La mente inosservabile

Uno dei più autorevoli filosofi inglesi è scettico sul fatto che la neurobiologia possa dirci qualcosa sull’autocoscienza.

di Roger Scruton

La coscienza è lo stato a noi più familiare in assoluto perché ci permette di prendere confidenza con il mondo circostante. Ma questa condizione favorevole la rende allo stesso tempo difficile da identificare. Ovunque la si cerchi, ci appariranno dinanzi solo una sequela di situazioni e oggetti , un volto, un sogno, una memoria, un colore, un dolore, una melodia, un problema , e in nessun modo la coscienza che traspare da essi. Provare ad afferrarla è come tentare di osservare il nostro stesso atto di osservare, un po’ come afferrare il nostro sguardo con i nostri occhi senza far uso di uno specchio. Non sorprende quindi che le riflessioni sulla coscienza abbiano favorito lo sviluppo di peculiari inquietudini metafisiche, che cerchiamo di acquietare con le immagini dell’anima, della mente, del sé, dello «stato di coscienza», l’entità intima che pensa, vede e prova sensazioni e che costituisce il vero io interno. Ma queste «soluzioni» tradizionali non fanno altro che duplicare il problema. Non gettiamo alcuna luce sulla coscienza dell’essere umano rappresentandola semplicemente come la coscienza di qualche omuncolo interno, sia esso l’anima, la mente o il sé. All’opposto, collocare questo omuncolo in qualche regno privato, inaccessibile ed eventualmente immateriale non fa altro che rendere più fitto il mistero.

Se i termini della questione sono tali, il problema della coscienza, almeno in prima istanza, è di ordine filosofico e non scientifico. Non può essere risolto studiando i dati empirici, poiché la coscienza (nell’accezione normalmente condivisa) ne è esclusa. Si possono osservare i processi mentali, i neuroni, i gangli nervosi, le sinapsi e le altre componenti complesse del cervello, ma non si può osservare la coscienza. Posso osservare qualcuno che osserva, ma ciò che vedo non è la stessa conoscenza interiore di chi osserva e che è presente, per alcuni aspetti, solo a lui. Almeno così è all’apparenza; se si tratta di un errore, sarà un argomento filosofico e non scientifico a svelarlo.Il soggetto è in linea di principio inosservabile per la scienza, non perché esista in un altro mondo, ma perché non fa parte del mondo empirico. Il soggetto giace al confine delle cose, come l’orizzonte.Questa «invasione di campo» filosofica sembra fatta apposta per suscitare l’insofferenza degli scienziati. Non c’è alcun dubbio, essi argomentano, che se la coscienza è reale deve far parte del mondo concreto, il mondo spaziale e temporale che osserviamo con i nostri sensi e che spieghiamo con le conoscenze scientifiche. Ma in quale parte? Le descrizioni in prima persona degli stati coscienti sono radicalmente compromesse da danni cerebrali e il comportamento che ci fa definire gli altri come consapevoli ha origine nel sistema nervoso, le cui funzioni sembrano in gran parte controllate dal cervello. Il senso comune e il pensiero scientifico concordano pertanto nel ritenere il cervello la sede della coscienza. Quindi, spiegano gli scienziati, è sufficiente studiare il cervello e scoprire quale dei suoi processi è in corrispondenza con i nostri stati mentali di consapevolezza. In questo modo, essi concludono, capiremo cosa è la coscienza.

Ma è vero? Sfortunatamente il problema filosofico si ripresenta in forma diversa. Come si può stabilire una corrispondenza tra la coscienza e un processo cerebrale, visto che la coscienza non è qualcosa di osservabile? Supponiamo inoltre di poter superare questa difficoltà e di formulare una teoria che correli gli stati mentali coscienti a specifici eventi neurologici. Ciò significa che abbiamo scoperto che la coscienza esiste solo se possiamo fare un ulteriore passo avanti da questa corrispondenza a una comprensione della nostra identità. Molti filosofi dubitano che si possa arrivare così lontani. è vero che alcuni sostengono l’idea che gli stati coscienti siano identici ai processi mentali, ma lo fanno sul terreno filosofico e non scientifico. La loro visione inoltre è aperta a obiezioni radicali: per esempio, come può lo stato di una cosa (una persona) essere identico a un processo in un’altra (un cervello)?

