunitensi ed ex candidati presidenziali democratici, tra cui la senatrice Elizabeth Warren, hanno proposto la stessa iniziativa come mezzo per consentire agli Stati Uniti di condurre un’azione internazionale sul clima.

Sebbene ragionevoli a prima vista, le modifiche unilaterali alle frontiere del carbonio rappresentano semplicemente l’ultima forma di imperialismo economico e sono antitetiche ai principi di equità sanciti dall’accordo di Parigi. L’articolo 2 stabilisce chiaramente che l’accordo “sarà attuato per rispondere a un principio di equità e di responsabilità comuni, ma differenziate”. Senza il consenso di paesi come l’India e la Cina, gli adeguamenti delle frontiere del carbonio rischiano di diventare un regime sanzionatorio basato sul clima.

Un breve excursus storico può essere utile. Che la Cina, l’India e altri paesi in via di sviluppo facciano affidamento sui combustibili fossili per alimentare le loro economie non è un incidente di percorso. Questi modelli di crescita sono una conseguenza del predominio globale post-guerra mondiale da parte dell’Occidente in ambito economico, politico e finanziario.

Fino a poco tempo fa, organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale hanno fornito finanziamenti per espandere le infrastrutture dei combustibili fossili, comprese le centrali elettriche a carbone, nei paesi in via di sviluppo. In quelle nazioni, ancora oggi, le industrie estrattive come quelle minerariadel petrolio e del gas sono spesso in mano a multinazionali con sede in Occidente, con il sostegno attivo dei governi occidentali. Questi investimenti legano questi paesi a politiche di sviluppo ad alta intensità di emissioni per i decenni a venire.

Promuovere attivamente tale sviluppo di combustibili fossili in queste nazioni e punire gli stessi paesi per le emissioni attraverso adeguamenti alle frontiere del carbonio è, nella migliore delle ipotesi, una forma di ipocrisia. Ma è anche ingiusto. Dopotutto, le forze che hanno spinto per la globalizzazione sono quelle che hanno indotto il mondo sviluppato a spostare la produzione ed esternalizzare i suoi oneri di inquinamento associati in Cina e in altri paesi in via di sviluppo.

La decisione di imporre tali tasse ai paesi in via di sviluppo riflette la pratica coloniale del trasferimento di ricchezza dal mondo in via di sviluppo a quello sviluppato. Senza la dovuta considerazione dei danni storici, gli aggiustamenti alle frontiere del carbonio perpetuano un ciclo in cui il mondo in via di sviluppo soffre per le azioni di quello sviluppato.

Negli Stati Uniti, che sta per ritirarsi dall’accordo di Parigi, le politiche commerciali protezionistiche come la carbon tax di frontiera trovano spesso l’appoggio bipartisan. Ma gli stessi politici che riconoscono l’iniquità di imporre tasse sul carbonio agli americani a basso reddito non riescono a vedere l’ingiustizia di penalizzare i paesi in via di sviluppo per le loro emissioni.

Per esempio, nel 2016, gli Stati Uniti hanno vinto un caso presso l’Organizzazione mondiale del commercio contro l’uso da parte dell’India di una regola che imponeva agli sviluppatori di progetti solari di acquistare apparecchiature da produttori nazionali. Gli Stati Uniti hanno sostenuto che le regole dell’India erano protezionistiche e discriminatorie. È difficile mettere in discussione alcune politiche protezionistiche promuovendone altre.

Cosa significa un’equa politica climatica? Se l’obiettivo è davvero quello di ridurre le emissioni globali di carbonio, la politica climatica dovrebbe concentrarsi sull’offrire un rinforzo positivo e costruire capacità nei paesi in via di sviluppo invece di imporre misure punitive come la carbon tax di frontiera.

Il principio fondamentale per un’efficace azione globale sui cambiamenti climatici deve essere il trasferimento di ricchezza. Il Green Climate Fund, istituito nell’ambito dei negoziati di Parigi, è un buon inizio, ma non è sufficiente, né i finanziamenti previsti sono adeguati. Un altro passo importante è apportare modifiche strutturali alle istituzioni economiche e commerciali. 

Le riforme delle norme dell’OMC dovrebbero consentire ai paesi in via di sviluppo di far crescere internamente un settore manifatturiero green senza ostacoli da parte dell’OMC. I paesi sviluppati e le istituzioni finanziarie globali dovrebbero estendere l’accesso al finanziamento a basso interesse, nonché al trasferimento di tecnologia e ai programmi commerciali e di scambi bilaterali che aiutano a sviluppare capacità di interventi a favore del clima e adattamento nelle economie in via di sviluppo.

Nessun paese può risolvere da solo il problema del cambiamento climatico. La cooperazione è essenziale. Ma affinché queste collaborazioni abbiano successo, leader e politici devono dare la priorità alle esigenze dei paesi meno sviluppati, che sopporteranno in modo sproporzionato gli impatti dei cambiamenti climatici.

L’accordo di Parigi ha avuto successo perché ha resi i paesi in via di sviluppo veri partner nella lotta contro i cambiamenti climatici, e non semplici osservatori. Il mondo può vincere questa sfida solo con una profonda comprensione di ciò che significa condividere equamente l’onere. Senza un tale approccio alla politica climatica, il mondo rischia di cadere preda dell’isolazionismo e del populismo nazionalista che alla fine ci metteranno tutti più a rischio.

Arvind Ravikumar dirige il laboratorio di sviluppo dell’energia sostenibile presso l’University of Science and Technology di Harrisburg, in Pennsylvania. 

Foto: Veeterzy / Unsplash

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