L’umanità non guarda oltre il breve periodo

I fatti stanno dimostrando il fallimento collettivo nell’affrontare i rischi a lungo termine come il cambiamento climatico, le pandemie, la guerra nucleare o la resistenza agli antibiotici.

di Richard Fisher 

Ogni tanto chiedo a mia figlia del futuro. A tre anni, aveva solo un concetto di base del tempo, con poca consapevolezza di orologi o calendari. Poteva capire Il piccolo bruco Maisazio, un classico libro per bambini su una creatura che si ingozza di cibo per una settimana, ma quando mi raccontava la storia, mescolava i giorni. Il tempo, per lei, era un flusso disordinato. All’età di cinque anni, tuttavia, aveva capito che ieri si riferiva al passato e domani al futuro. Un giorno, a colazione, le chiesi fino a che punto riusciva a immaginare il futuro. “Quando avrò 10 anni”, ha risposto.

Adesso ha sette anni. Recentemente, le ho chiesto con che frequenza pensa al futuro.

“Non spesso,” mi ha risposto. “Ma a volte mi preoccupa cosa potrebbe accadere”.

“E cosa ti preoccupi?”, le ho chiesto.

“Farmi male, essere arrestata o qualcosa del genere”, ha replicato.

“Riesci a immaginare di avere la stessa età di me e di mamma?”, ho insistito.

“No”, mi ha detto.

“Riesci a immaginare di essere un adolescente?”, ho continuato.

“Sì”, ha affermato con sicurezza.

“Riesci a immaginare di avere i tuoi figli?”, ho domandato infine.

“Questo mi fa impazzire”, ha concluso lei.

Più passano gli anni, più la cultura riempie gran parte della tela della sua immaginazione. “La singolazione”, mi ha spiegato di recente, “è il luogo in cui le persone saranno infelici in futuro. Quando i robot conquisteranno la Terra”. 

“Ma stai parlando della Singolarità ? Chi te ne ha parlato?!”, le ho chiesto. Il cartone animato Capitan Mutanda , ha risposto.

Proprio come i bambini espandono le loro percezioni temporali con gli anni, così anche la nostra specie ha fatto lo stesso nel corso dei millenni. Come i bambini piccoli, i nostri antenati preumani non avevano la sensazione di un futuro lontano. Vivevano solo nel presente. La traiettoria dell’umanità, dagli ominidi armati agli architetti delle grandi metropoli, si è intrecciata con il nostro senso del tempo in continua espansione. A differenza di altri animali, abbiamo menti in grado di immaginare un futuro profondo e possiamo concepire la scoraggiante verità che la nostra vita è un semplice lampo nel tempo infinito. 

Eppure, anche se possediamo questa capacità, la impieghiamo raramente nella vita quotidiana. Se i nostri discendenti dovessero diagnosticare i mali della civiltà del XXI secolo, osserverebbero un fallimento collettivo nel guardare oltre il presente. Il mondo è saturo di informazioni e gli standard di vita non sono mai stati così alti, ma spesso è difficile vedere oltre il prossimo trimestre politico o economico. Come spiegare questa contraddizione? Perché siamo così bloccati nel presente? 

Il futuro non è più quello di una volta

Essere in grado di manipolare concettualmente il tempo può essere ciò che ci distingue dagli altri animali. Nel Pleistocene, i nostri antenati hanno sviluppato ciò che i biologi evoluzionisti chiamano “viaggio mentale nel tempo”. Possiamo costruire nella nostra mente scenari che ci permettono di interpretare scene e personaggi del passato, così come storie ipotetiche sul futuro.

Eppure, mentre i primi umani avevano questo talento, il loro concetto di un futuro più profondo era rudimentale. Nel pensiero occidentale, è stato così almeno fino al Medioevo. Per secoli ha dominato una visione ciclica del tempo, una visione delle stagioni e dei regni. Forse, l’unico grande cambiamento atteso in futuro era legato agli insegnamenti religiosi, in particolare all’apocalisse. 

“In epoca medievale, la maggior parte degli affari umani aveva la forma di una ripetizione infinita: semina e raccolta, malattie e salute, guerra e pace, ascesa e caduta dei regni – c’erano poche ragioni per credere nel cambiamento a lungo termine o addirittura nel miglioramento futuro”, ha scritto Lucian Holscher, storico dell’Università di Bochum, in un saggio del 2018. “Il futuro a lungo termine, almeno in quel mondo, non esisteva. Piuttosto le persone vivevano in una specie di presente perenne”.