Il neurobiologo Christof Koch, docente di biologia cognitiva e comportamentale al Caltech, si muove in questo territorio con qualche trepidazione, ma spera tuttavia di impadronirsene in nome della scienza. A suo parere il problema è di evitare di perdersi dietro le definizioni e i rompicapi concettuali e cercare invece di scoprire i «corrispondenti neuronali della coscienza». In ogni caso egli delimita subito l’obiettivo al «minimo insieme di eventi e meccanismi neuronali sufficienti congiuntamente a determinare una specifica percezione cosciente». In altre parole l’oggetto dello studio non è la coscienza in quanto tale, ma gli «specifici oggetti percepiti in modo cosciente», in particolare quelli coinvolti nella percezione visiva. L’ambizione di Koch è integrare l’analisi della visione nel programma più generale da lui sviluppato con lo scomparso Francis Crick, uno degli scopritori della struttura del DNA, che ha contribuito alla prefazione del libro. Il programma intende spiegare come evolve la coscienza e identificare i processi mentali che la sostengono. Il libro offre un resoconto esauriente di ciò che la neurobiologia sostiene sulle funzioni superiori del cervello. Non è sorprendente, quindi, che il testo sia ricco di rimandi e il linguaggio scrupolosamente scientifico, con numerose digressioni. Ma se accettiamo l’idea che la scienza sia corretta, cosa dobbiamo dire del titolo? Realmente la neurobiologia targata Crick e Kock ci porta più lontani nella «ricerca della coscienza»? O si tratta semplicemente di una ulteriore massa di informazioni sul cervello, che ancora una volta non spiegano la correlazione tra mente e cervello?

La prima persona singolare

Uno dei problemi che costantemente emerge nella posizione di Koch, senza mai essere risolto, è che gli stati mentali coscienti non appartengono a una singola categoria. Normalmente si presuppone che tutte le sensazioni sono coscienti (non esiste, per esempio, un mal di denti inconscio), che esistono pensieri consci e inconsci e che mentre il desiderio può essere inconscio, l’intenzione non lo è mai. Ma cosa hanno in comune gli stati mentali coscienti? A volte Koch sembra propendere per l’ipotesi che essi siano tutti «provati» dal soggetto o che posseggano atomi di soggettività o qualia che sono osservabili solo dal soggetto. Ma noi non «sentiamo» i nostri pensieri e non esiste una qualità soggettiva che distingue l’idea che due più due fa quattro dall’idea che tre più tre fa sei o l’intenzione di sedersi a tavola dall’intenzione di mangiare una fetta di carne. Nel caso di esseri umani che usano il linguaggio distinguiamo gli stati mentali coscienti da quelli incoscienti attraverso la prospettiva in prima persona. Uno stato è cosciente se il soggetto può fedelmente esprimerlo a parole, senza bisogno di porgli domande e sull’unica base della comprensione di ciò che dice. Quindi Koch sembra in più punti assumere il resoconto in prima persona come caratteristico della coscienza; questa assunzione lo priva di chiare argomentazioni a favore della coscienza negli animali, che non possono esprimere i loro stati mentali perché non possono parlare di nulla. Si tratta di un limite serio, perché le ricerche scientifiche a cui fa riferimento Koch sono legate all’esame dei cervelli di topi e scimmie.

Cruciale per l’approccio di Koch-Crick è un esperimento immaginario che si basa sull’idea di uno zombie privo di consapevolezza. Si tratta di una creatura il cui comportamento è dominato da azioni riflesse, mediate dalla corteccia, ma che non ha coscienza di quello che sta facendo. Questa creatura non prova niente, non ha qualia innati e, presumibilmente, non ha coscienza soggettiva dei suoi stati mentali. Di cosa altro è privo? O può essere esattamente come noi ed essere privo solo di queste qualità? Koch è dell’avviso che a uno zombie dovrebbe mancare la capacità di pianificare il futuro o di gestire situazioni difficili in cui sono necessarie scelte complesse. Fare progetti, gestirli e prendere decisioni, egli sostiene, sono tra le funzioni più importanti della coscienza e rimandano a una spiegazione darwiniana del perché si è consapevoli.

