La formazione globale e permanente

Capitale umano e società della conoscenza: una sfida per la competitività nelle valutazioni di studiosi, esperti e operatori.

di Massimiliano Cannata 

Fino a che punto sarà possibile declinare i nuovi paradigmi della formazione, traducendoli in un’ottica di efficienza utile alle imprese che si muovono in uno scenario ipercompetitivo e senza confini?

Non è facile rispondere a un interrogativo che impegna i migliori cervelli, rimbalzando sui testi più avvertiti della scienza economica e manageriale oltre che in svariati convegni, alle latitudini più disparate. Per non andare tanto lontano basta risalire a un recente appuntamento organizzato da Confindustria, che ha coinvolto i massimi livelli della comunità internazionale e che ha posto l’accento sulla Partita del capitale umano nell’era delle idee. Il tema assume un’importanza di primo piano nell’economia dei network che mettono in connessione fra di loro esperienze, storie e intelligenze. Formare nuove risorse qualificate da inserire nel circuito lavorativo, individuare degli indicatori per misurare la spinta che l’intellectual capital è in grado di esercitare al fine di garantire un miglioramento delle performance e delle organizzazioni produttive, sono obiettivi indifferibili per qualunque paese che voglia definirsi dinamico e al passo con i tempi. “Siamo nella società della conoscenza, nuove logiche produttive si stanno facendo strada nelle nostre aziende – spiega Luigi Mastrobuono, vice direttore generale di Confindustria – tecnologia e rete sono parole che i nostri imprenditori hanno saputo capire e declinare, come dimostra il saldo positivo della bilancia tecnologica, l’aumentato valore dell’export che ha segnato un più 12 per cento nell’ultimo anno, dato poco presente sui media, cui si è accompagnato il progressivo passaggio dal materiale all’immateriale. Il lavoratore di domani avrà un profilo interculturale, assumerà la differenza come valore, dovrà dimostrare, crollati i vecchi sistemi di tutela, di saper pensare più a se stesso. Il passaggio generazionale che stiamo vivendo si sta sempre più traducendo in un passaggio di visione e di competenze, in una parola in un salto di cultura”.

Una sfida ardua quella del capitale umano e della formazione, come dimostra ampiamente l’ultimo rapporto dell’ENEA, L’Italia nella competizione tecnologica internazionale, pubblicato da Franco Angeli, che vede l’Italia segnare ancora il passo. Oltre alle “tigri” dell’Est, Cina e India, ci precedono di gran lunga molti paesi occidentali. “Un forte investimento in ricerca, scientifica, sviluppo tecnologico e alta formazione potrebbe servire – affermano in Contro il declino, edizioni Il Codice, Pietro Greco e Settimo Termini -a rimuovere le cause del declino ed entrare nella società della conoscenza”. Se la ricetta appare ormai condivisa, da dove occorre cominciare? Acquisire conoscenza, accelerare il cambiamento, padroneggiare le competenze: Kenneth Blanchard, guru riconosciuto della scienza manageriale, snocciola un trinomio in numerosi scritti che hanno fatto il giro del mondo. L’enunciazione è chiara, ma non basta a sanare lo scarto che esiste tra la letteratura e le azioni concrete, i metodi di apprendimento, le attività che bisogna mettere in campo per migliorare produttività ed efficienza.

“La catena del valore”, commenta Gianfranco Dioguardi, economista del Politecnico di Bari, esperto di organizzazione aziendale “dell’impresa rete si inserisce in un contesto aperto: fatto di relazioni, interazioni, confronti, contatti con altri mondi. Internet e le nuove tecnologie hanno una importanza cruciale nella definizione delle nuove strutture lavorative. Direi di più: il rapporto uomo-computer è una polarità talmente forte da comportare una progressiva revisione del vecchio sistema delle deleghe, tipico del fordismo e una revisione dei paradigmi formativi. Soprattutto nelle grandi realtà, penso a quelle aziende che hanno un rilevanza strategica, operando per il sistema paese nelle public utilities, nell’energia, nelle telecomunicazioni, dall’acqua alla comunicazione, il problema più grosso è quello di far emergere la centralità della risorsa individuale. Oggi emerge una responsabilità che impegna l’azienda verso il cliente, il quale svolge sempre più la funzione di vero e proprio committente, con tutte le responsabilità di ordine sociale ed etico che ne discendono”.