Persino i costruttori medievali di cattedrali – spesso lodati come esempi di pensiero a lungo termine per la creazione di strutture che sarebbero durate generazioni – non immaginavano futuri radicalmente diversi con un grande grado di lungimiranza. Il mondo di domani che immaginavano era uguale al loro (va notato che alcune cattedrali sono crollate a causa della scarsa previdenza. Durante i servizi religiosi si recitava una preghiera: “Signore, sostieni il nostro tetto questa notte, affinché non possa in alcun modo cadere su di noi. Amen”).

In Occidente, un senso più profondo del tempo non è emerso fino al XVIII secolo. Nel 1700, il geologo James Hutton mostrò come la cronologia delle rocce scozzesi si estendesse milioni di anni nel passato. Il filosofo Immanuel Kant ha scritto: “ci saranno milioni e milioni di secoli, in cui verranno generati nuovi mondi e ordini mondiali… La creazione non è mai finita. Ha avuto un inizio, ma non finirà mai”. E gli scrittori hanno iniziato a sognare mondi futuristici. Nel 1770 Louis Mercier pubblicò L’anno 2440, un romanzo utopico su un uomo che si sveglia in una Parigi idealizzata del venticinquesimo secolo. Il libro fu bandito dalla chiesa cattolica: in Spagna e il re lo bruciò personalmente.

Nel corso dei successivi 200 anni, questa capacità scientifica e intellettuale di immaginare molto in là nel futuro ha spianato la strada alla comprensione di noi stessi e del pianeta. Ha permesso a Darwin di proporre la sua teoria dell’evoluzione, ai geologi di datare la vera età della Terra e ai fisici di simulare l’espansione dell’universo.

La nostra consapevolezza del tempo profondo non ha significato necessariamente prestare attenzione ad esso. L’idea europea del diciottesimo secolo di un futuro lungo e radioso non era destinata a durare. Periodicamente, la prospettiva cambiava, spesso a causa di passaggi critici, come la Rivoluzione francese. Hölscher sostiene che è possibile vedere questa trasformazione nei testi dalla fine del 1700 all’alba del 1800: previsioni ottimistiche e di vasta portata sul mondo lasciarono il posto a descrizioni più circospette del futuro, incentrate sui miglioramenti a breve termine del tenore di vita. A suo parere, una contrazione simile si è verificata con la prima guerra mondiale, dopo lo sguardo fiducioso al futuro dell’inizio del ventesimo secolo. 

Lo storico François Hartog, l’autore di Regimes of Historicity, sostiene che in questo momento siamo nel mezzo di un fenomeno simile. La sua idea è che a un certo punto tra la fine degli anni 1980 e l’inizio del secolo, una convergenza delle tendenze sociali ci ha portato in un nuovo regime del tempo che lui chiama “presentismo”. Lo definisce come “il senso che esiste solo il presente, caratterizzato allo stesso tempo dalla tirannia dell’istante e dalla routine”. Nel ventunesimo secolo, egli scrive, “il futuro non è un orizzonte radioso che illumina il nostro incedere, ma una linea d’ombra che si avvicina”. 

E’ difficile testare empiricamente le affermazioni di coloro che dicono che stiamo vivendo in un’era a breve termine. Gli storici futuri potrebbero avere una visione più chiara. Ma possiamo testimoniare la mancanza di pensiero a lungo termine di cui soffre la nostra società. Lo si può vedere nel mondo degli affari, nel quale i rapporti trimestrali incoraggiano i CEO a dare la priorità alla soddisfazione degli investitori a breve termine rispetto alla prosperità a lungo termine.

Lo si verifica nella politica populista, con i leader concentrati più sulle scadenze elettorali vicine e sui desideri della loro base che sulla salute a lungo termine della nazione. Lo si riscontra, infine,nel nostro fallimento collettivo nell’affrontare i rischi a lungo termine, vale a dire il cambiamento climatico, le pandemie, la guerra nucleare o la resistenza agli antibiotici. 

Questi rischi rendono sempre più importante estendere la prospettiva delle nostre azioni nel futuro non immediato ma, come ha sostenuto il filosofo di Oxford Toby Ord, questo modo di vedere le cose deve essere accompagnato da lungimiranza o saggezza. Le forze che favoriscono il successo di una mentalità a breve termine nella nostra epoca sono numerose. 