Un simile argomento sarà utile nella «ricerca della coscienza» solo se si riuscirà a dimostrare come «sentimenti», qualia e «resoconti in prima persona» sono connessi alla ideazione e pianificazione. Se il collegamento è solo contingente, allora uno zombie potrebbe possedere tutte le funzioni della coscienza senza provare sentimenti. Se il collegamento è necessario, allora deve essere riconosciuto con sistemi diversi dalla deduzione scientifica. In sostanza, alla fine del libro di Koch il lettore si ritrova in mano il quesito iniziale: stabilito che esistono correlati neuronali della coscienza, con cosa esattamente sono correlati? E cosa si intende per «correlazione»?

Per rispondere a questa domanda vorrei in primo luogo suggerire di abbandonare l’ipotesi di qualia esclusivamente soggettivi. La credenza che queste caratteristiche del tutto personali degli stati mentali esistano e che costituiscano l’essenza introspettiva di qualunque cosa li possegga ha determinato uno stato di confusione a cui Wittgenstein ha cercato di porre rimedio nelle sue argomentazioni contro la possibilità di un linguaggio privato. Quando qualcuno ritiene che io sto soffrendo, lo fa sulla base delle mie condizioni e del mio comportamento e potrebbe quindi errare. Quando sostengo di star male non ho bisogno di portare alcun dato concreto a sostegno della mia affermazione. Non mi affido alle mie osservazioni per capire che soffro, né posso sbagliarmi. Ma ciò non succede perché c’è qualche altro fattore inerente al mio dolore, accessibile solo a me, che prendo in considerazione per stabilire quello che sto provando. Se ci fosse questa qualità personale interiore potrei avere una percezione errata; potrei sbagliarmi e dovrei cercare di scoprire se sto male. Per descrivere il mio stato interiore, dovrei anche inventare un linguaggio, intelligibile solo a me, il che, come dimostra plausibilmente Wittgenstein, è impossibile. La conclusione inevitabile è che quando affermo di star male non faccio riferimento ad alcuna qualità interiore né di altro tipo.

Naturalmente c’è differenza tra sapere cosa è un dolore e sapere come è. Sapere come è non significa comunque conoscere un nuovo fattore interiore, ma semplicemente avere provato la sensazione di dolore. Si sta parlando di familiarità più che di informazione. Un filosofo , Thomas Nagel, docente della New York University e autore di The View from Nowhere, un suggestivo studio sulla soggettività , ha posto grande enfasi sull’idea del «cosa si prova», sostenendo che possa costituire un segno distintivo dell’esperienza cosciente, ma la sua proposta non sembra superare un’analisi più approfondita. «Cosa si prova» più che un surrogato della descrizione appare un rifiuto di descrivere. Anche la spiegazione più avanzata non va oltre le metafore. D: «Cosa si prova, cara, quando sei eccitata?» R: «Sapore di marmellata mischiato all’ultimo Stravinsky».

