La lunga marcia della Cina

Generazioni di intellettuali cinesi hanno fatto riferimento alla scienza e alla tecnologia occidentali per ricostruire un senso forte di identità nazionale. Ora che è scoppiata una nuova era di rivalità tra Stati Uniti e Cina, si impone loro una scelta difficile.

di Yangyang Cheng

Un giorno di fine marzo, il “Quotidiano del Popolo” , il giornale ufficiale del Partito comunista cinese, ha condiviso un paio di foto sui social media cinesi. La prima, in bianco e nero, riguarda la firma del Protocollo dei Boxer, un trattato del 1901 tra l’impero Qing, che all’epoca governava la Cina, e 11 nazioni straniere. Truppe di otto paesi, compresi gli Stati Uniti, avevano occupato Pechino in seguito agli assedi alle loro ambasciate da parte di una milizia contadina conosciuta come i Boxer. 

Tra una lunga serie di concessioni, il governo Qing accettò di pagare alle otto potenze occupanti un’indennità di 450 milioni di tael d’argento (circa 10 miliardi di dollari attuali), quasi il doppio delle sue entrate annuali. Il Protocollo Boxer è impresso nella coscienza cinese come un marchio di debolezza. 

La seconda immagine, a colori vivaci, era del giorno precedente, ripresa durante un aspro vertice tenutosi in Alaska tra alti funzionari cinesi e americani. È stato il primo incontro ad alto livello tra i due governi durante l’amministrazione Biden. I funzionari hanno criticato i rispettivi governi per le violazioni dei diritti umani e la belligeranza sulla scena internazionale. 

Alla fine della sessione di apertura, Yang Jiechi, direttore degli affari esteri del Partito comunista cinese, ha rimproverato i suoi omologhi americani: “Noi cinesi non abbiamo sofferto abbastanza a lungo per le prepotenze straniere? Non siamo stati imprigionati da nazioni straniere e non ci è stato impedito di progredire abbastanza a lungo?”

Il post del “Quotidiano del Popolo” ha citato un’altra affermazione di Yang: “Voi, gli Stati Uniti, non avete le carte in regola per parlare alla Cina da una posizione di forza”. Questa frase ha colpito un nervo scoperto. Il post è stato condiviso quasi 2 milioni di volte e le parole di Yang si sono diffuse su magliette, adesivi e cover pe cellulari venduti in Cina. Molti nel paese, hanno assaporato il dolce sapore della vendetta. La Cina è finalmente abbastanza forte da fronteggiare la nazione più potente della terra e chiedere di essere trattata come un suo pari. 

Dalla fine dell’ impero cinese all’attuale Repubblica Popolare, generazioni di politici e intellettuali hanno cercato modi per costruire una Cina forte. Alcuni hanno importato strumenti e idee dall’Occidente. Altri hanno lasciato la Cina in cerca di una migliore istruzione, ma la patria continuava a rimanere un punto di riferimento. Intere generazioni hanno meditato sui rapporti tra Oriente e Occidente, tradizione e modernità, fedeltà nazionale e ideali cosmopoliti. I loro successi e rimpianti hanno plasmato il percorso dello sviluppo della Cina e tracciato i contorni dell’identità cinese. 

Io sono un prodotto della loro complessa eredità. Sono cresciuta a Hefei, una città di medie dimensioni nella Cina centro-orientale. L’Hefei della mia infanzia era un luogo umile, noto per antichi campi di battaglia, snack al sesamo e alcune buone università. Ho trascorso i primi 19 anni della mia vita lì e sono partita nel 2009 per perseguire il mio dottorato di ricerca in fisica negli Stati Uniti, dove ora vivo e lavoro. 

Guardare l’ascesa del mio paese natale mi evoca sentimenti contrastanti. Sono contenta che la maggior parte dei cinesi goda di un tenore di vita più elevato, ma sono allo stesso tempo allarmata dal nuovo status di superpotenza della Cina. La crescita economica e i progressi tecnologici non hanno portato a più libertà politiche o a una società più tollerante. Il governo cinese è diventato più autoritario e il suo popolo più nazionalista. Oggi, il mondo è ancora più diviso.