Non c’è dunque da meravigliarsi se nell’agenda dei formatori si stiano facendo strada termini quali: governance dell’innovazione, attenzione al bilancio sociale e agli impatti ambientali, dialogo con il territorio e con gli attori istituzionali”.”è la legge della complessità”, sostiene il sociologo Edgar Morin, “che significa consapevolezza e analisi del contesto entro cui i fatti si verificano. Vuol dire che l’imprenditore non può limitarsi a guardare dentro le realtà produttive, il suo interesse deve volgersi alla reti di connessione che legano gli eventi che succedono sotto i nostro occhi. Piuttosto che isolare la parte dal tutto dobbiamo porgere l’orecchio alle relazioni tra le parti, affrontando la complicazione inevitabile della storia, l’irruzione di una componente di incertezza irriducibile che corrode le nostre conoscenze acquisite, fino a sgretolare i miti della completezza, dell’onniscienza che hanno regolato il cammino della modernità”. Nell’ottica prospettata da Morin la conoscenza è una “cerniera mobile”, un margine di dialogo e non di separatezza, adatto a mettere in relazione ambiti disciplinari diversi, che vanno rafforzati esercitando competenze sempre più trasversali. Dare enfasi al contesto, reinterpretare continuamente le priorità, agendo su flussi informativi poco strutturati, richiede un timone che ci faccia orientare nei percorsi del mondo globale.

Il flaneur: figura originale di viaggiatore-formatore

Gian Luca Bocchi, tra i pionieri italiani della complessità, (risale al 1985 la prima edizione della celebre antologia, La sfida della complessità, pubblicata con Mauro Ceruti per Feltrinelli e divenuta presto un libro cult) non ha dubbi in proposito: “Il problema, non mi riferisco solo all’Italia, ma anche all’Europa, è che la formazione aziendale deve farsi carico di un doppio compito: da un lato di far prendere consapevolezza dell’importanza dell’individualità, aiutando la persona a modulare tutto ciò che è condiviso dall’organizzazione di cui fa parte in termini soggettivi e contestuali. Non possiamo trascurare di trasmettere dei contenuti che siano all’altezza della terza fase della globalizzazione. Formare individui integrati è il primo must, creare cioè soggetti che abbiamo il senso del presente e dell’epoca in cui vivono. Bisogna lavorare sui modelli cognitivi, sulle forma, ma anche sui contenuti, altrimenti diventa impossibile educarsi alla cultura planetaria, che non è un modello omologante, ma un fenomeno culturale ed economico integrato, sostenuto da tanti attori diversificati. Perché anche il corpo dei marines”, prosegue il filosofo, “si occupa di formazione e complessità? Perché i marines agiscono in tempo reale in situazioni pericolose, non possono attendere un ordine dall’alto, ma devono far propri modelli cognitivi che consentano loro di agire in condizioni di conoscenza incompleta e in situazioni in cui si deve avere una capacità di decisione autonoma. Le aziende non sono in guerra, ma l’innovazione e la competizione rendono ugualmente calzante la metafora. Il punto di sviluppo è rappresentato dal fatto che fino a oggi l’azienda richiedeva di adottare codici pubblici e collettivi e di mettere tra parentesi i codici privati individuali. Oggi abbiamo bisogno di un totale interscambio, la persona deve lavorare con la sua biografia, che è anche corpo e non solo cultura”. Ma Bocchi si spinge oltre, fino a riproporre, il viaggio, topos letterario per eccellenza, quale efficace strumento di formazione globale. “Viaggiare significa attraversare luoghi innovativi, significa compiere un rito di passaggio. Penso, per esempio, alla ritualità del viaggio di Marco Polo, attraverso cui l’individuo raggiunge un grado di maggiore maturità e di consapevolezza. Se costruiamo bene un itinerario e andiamo a visitare luoghi che ci interessano dal punto di vista specialistico, possiamo constatare che quelle realtà sono tali perché vi sono processi globali in atto, che non sarebbero comprensibili senza che ci fossero alle spalle processi culturali e storici a lungo raggio. Globale e locale, forma e contenuto si toccano nella dimensione del viaggio, aiutandoci a generare un modello cognitivo originale ed efficace”. Lo studioso ha in mente il flaneur, lo reinterpreta nelle vesti di formatore del futuro, riconducendosi al personaggio gentiluomo frutto dell’invenzione letteraria di Charles Baudelair, impegnato a vagare per le città, ma straordinariamente capace di tramutare ogni tappa in un’esperienza significativa di conoscenza, senza farsi schiacciare dalla predeterminazione di percorsi fissati apriori.