Allo stesso modo non si fanno grandi progressi nella comprensione della coscienza concentrandosi sull’idea del «provare» le cose. In questo caso gli stati mentali coscienti non hanno nulla a che fare con i sentimenti. Noi percepiamo sicuramente le nostre sensazioni ed emozioni così come percepiamo i nostri desideri. Tutti questi stati mentali una volta sarebbero rientrati nella categoria delle passioni, contrapposte alle azioni mentali , pensiero, giudizio, intenzione, deduzione , che non sono provate ma realizzate. Posso intenzionalmente pensare a Mary, valutare un quadro, prendere una decisione, fare una previsione, perfino immaginare un centauro, ma non posso intenzionalmente provare un dolore al dito o avere paura dei ragni o desiderare qualcosa di dolce. Anche se potessi provare un dolore volontariamente o riuscissi a sopprimere i miei desideri, ciò non significherebbe che i dolori e i desideri sono azioni, ma solo che sono passioni che posso controllare attraverso la disciplina mentale, come un maestro di yoga può rallentare il suo battito cardiaco. Inoltre, alcuni filosofi e psicologi sembrano apprezzare l’idea di «sentimenti incoscienti». Si può storcere il naso di fronte all’espressione usata, ma il contenuto è chiaro: è possibile provare qualcosa senza avere coscienza del sentimento provato. Sensazione è un indizio di coscienza solo se si interpreta «sensazione» come «consapevolezza». Ma cosa vuol dire avere consapevolezza di una cosa? In sostanza, esserne coscienti.

Le proprietà emergenti

Come possiamo districarci in questo groviglio di definizioni circolari e di immagini fuorvianti? Due idee mi sembrano utili più di altre per spiegare il nostro senso di consapevolezza alla stregua di un regno separato. La prima è quella di una proprietà emergente. Gli stati mentali in generale e gli stati coscienti in particolare si possono interpretare come stati emergenti degli organismi. Un’analogia utile è rappresentata da un volto in un quadro. Quando un pittore sparge il colore su una tela, crea un oggetto fisico con strumenti puramente fisici. Questo oggetto è composto di linee e tratti pittorici applicati a una superficie che per convenzione può essere definita bidimensionale. Osservando un quadro noi vediamo una superficie piatta, e vediamo queste linee e i tratti di pittura e anche la superficie che li contiene. Ma non è tutto quello che vediamo. Ci appare anche un volto che ci guarda con gli occhi sorridenti. Da una parte, il volto è una proprietà della tela, al di là delle macchie di pittura; si possono osservare le macchie e non vedere il volto, e viceversa. Il volto è realmente lì: chi non lo vede sta guardando nel modo sbagliato. D’altra parte, il volto non è una proprietà ulteriore della tela perché ci sono sia le macchie e le linee di colore sia il volto. Non è necessario aggiungere altro per dar vita al volto e, se non bisogna aggiungere altro, il volto non può essere nulla di più. Inoltre, ogni processo che produce queste macchie di pittura, disposte nello stesso modo, otterrà lo stesso volto, anche se l’artista non ne ha consapevolezza (si potrebbe progettare una macchina per produrre una serie di Monna Lisa).

La coscienza emerge dal comportamento globale e dal repertorio neurologico, come il volto di un dipinto emerge dall’insieme delle macchie di colore.

Forse la coscienza è una proprietà emergente in questo senso: non qualcosa al di là della vita e dei comportamenti in cui la osserviamo, ma neanche a loro riducibile.

Il secondo concetto utile ha dapprima avuto un posto di rilievo nel pensiero kantiano ed è stato successivamente sviluppato da Fichte, Hegel, Schopenhauer e da un’intera schiera di pensatori fino a Heidegger, Sartre e Thomas Nagel. L’idea è di tracciare una distinzione tra il soggetto e l’oggetto della coscienza e di riconoscere il peculiare stato metafisico (Wittgenstein avrebbe detto grammaticale) del soggetto. Come soggetto cosciente posseggo un punto di vista sul mondo. Il mondo mi appare in un certo modo e questa apparenza determina la mia particolare prospettiva. Ogni essere cosciente ha una simile prospettiva ed è proprio questa a differenziare il soggetto dal semplice oggetto. Quando offro un resoconto scientifico del mondo sto comunque descrivendo solamente oggetti. Descrivo il modo in cui le cose vanno e le leggi causali che le spiegano. Questa descrizione non viene fornita da una prospettiva particolare e non contiene parole come «qui», «ora» e «Io»; inoltre, nel tentativo di spiegare come appaiono le cose fornisce una teoria su come sono. In breve, il soggetto è in linea di principio inosservabile per la scienza, non perché esso si trovi in un altro regno, ma perché non fa parte del mondo empirico. Esso giace al confine delle cose, come l’orizzonte, e non può mai essere afferrato «dall’altra parte», la stessa parte della soggettività. è una parte reale del mondo reale? La domanda inizia a dare l’impressione di essere mal formulata. Mi riferisco a me stesso, ma ciò non significa che c’è un io a cui mi riferisco. Io agisco nell’interesse di un mio amico, ma non c’è qualcosa come l’interesse per cui sto agendo (il parallelo mostra come Wittgenstein intendesse questi enigmi alla stregua di un problema di ordine grammaticale).