Hefei è ora una metropoli in erba con nuovi centri di ricerca, impianti di produzione e startup tecnologiche. Per due dei figli più orgogliosi della città, nati a un secolo di distanza, una patria forte armata di scienza e tecnologia era l’aspirazione di una vita. Uno di questi uomini era lo statista più venerato della dinastia Qing. L’altro è uno dei primi due premi Nobel cinesi. Il Protocollo dei Boxer ha segnato la fine di una carriera e ha gettato le basi per l’altra. Sono cresciuta con i loro nomi e sono tornata alle loro storie, che mi ricordano come le vite possano essere schiacciate dalle pressioni della geopolitica e quali siano i rischi dell’uso della scienza per il potere statale.

Uno sguardo al passato

Nel 1823, Li Hongzhang nacque in una famiglia benestante a Hefei, allora un piccolo capoluogo di provincia circondato da terreni agricoli. Come suo padre e suo fratello prima di lui, Li eccelleva negli esami imperiali, il secolare sistema cinese per la selezione dei funzionari. Si distinse nella repressione delle ribellioni contadine e salì rapidamente di grado alla corte imperiale fino a diventare il più alto governatore dell’impero Qing, il suo ministro del commercio e de facto il suo ministro degli esteri. 

Dopo che la Cina perse contro le forze britanniche e francesi nelle guerre dell’oppio, Li e i suoi alleati lanciarono una vasta gamma di riforme. Lo chiamavano il Movimento per gli affari occidentali, noto anche come “auto-rafforzamento”. La strategia è stata riassunta al meglio dallo studioso Wei Yuan in un libro del 1844, Illustrated Treatise on the Maritime Kingdoms: “Apprendi le tecnologie avanzate dai barbari per tenerli a bada”.

Per i letterati cinesi, il mondo era diviso tra hua, la patria della gloria civilizzata, e yi, i luoghi in cui dimoravano i barbari. Le cannoniere britanniche sulla sponda meridionale avevano scosso, ma non infranto, questa credenza secolare. I fautori dell’auto-rafforzamento ritenevano che la tradizione cinese fosse la base su cui innestare la tecnologia occidentale per l’uso pratico. Come ha sostenuto lo storico Philip Kuhn, tale logica implicava anche che la tecnologia fosse culturalmente neutrale e potesse essere isolata dai sistemi politici.

Studioso di formazione classica e generale collaudato in battaglia, Li portò avanti imprese civili e militari. Chiese all’imperatore di costruire la prima ferrovia cinese e fondò la prima compagnia di navi a vapore di proprietà privata del paese. Stanziò anche generosi finanziamenti governativi per la flotta Beiyang, la prima marina moderna cinese. Nel 1865, Li coordinò la creazione dell’Arsenale di Jiangnan, la più grande fabbrica di armi dell’Asia orientale dell’epoca. Oltre a produrre macchinari avanzati per la guerra, l’arsenale comprendeva anche una scuola e un ufficio per la traduzione di decine di libri di testo occidentali di scienza, ingegneria e matematica.

Li supervisionò il primo programma di istruzione all’estero della Cina, grazie al quale un gruppo di ragazzi cinesi di età compresa tra 10 e 16 anni venne mandato a San Francisco nell’estate del 1872. Dopo un inizio promettente, la missione venne ostacolata dal razzismo anti-cinese negli Stati Uniti e dall’ostruzionismo conservatore a casa. Alcuni studenti, al ritorno in Cina, furono trattenuti e interrogati dalle autorità circa la loro lealtà. Dopo nove anni turbolenti, il programma fu chiuso nel 1881 alla vigilia del Chinese Exclusion Act

Il “Quotidiano del Popolo” ha accostato una fotografia della firma del Protocollo dei Boxer a una del summit in Alaska. Il post è stato condiviso quasi 2 milioni di volte.