Legami deboli, “volano” dell’innovazione

Il capovolgimento fin qui delineato ha delle pesanti ricadute non solo sulle teorie economiche prevalenti, ma anche sui fondamenti epistemologici che sono alla base del sapere e della conoscenza. Produrre uno “scatto” in avanti potrà servire a liberare le organizzazioni dal “vecchio mobilio”, dai vecchi “sacrari”, su cui si fondava l’azienda castello e la fabbrica taylorista, stigmatizzate da James Hillman nel celebre saggio sul potere? Un interrogativo che è all’origine della riflessione di Pier Luigi Celli, almeno a giudicare dalle due pubblicazioni più recenti, Narrare la leadership (Luiss University Press) e Le virtù deboli (Apogeo). Titoli emblematici, che rendono impossibile accomunare questi scritti ai canonici manuali di management. Si tratta infatti di opere che rispecchiano un percorso di ricerca che molto ha a che fare con la filosofia, l’antropologia, l’etica. Anche in questo caso il focus del ragionamento è rappresentato dall’individuo, impegnato nella ricerca di un ruolo di protagonista in una storia aziendale che deve coinvolgerlo, a dispetto della cecità di capi spesso superficiali o semplicemente non all’altezza del compito, che ne mortificano aspirazioni e progetti. “Le organizzazioni”, argomenta il direttore generale della LUISS, “stanno tornando a essere delle macchine operative, non sono più degli organismi. Questo è grave, perché l’organismo ha un’anima, mentre la macchina ha solo dei processi”. Per invertire il trend bisogna ricorrere a delle virtù alternative, “deboli” le definisce Celli, perché non hanno nulla a che vedere con le virtù “cardinali”, fede, speranza, carità, che ci ha tramandato la tradizione cattolica. Rispetto, fiducia, lungimiranza, tolleranza, intesa come lo spazio entro cui ciascun individuo è disponibile a mettere in discussione se stesso e gli altri, un ambito in cui siamo disposti a riconoscere chi la pensa diversamente, in cui i limiti sono per una volta legittimati. I legami “deboli” sono quelli più potenti, perché non si spezzano, consentendo alle variabili di muoversi, senza sganciarsi, senza che si smarrisca la visione di insieme. Questi legami permettono di esplorare piani diversi, perché non si elidono a vicenda, ma fluttuano armonicamente. “La storia ci dice che queste virtù non hanno tradizionalmente avuto un corso forte nella strutturazione delle organizzazioni imprenditoriali, nella formazione delle competenze e delle relazioni interpersonali. Si tratta di un indice di miopia da parte del management, che ha per troppo tempo trascurato di rafforzare quegli ingredienti che rendono le persone più flessibili, educandole a pensare “lateralmente”.