Noi possiamo rapportarci alle creature coscienti in modi impensabili con gli oggetti. Il loro comportamento è la conseguenza del modo in cui appaiono loro le cose e può quindi essere alterato modificando l’apparenza delle cose. Fornendo loro «cibo per il pensiero» o , nel caso di animali più primitivi , «cibo per la percezione» e «cibo per la fiducia», li vincoliamo ai nostri scopi. Poiché provano piacere e dolore, possono essere ricompensati e puniti e indirizzati a un nuovo comportamento. Chiunque abbia addestrato un cane o un cavallo anche ai compiti più semplici sa che la coscienza è un intermediario essenziale nel conseguimento del risultato finale e che non c’è nulla di sorprendente in tutto ciò: la coscienza è una parte del repertorio comportamentale dell’animale come mangiare e defecare. Si tratta di una serie di connessioni funzionali tra il mondo e il comportamento, che ci portano a identificare un «punto di vista», un «modo di vedere le cose» che distingue l’essere vivente con cui siamo in rapporto. Questo punto di vista è anche il canale più rapido e veloce per i cambiamenti del suo comportamento.

Quando si parla di comportamento, non dobbiamo accettare la vecchia teoria comportamentista che i predicati mentali si possono ridurre a semplici sindromi comportamentali. Se interpretiamo il comportamento come l’espressione di uno stato cosciente, stiamo esplicitamente collocandolo in un nesso intuitivamente comprensibile di relazioni causali. Il comportamento di un uomo sofferente è solo all’apparenza simile a quello di un attore che finge di provare dolore. Chi soffre non può realmente poggiarsi sulla sua gamba ferita e la gamba è realmente ferita; il comportamento dell’attore è volontario, quello di chi soffre è involontario. E così via. Tutti queste affermazioni sono ipotesi relative alle connessioni funzionali tra il mondo e il comportamento e costituiscono parte importante di una teoria spontanea che qualche filosofo ha definito «psicologia popolare».

è indubbio che esistano «correlati neuronali» della coscienza, vale a dire tutti i processi elettrici che sono necessari a generare il comportamento cosciente (tra cui, secondo Koch, le onde gamma , oscillazioni registrate da un elettroencefalogramma tra i 30 e i 70 hertz , che sono particolarmente importanti). Alcuni animali esibiscono questo processo, altri (per esempio gli insetti) no. Scoprire la fonte di questi processi è in qualche modo scoprire la sede mentale della coscienza. Ma ciò ci porterebbe più vicini a capire cosa è la coscienza? Immaginate di esservi imbattuti in una persona che si comportava e si muoveva come voi, che si relazionava a voi come fanno tutte le persone e che un giorno – di fronte al vostro sguardo sbalordito – ha aperto la parte superiore della sua testa per mostrare niente altro che un gattino morto e una palla di corda. Impossibile scientificamente, forse, ma logicamente possibile e senza alcuna possibilità di negare che questa persona fosse cosciente.

Il cane privo di autocoscienza

In altri termini la coscienza è una proprietà emergente degli organismi. Ma ciò viene fuori dal comportamento globale e dal repertorio neurologico, non dai processi cerebrali presi in assoluto, così come il volto nel dipinto emerge dall’intero assortimento di macchie di colore, non dal supporto della tela in quanto tale su cui sono tracciate. Naturalmente non si può avere un comportamento senza il cervello né un dipinto senza la tela. In questo senso dovrebbero esistere dei correlati neuronali della coscienza. Ma la scoperta di questi correlati non ci spiega cosa è la coscienza e neanche risolve il mistero del soggetto o quello altrettanto oscuro del resoconto in prima persona.