Nel frattempo, il vicino Giappone aveva adottato non solo la tecnologia occidentale, ma anche i suoi metodi di governo, trasformando una società feudale in un moderno stato industriale con un esercito formidabile. Per secoli, l’élite cinese aveva disprezzato il Giappone, liquidandolo come uno stato piccolo e inferiore. Quando i due paesi entrarono in guerra nel 1894, apparentemente per la questione della Corea, il vero premio fu lo status di preminente potenza asiatica. Il Giappone vinse decisamente. Fu sei anni dopo questa devastante perdita che Li firmò il Protocollo dei Boxer per conto del governo Qing. Morì due mesi dopo.

All’inizio del XX secolo, l’impero cinese aveva perso la sua legittimità. Ribellioni armate stavano esplodendo in tutto il paese. Il regime Qing fu rovesciato nel 1911 e nacque la Repubblica di Cina. Gli intellettuali progressisti vedevano la tradizione cinese come “marcia e decaduta”, e credevano che la salvezza nazionale richiedesse di abbracciare le idee occidentali. Le poche voci dissenzienti furono messe da parte. 

Il percorso della Cina verso l’occidentalizzazione iniziò a essere incoraggiato dagli Stati Uniti. Sperando di migliorare le relazioni tra i due paesi, il governo statunitense decise di restituire quasi la metà della parte americana dell’indennità che la Cina aveva accettato di pagare nel Protocollo dei Boxer. Come stabilito dagli americani, parte della rimessa finanziò un programma noto come Boxer Indemnity Scholarships, che garantì agli studenti cinesi una delle poche possibilità di studiare negli Stati Uniti.

Una parte dei soldi venne destinata alla Tsinghua University, la principale istituzione tecnologica cinese. Li Hongzhang non avrebbe potuto immaginare che dopo la sua morte, la geopolitica avrebbe contribuito a realizzare il suo sogno di una vita: portare la scienza e l’istruzione occidentali in Cina. Tsinghua ha preso il suo motto dall’antico testo dell’I Ching, il Libro dei Mutamenti: “Il lavoro di auto-rafforzamento è incessante. I virtuosi fanno avanzare il mondo con il loro impegno”. 

Il dopoguerra

Nel 1945, un giovane di nome Chen Ning Yang si laureò a Tsinghua e arrivò all’Università di Chicago per il suo dottorato di ricerca con il Boxer Indemnity Scholarship Program. Ispirato dall’autobiografia di Benjamin Franklin, che aveva letto da bambino, l’aspirante fisico di Hefei si diede il nome inglese Frank. 

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, nazionalisti e comunisti continuarono a combattere in Cina. Yang e il suo piccolo gruppo di studenti cinesi all’estero dovettero affrontare un dilemma pressante: rimanere in Occidente, nonostante il razzismo e la paranoia anticomunista, e godere della stabilità sociale, del comfort materiale e delle opportunità di carriera? O tornare nella loro povera patria dopo la laurea e aiutarla nella fase di ricostruzione? 

In una lunga lettera a Yang nel 1947, il suo compagno di classe al college Huang Kun scrisse: “È difficile immaginare come gli intellettuali possano influenzare il destino di una nazione. Le menti indipendenti come noi, una volta tornati, verranno sicuramente schiacciate allo stesso modo del grano in un mulino… ma malgrado tutto credo ancora che  possiamo fare la differenza per il nostro paese”. 

Huang stava studiando in Inghilterra all’Università di Bristol. Tornò in Cina nel 1951, due anni dopo la vittoria comunista, e aprì la strada alla fisica dei semiconduttori nel paese. Deng Jiaxian, il migliore amico di Yang fin dall’adolescenza, salì a bordo di una nave nove giorni dopo aver ricevuto il dottorato dalla Purdue University. Diventò un leader nel nascente programma di armi nucleari della Cina. 

Alcuni scienziati cinesi d’oltremare, temendo il governo comunista, seguirono il governo nazionalista a Taiwan, tra cui l’ex mentore di Yang Wu Ta-You. Ma Yang scelse di rimanere negli Stati Uniti dopo aver conseguito il dottorato, trasferendosi nel 1949 all’Institute for Advanced Study di Princeton, nel New Jersey. Lì avrebbe trascorso buona parte dei due decenni successivi senza vedere nessuno dei suoi vecchi amici.