Il nucleo centrale delle virtù deboli consiste nella pluralità dei punti di vista, che fanno evolvere il sistema, disancorandolo dall’incaglio della realtà quotidiana. Tale atteggiamento favorisce l’innovazione che si sostanzia del valore del pluralismo. L’innovazione è frutto di discontinuità e la discontinuità fa a pugni con la routine. Chi vuole cambiare libera energia all’interno dei luoghi di lavoro, secondo logiche non lineari, quindi non prevedibili. La standardizzazione chiude le porte alla sperimentazione, che può scattare solo quando tutta una serie di potenzialità, di forze, di saperi, emergono, consentendoci di affrontare il futuro”. L’analisi ci conduce oltre i recinti della “modernità”, tende a sfumare gli steccati delle ideologie, allentando il mito della “fabbrica” di Chaplin, mettendo a nudo le opacità e i limiti dei santuari del mercato che si globalizza, assorbito dall’unica schiacciante dimensione della borsa, che si arrovella sul destino delle azioni, sull’andamento dei bilanci, sulla chiusura di trimestrali di cassa sempre incombenti.

Nel nuovo mercato delle competenze in relazione ad assetti organizzativi aperti, decisivo potrà risultare il lavoro in partnership, sviluppato in quei territori di confine, efficacemente descritti da Morin. “Occorre una grande capacità di visione”, è l’analisi di Maria Cristina Rocchi, senior specialist di KPMG Advisory, colosso multinazionale della consulenza, “che vuol dire aiutare concretamente le persone a realizzare il loro potenziale, senza rinunciare al sogno, che le ha portate a intraprendere un percorso di carriera. Le strategie che riguardano le risorse umane devono allinearsi ai valori e agli obiettivi dell’azienda, e questo è possibile con una gestione oculata e lungimirante dell’esistente e sopratutto attraverso la messa in campo di efficaci sistemi di valutazione e di feed-back. Equità e trasparenza fanno il resto, in quanto valori che hanno un impatto sul grado di motivazione dei singoli attori dell’organizzazione”.

La Rete: “turbo” del capitale relazionale

Internet è un ambiente neutro o esercita un influsso sui processi della formazione globale? C’è una commensurabilità tra la rete, che è il nuovo tessuto connettivo delle organizzazioni, e il capitale umano ?

Roberto Panzarani, docente di psicologia delle organizzazioni presso l’Università dell’Aquila, ha affrontato l’argomento nel corso di un’intensa attività di formazione che ha coinvolto e continua coinvolgere, oltre al MIT di Boston, intellettuali, ricercatori e manager di tutto il mondo. “Gli strumenti della Società dell’Informazione accelerano i processi cognitivi, ampliano la necessità di continuo confronto e aggiornamento, fino a incidere sulle metodologie della formazione e della ricerca. Cambia così il nostro rapporto con la conoscenza, la rete, in particolare, diviene un “turbo” del capitale relazionale, andando a comporre, assieme al capitale umano e organizzativo, le tre dimensioni dell’intangibile. Da questo trinomio dipende il vantaggio competitivo e quindi il successo delle imprese più innovative. Le tecniche della comunicazione digitale consentono la messa in comune delle intelligenze, permettendo di creare una sorta di koiné fondata su saperi, conoscenze ed esperienze diverse. L’intensità di questo network è l’unità di misura che può far comprendere la solidità del circuito conoscitivo. L’individuo – prosegue Panzarani – può sviluppare capacità di conoscenza, a condizione che sappia attribuire valore alle connessioni che si instaurano a più livelli. Ci accorgiamo, allora, che l’economica si intreccia fatalmente con i paradigmi della biologia, non è più la scienza dell’equilibrio, divenendo il campo di pertinenza dei processi di feed-back positivi, che si relazionano alle dimensioni convergenti della blur economy: la velocità, l’immaterialità, l’interconnessione.

L’affermarsi del paradigma digitale non genera fortunatamente solo un senso di disorientamento. Parallelamente sta crescendo il desiderio di ciascuno di capire più a fondo le leggi del mondo che ci circonda. Se pensiamo che non è tanto l’economia delle reti ad avere cambiato le carte in tavola – esisteva infatti anche un secolo fa – quanto le implicazioni economiche di Internet che, avendo una portata veramente rivoluzionaria, stanno obbligando ad aggiornare e a rivedere registri, tempi e linguaggi della formazione e della comunicazione scientifica, ci rendiamo conto che gli esiti di questa profonda rivoluzione, che scuote la società e il lavoro, sono ancora tutti da scrivere.

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