Alcuni indicano Internet, altri lamentano l’abbraccio tra i media e la politica h24, che incoraggia i responsabili delle decisioni a concentrarsi maggiormente sui titoli o sui sondaggi rispetto alle conseguenze delle azioni attuali sulle generazioni future. Hartog incolpa le ideologie capitaliste e consumistiche che sono arrivate a dominare la cultura occidentale alla fine del ventesimo secolo. Durante questo periodo, “il progresso tecnologico ha continuato ad avanzare e la società dei consumi è cresciuta sempre più”, scrive, “e con essa la categoria assoluta del presente, di cui questa società si è appropriata come suo marchio di fabbrica”. 

Come in molte altre situazioni complesse, probabilmente non c’è una sola causa, ma una responsabilità convergente. Ma non dobbiamo disperare. Se il quadro delineato è corretto, allora la scelta del breve termine è una proprietà che caratterizza questo passaggio culturale, economico e tecnologico. Non durerà per sempre, né è totalmente fuori dal nostro controllo. L’assunto che le cose debbano sempre rimanere come sono oggi è in realtà esso stesso una forma di presentismo. Ma se comprendiamo alcune delle pressioni psicologiche che ci spingono a privilegiare il breve termine nella vita quotidiana, possiamo trovare il modo di opporci.

Gli stress temporali

Nel corso di una recente borsa di studio al MIT, ho studiato come la nostra esperienza psicologica del futuro può cambiare. Ero curioso di sapere quale ruolo gioca l’idea di un futuro lontano nella nostra vita quotidiana, se esiste. Volevo anche capire quali pressioni psicologiche potrebbero farci perdere di vista il lungo termine nelle decisioni quotidiane. Ho scelto di chiamare queste pressioni “stress temporali”. 

Alcuni temi sono emersi costantemente e li ho racchiusi nell’acronimo SHORT: 
S – Salience
H – Habits
O – Overload
R – Responsibility
T – Targets

Salienza. Eventi sorprendenti ed emotivamente risonanti tendono a dominare il nostro pensiero più degli eventi astratti. È un aspetto della “disponibilità euristica”, un pregiudizio cognitivo che significa che le persone hanno maggiori probabilità di immaginare il futuro attraverso le lenti degli eventi recenti. Ciò significa che problemi con conseguenze nel lungo periodo come il riscaldamento globale non compaiono sul radar dell’attenzione fino a quando qualcosa non brucia o si allaga. Prima della pandemia di covid-19, anche gli epidemiologi erano più concentrati sui pericoli di Ebola e Zika invece che sul coronavirus

Abitudini.  È più difficile rendersi conto degli effetti a lungo termine di un’azione quando siamo concentrati a seguire sui nostri telefoni controversie politiche, episodi di criminalità, guerre culturali, disastri o attacchi terroristici. Questi eventi, sebbene importanti, popolano la nostra immaginazione del futuro in misura sproporzionata. La prospettiva a breve termine può anche affliggere le organizzazioni. 

Per esempio, il think tank FCLT Global, di Boston, si è occupato del modo di procedere abitudinario delle aziende e ha messo in guardia dal lasciare che i consigli di amministrazione si concentrino sull’immediato invece che sulla strategia a lungo termine nelle comunicazioni agli azionisti. I leader aziendali che si muovono diversamente, come Jeff Bezos che comunica regolarmente le linee di marcia di Amazon, possono creare una cultura tra dipendenti e investitori che favorisce una visione di lungo periodo.

Sovraccarico. Non ho bisogno di soffermarmi sull’accelerazione del cambiamento tecnologico e sui suoi effetti sull’ecosistema dell’informazione, ma se si è alla ricerca di ulteriori prove, basta considerare che ci sono voluti 71 anni perché i telefoni fossero adottati da metà della popolazione statunitense e i telefoni cellulari hanno impiegato solo 14 anni per raggiungere lo stesso traguardo. E Internet? Solo un decennio. 

L’accelerazione del ritmo della tecnologia e la concomitante accelerazione della vita, del lavoro e delle informazioni hanno ulteriormente sovraccaricato la nostra capacità di attenzione. La ricerca condotta nel 2005 ha suggerito che l’immagine del futuro delle persone si offusca tra i 15 e i 20 anniCome ha evidenziato il cosmologo Martin Rees, è difficile avere una visione generale quando la vita dei nostri figli promette di essere così radicalmente diversa dalla nostra, un problema che i nostri antenati medievali semplicemente non avevano.

Responsabilità. Il mondo moderno ha reso sempre più facile perdere il contatto con le conseguenze delle nostre azioni e le responsabilità connesse. Si prenda il caso dell’hamburger. Un singolo consumatore in una complessa catena di approvvigionamento globale condivide solo una piccola parte di responsabilità per i mali coinvolti nel portare quell’hamburger in tavola: emissioni di carbonio, allevamenti intensivi, inquinamento dell’acqua e altro ancora. 