Nel 1957, Yang e Tsung-Dao Lee, un collega cinese laureato all’Università di Chicago, vinsero il Premio Nobel per aver scoperto che quando alcune particelle elementari decadono, lo fanno in un modo che distingue la sinistra dalla destra. Sono stati i primi vincitori cinesi. Parlando al banchetto del Nobel, Yang osservò che il premio era stato assegnato per la prima volta nel 1901, lo stesso anno del Protocollo dei Boxer. “Mentre sono qui oggi e vi parlo, sono del tutto consapevole del fatto che sono in più di un senso un prodotto sia della cultura cinese che di quella occidentale”, disse.

Yang divenne cittadino statunitense nel 1964 e si trasferì alla Stony Brook University di Long Island nel 1966 come direttore fondatore dell’Institute for Theoretical Physics, che in seguito prese il suo nome. Quando le relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina iniziarono a migliorare, Yang visitò la sua terra natale nel 1971, il suo primo viaggio in un quarto di secolo. Molto era cambiato. 

La salute del padre stava peggiorando. La Rivoluzione Culturale infuriava e sia la scienza occidentale che la tradizione cinese erano state considerate eresie. Molti degli ex colleghi di Yang, inclusi Huang e Deng, vennero perseguitati e costretti ai lavori forzati. Il premio Nobel, invece, fu accolto come un dignitario straniero. Incontrò i funzionari ai più alti livelli del governo cinese e sostenne l’importanza della ricerca di base. 

Negli anni che seguirono, Yang visitò regolarmente la Cina. All’inizio, i suoi viaggi attirarono l’attenzione dell’FBI, che considerava sospetti i rapporti con gli scienziati cinesi. Ma alla fine degli anni 1970, le ostilità erano diminuite. Mao Zedong era morto. La Rivoluzione Culturale era finita. Pechino stava adottando riforme e politiche di apertura. Gli studenti cinesi potevano andare all’estero per motivi di studio. 

Yang aiutò a raccogliere fondi per gli studiosi cinesi per venire negli Stati Uniti e per gli esperti internazionali per partecipare a conferenze in Cina, dove contribuì anche a creare nuovi centri di ricerca. Quando Deng Jiaxian morì nel 1986, Yang scrisse un elogio funebre per il suo amico, che aveva dedicato la sua vita alla difesa nucleare della Cina. Si concludeva con una canzone del 1906, una delle preferite di suo padre: “I figli della Cina, tengono in alto il cielo con una sola mano… Il cremisi non svanisce mai dal loro sangue versato nella sabbia”. 

Yang si ritirò da Stony Brook nel 1999 e tornò in Cina qualche anno dopo per insegnare fisica alle matricole a Tsinghua. Nel 2015 rinunciò alla cittadinanza statunitense e divenne cittadino della Repubblica Popolare Cinese. In un saggio che ricorda suo padre, Yang ha raccontato la sua precedente decisione di emigrare. Ha scritto: “So che fino ai suoi ultimi giorni, in un angolo del suo cuore, mio padre non mi ha mai perdonato per aver abbandonato la mia patria”. 

Li (al centro) nella foto con Lord Salisbury (a sinistra) e Lord Curzon (a destra) durante un viaggio in Inghilterra nel 1896.W. & D. Downey, Public Domain, via Wikimedia

La Cina richiama i suoi talenti

Nel 2007, a 85 anni, Yang si fermò nella nostra città natale in un giorno d’autunno e tenne una conferenza alla mia università. I miei coinquilini ed io aspettammo fuori dal locale con ore di anticipo, guadagnando posti preziosi nell’auditorium gremito. Salì sul palco tra applausi scroscianti e presentò in inglese il suo lavoro da premio Nobel. Ero un po’ perplessa per la sua scelta della lingua. Ascoltammo comunque con attenzione, grati di essere nella stessa sala del grande scienziato. 

Mi stavo preparando a fare domanda per una scuola di specializzazione negli Stati Uniti. Ero stata cresciuta con l’idea che per avere il meglio avrei dovuto lasciare la Cina. Due anni dopo aver ascoltato Yang di persona, anch’io mi iscrissi all’Università di Chicago. Conseguii il dottorato di ricerca nel 2015 e rimasi negli Stati Uniti per una ricerca post-dottorato. 