C’è una difficoltà che ho evitato e che anche Koch ha eluso, anche se alcune osservazioni occasionali mostrano che egli ne è cosciente. Questa difficoltà sorge da due radicali distinzioni ontologiche nel regno del mentale. La prima riguarda il confine che separa le creature coscienti da quelle incoscienti. Noi attribuiamo un tipo di percezione a mitili e ostriche; ma sono anche coscienti? Dovremmo provare rimorso quando siamo intenti ad aprire un’ostrica e le spargiamo poi sopra il succo di limone? In effetti siamo inclini a sostenere che simili organismi sono troppo primitivi per poter applicare loro concetti come sentimento, giudizio e desiderio. Ciò potrebbe valere anche per gli insetti, per quanto si possano ammirare la loro efficace organizzazione sociale e le loro facoltà percettive.

La seconda riguarda la distinzione tra creature solo coscienti e creature autocoscienti come noi. Solo queste ultime hanno una naturale prospettiva in prima persona, da cui distinguere come le cose sembrano a me da come sembrano a un altro. La creatura con il concetto di «Io» ha una capacità di entrare in relazione con i membri del suo genere che la separa dal resto della natura e molti pensatori (tra cui Kant e Hegel) credono che sia questo fatto, non la coscienza in quanto tale, l’origine di tutti i misteri della condizione umana. Anche se sono coscienti, i cani non riflettono sulla loro consapevolezza come fa l’uomo: essi vivono, come dice Schopenhauer, in «un mondo di percezioni» con i loro pensieri e desideri rivolti all’esterno del mondo percepibile.

La difficoltà è questa: si dice degli esseri umani che la loro autocoscienza è un attributo sistematico della loro vita mentale, che coinvolge ogni cosa che pensano e provano. Si dice anche dei cani che la loro coscienza è un attributo sistematico della loro vita mentale, poiché li distingue categoricamente dai molluschi e dai coleotteri. Comunque stati mentali simili sembrano esistere a tutti e tre i livelli. Il coleottero, il cane e le persone vedono gli oggetti. Come è che un unico e identico processo mentale , la percezione visiva , può esistere in tre diversi predicamenti ontologici: come un collegamento riflesso tra l’input visivo e l’output comportamentale, come una percezione consapevole e come parte di un continuo e peculiare senso del sé?

La questione ha indotto alcuni scrittori (per esempio, il neuroscienziato Antonio Damaso nel suo libro Alla ricerca di Spinoza) a pensare alla coscienza e all’autocoscienza come processi di monitoraggio, una riflessione che ricorda da vicino il vecchio sofisma dell’omuncolo. Non è come se la mia mente fosse uguale a quella di un cane, solo con un «io» che la osserva, o la mente di un cane come quella di un insetto, solo con un controllo interno. La coscienza e l’autocoscienza sono proprietà olistiche che emergono dal complesso della fisiognomica e del comportamento di un essere vivente. Si possono scoprire forme organizzate nel cervello e nel sistema nervoso che sono biologicamente necessarie per tali caratteristiche. Ma probabilmente questi «correlati neuronali» non chiariranno i misteri della coscienza più di quanto lo sfondo della Monna Lisa di Leonardo possa spiegare il mistero del suo sorriso.

La conclusione per me più convincente non è che non esista un qualcosa come la coscienza, ma che non ci sia nulla che la coscienza è, così come non c’è nessun oggetto fisico che è realmente il sorriso di Monna Lisa.

Roger Scruton è visiting professor al Dipartimento di Filosofia del Birkbeck College, a Londra, e autore di oltre 20 libri, tra cui Modern Philosophy e England: an Elegy.

L’io mentale

The Quest for Consciousness: A Neurobiological Approach

di Christof Koch, Roberts, 2004.

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