Quando le comunità erano piccole, i beni erano locali e gli obblighi della società erano immediatamente verificabili. Secoli fa, le persone non dovevano pensare ai danni causati dall’agricoltura industriale, né ai rifiuti atomici, alle plastiche oceaniche, al carbonio atmosferico di cui siamo collettivamente responsabili, ma non individualmente colpevoli (e anche in quel mondo molto più semplice, alcune civiltà sono crollate dopo aver esaurito le loro risorse naturali). Abbiamo bisogno di modi per rendere queste responsabilità più visibili per attribuirle. 

Obiettivi. Oggi, le misurazioni dominano tutti i regni della vita. Statistiche di crescita, punteggi di efficienza, rendimenti per gli azionisti. KPI, PIL, ROI. Se interpretati male, questi obiettivi favoriscono il presentismo o addirittura incoraggiano un cattivo comportamento. 

Il sociologo Robert Jackall ha descritto uno scenario in cui ciò avviene regolarmente. Lo chiamava “mungitura dell’impianto”: un manager arrivava in uno stabilimento o in una fabbrica con una serie ambiziosa di obiettivi stabiliti dal consiglio di amministrazione e immediatamente faceva schioccare la frusta. La produttività aumentava di conseguenza. Mesi dopo, gli obiettivi venivano raggiunti e il manager era promosso. Lavoratori e macchinari nel frattempo erano ridotti allo stremo. Il manager successivo avrebbe dovuto raccogliere i pezzi con una nuova serie di obiettivi a breve termine e il ciclo si sarebbe ripetuto. 

Il problema è ben colto dalla legge di Goodhart, che prende il nome da un economista britannico, che suona in questo modo: “Quando una misura diventa un obiettivo, cessa di essere una buona misura”. Per sfuggire alle sirene del breve termine, dobbiamo rivalutare gli obiettivi in base ai quali valutare il successo. Incoraggiano le prospettive a lungo termine o danno la priorità solo ai guadagni immediati? 

Potremmo iniziare pensando a come le aziende possono fare di più per bilanciare gli obiettivi annuali o trimestrali con le aspirazioni a lungo termine che durano – o addirittura superano – una vita, come gli impegni che alcune aziende petrolifere hanno preso per raggiungere le emissioni nette zero. E’ un comportamento che adottiamo già a livello personale in una certa misura, nella carriera, nell’istruzione e in famiglia. 

Alcuni tentativi sono stati fatti anche in ambito politico per definire parametri a lungo termine, come gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, parti dei quali sono stati assorbiti nelle leggi e nelle politiche aziendali in tutto il mondo (il Galles, per esempio, ha approvato il Well-being of Future Generations Act, liberamente basato sugli obiettivi delle Nazioni Unite, che richiede agli enti pubblici di includere determinati obiettivi a lungo termine nel loro processo decisionale). 

A cavallo della storia

Identificare gli stress temporali che promuovono la logica del breve termine nelle nostre vite è solo un punto di partenza. La nostra più grande sfida in questo secolo è trasformare il nostro rapporto con il tempo. La storia suggerisce che i nostri orizzonti possano espandersi di nuovo. Durante la pandemia, il nostro “presentismo” è diventato ancora più estremo, ma anche le norme culturali sono state messe in discussione. Non ci sarà mai un momento migliore per chiederci quale futuro vogliamo veramente. 

Alcuni suggeriscono che potremmo vivere un passaggio epocale, un tempo che ha un’influenza unica per il futuro dell’umanità. Non abbiamo mai avuto così tanti modi per distruggerci attraverso pericoli autocostruiti, dalle armi nucleari ai patogeni del bioterrorismo. Ma se riusciamo a tracciare un percorso attraverso questo periodo abbracciando il lungo termine, si sostiene, allora la nostra specie – come altri mammiferi – ha il potenziale per sopravvivere per milioni di anni. 

Se l’evoluzione della percezione del tempo dell’umanità rispecchia quella di una bambina come mia figlia, allora la nostra maturità temporale come specie potrebbe essere ancora a venire. Forse siamo solo in un periodo tumultuoso dell’adolescenza e l’età porterà un senso di un futuro più profondo. Come adolescenti che si confrontano improvvisamente con le conseguenze delle loro azioni, stiamo affrontando una crisi causata dalla nostra impulsività. Speriamo che sia solo lo shock di cui abbiamo bisogno per crescere. 

Immagine: Yoshi Sodeoka

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