Mesi prima che dicessi addio alla mia patria, il governo centrale ha lanciato il suo programma di punta per il reclutamento all’estero, il Thousand Talents Plan, con il quale incoraggia scienziati e imprenditori tecnologici a trasferirsi in Cina con la promessa di generosi compensi personali e robusti finanziamenti per la ricerca. Nel decennio successivo, sono sorti decine di programmi simili. Alcuni, come Thousand Talents, sono sostenuti dal governo centrale, altri sono finanziati dai comuni locali.

La ricerca aggressiva di Pechino di talenti formati all’estero è un indicatore della nuova ricchezza e ambizione tecnologica del Paese. Sebbene la maggior parte di questi programmi non siano esclusivi per le persone di origine cinese, i materiali promozionali fanno regolarmente appello ai sentimenti di appartenenza nazionale, invitando la diaspora cinese a tornare a casa. I caratteri cinesi in grassetto rosso titolavano la pagina web di Thousand Talent: “La madrepatria ha bisogno di te. La madrepatria ti dà il benvenuto. La patria ripone in te la sua speranza». 

In questi giorni, però, il sito web non è accessibile. Dal 2020, le menzioni del piano di Thousand Talents sono in gran parte scomparse dall’internet cinese. Sebbene il programma continui, il suo nome è censurato sui motori di ricerca e vietato nei documenti ufficiali in Cina. Dagli ultimi anni dell’amministrazione Obama, il reclutamento all’estero del governo cinese è stato oggetto di un attento esame da parte delle forze dell’ordine statunitensi. 

Nel 2018, il Dipartimento di Giustizia ha avviato la China Initiative volta a combattere lo spionaggio economico, con particolare attenzione allo scambio accademico tra i due paesi. Il governo degli Stati Uniti ha anche imposto varie restrizioni agli studenti cinesi, accorciando i loro visti e negando l’accesso alle strutture in discipline ritenute “sensibili”.

Ci sono problemi reali di comportamento illecito nei programmi cinesi per i talenti. All’inizio di quest’anno, un chimico associato a Thousand Talents è stato condannato in Tennessee per aver sottratto segreti commerciali per rivestimenti di lattine per bevande senza BPA. Un ricercatore ospedaliero in Ohio si è dichiarato colpevole di furto dei progetti per l’isolamento degli esosomi utilizzati nella diagnosi medica. 

Yang (seduto, a sinistra) con altri vincitori del Premio Nobel (in senso orario da sinistra) Val Fitch, James Cronin, Samuel C.C. Ting e Isidor Isaac Rabi. Energy.gov, Public Domain, via Wikimedia

Alcuni scienziati con sede negli Stati Uniti non hanno rivelato entrate aggiuntive dalla Cina nelle proposte di sovvenzioni federali o nelle dichiarazioni dei redditi. Tutti questi sono casi di avidità o negligenza individuale. Eppure l’FBI li considera parte di una “minaccia cinese” che richiede una risposta “dell’intera società”. 

Secondo quanto riferito, l’amministrazione Biden sta valutando modifiche alla China Initiative, che molte associazioni scientifiche e gruppi per i diritti civili hanno criticato come “profilazione razziale”. Ma non sono stati fatti annunci ufficiali. Nuovi casi sono stati aperti sotto Biden; restano in vigore le restrizioni per gli studenti cinesi. Visti dalla Cina, le sanzioni, i procedimenti giudiziari e i controlli sulle esportazioni imposti dagli Stati Uniti sembrano una continuazione del “bullismo” straniero. 

Ciò che è cambiato negli ultimi 120 anni è lo status della Cina. Ora non è un impero in rovina, ma una superpotenza in ascesa. I politici di entrambi i paesi usano un linguaggio tecno-nazionalista simile per descrivere la scienza come strumento di grandezza nazionale e gli scienziati come risorse strategiche in geopolitica. Entrambi i governi stanno perseguendo l’uso militare di tecnologie come l’informatica quantistica e l’intelligenza artificiale. 

“Non cerchiamo il conflitto, ma accogliamo con favore la concorrenza anche aspra”, ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan al vertice in Alaska. Yang Jiechi ha risposto sostenendo che gli scontri passati tra i due paesi avevano solo danneggiato gli Stati Uniti, mentre la Cina ha continuato ad andare avanti.  Gran parte del pubblico cinese apprezza la prospettiva di competere con gli Stati Uniti. 

Si prenda a esempio un detto popolare di Mao: “Chi rimane indietro non avrà scampo!” L’espressione è nata da un discorso di Joseph Stalin, che ha sottolineato l’importanza dell’industrializzazione per l’Unione Sovietica. Per il pubblico cinese, in gran parte ignaro delle sue origini, evoca il recente passato, quando una Cina debole veniva saccheggiata dagli stranieri. 

Quando ero piccola, mia madre ripeteva spesso l’espressione a casa, distillando un secolo di umiliazione nazionale in una motivazione personale per l’eccellenza. È stato solo più tardi, in età adulta, che ho cominciato a mettere in discussione la logica sottostante: una competizione tra nazioni ha senso? Con quale metro e a quale scopo?

Dopo 11 anni di progettazione di rivelatori di particelle e di ricerca della materia oscura, ho lasciato la fisica alla fine del 2020 per lavorare su politica scientifica ed etica. È stata una decisione molto difficile e sto ancora facendo i conti con il senso di perdita associato al cambiamento. Ma ogni giorno che passa, le notizie dal mio paese natale e dalla mia casa adottiva mi ricordano perché ho fatto la scelta. I progressi nella scienza e nella tecnologia hanno creato ricchezza senza precedenti, nonché disuguaglianza e capacità di causare danni. Nella corsa febbrile per il potere e la supremazia, le preoccupazioni per l’etica e la sostenibilità sono soffocate da applausi sciovinisti. 

Mia madre ha cercato di convincermi a tornare in Cina. Mi racconta come Hefei sia diventata una città moderna. “Ha un nuovo sistema di metropolitana!”, dice al telefono. La sincerità nella sua voce mi spezza il cuore.  Il suo orgoglio per lo sviluppo del suo paese è genuino. Se c’è qualcosa che ama più della sua terra natale, però, è sua figlia. Mia madre vuole che torni non per alcuni alti ideali di patriottismo, sebbene ci creda, né per il mio avanzamento di carriera, sebbene il governo cinese abbia investito molto nelle scienze fondamentali. Mia madre vuole che torni perché ha paura. 

Mia madre teme che i confini tra Stati Uniti e Cina vengano chiusi di nuovo come durante la pandemia, chiusi da forze invisibili come un virus e ancora più mortali. Teme per la mia sicurezza in una terra straniera che per molti versi è sempre più ostile alla mia razza e nazionalità. Quello che mia madre non sa, o rifiuta di accettare, è che la patria non è sicura neanche per me. Uno stato può comandare la seconda economia più grande del mondo e un esercito forte, ed essere ancora troppo fragile per consentire il dissenso. A volte, la vita da cinese significa seguire la propria coscienza senza alcun rifugio in vista. 

Al tempio della famiglia di Li Hongzhang, alla periferia di Hefei, c’è un vecchio albero di yulan. Alto e profumato, lo yulan era il preferito dei reali. La leggenda narra che questo albero sia stato un regalo del primo ministro giapponese per il settantesimo compleanno di Li, che lo avrebbe piantato di persona. In meno di un anno i due paesi entrarono in guerra. L’albero è sopravvissuto sia agli uomini che agli imperi. Fiorisce ogni anno e ogni tanto dà frutti. È un testimone, e anche un maestro. Un giorno, quando potrò tornare in Cina e a Hefei, spero di visitare la vecchia residenza di Li.

Spero di essere lì in primavera, quando fiorirà lo yulan. I suoi fiori saranno del bianco più puro. I suoi petali saranno spessi e lisci. I suoi rami si solleveranno nel cielo. Quando il sole colpisce nel punto giusto, la sua ombra lascerà intravedere la forma della casa. 

Foto: Getty Images; Peabody Essex Museum via Wikimedia; Public Domain via Wikimedia; Alan Richards; Shelby White and Leon Levy Archives Center, Institute for Advanced Study Princeton, NJ, USA.

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