Meno chiacchiere sulle invenzioni

Samuel F. B. Morse non ha inventato il telegrafo. Alexander Graham Bell non ha inventato il telefono. Thomas Edison non ha inventato né la lampadina né la cinepresa. Guglielmo Marconi non ha assolutamente inventato la radio.

La televisione non è stata inventata né da Philo Farnsworth né da Vladimir Zworykin. L’origine del circuito integrato rimane una disputa senza fine tra chi appoggia Jack Kilby e chi sostiene invece Robert Noyce. Come nel caso di Internet e dei suoi browser onnipresenti, si può dire che – allo stesso modo delle «conquiste» tecnologiche appena citate – «pubblicità, «priorità e «brevetto» si escludono spesso reciprocamente.

Quando si parla di invenzione, Henry Ford – che naturalmente non inventò né l’automobile né la linea di produzione in serie – era nel giusto: la storia è realmente una fandonia. Il contesto distorto e la scarsa attendibilità di molte saghe di inventori «eroici» e dei frutti preziosi del loro lavoro fanno venire alla mente l’osservazione volutamente cinica dello storico delle scienza Otto Neugebauer che «l’opinione comune che la “prospettiva storica” si acquista con il passare del tempo mi sembra una manipolazione totale della situazione reale. Ciò che raggiungiamo è semplicemente una maggiore familiarità con concetti generali che non avremmo mai osato esprimere se ci fossimo basati sulla ricchezza dei dati disponibili nella realtà contemporanea». Se si vuole capire quanto è stata importante l’«invenzione» negli ultimi 300 anni, bisogna parlare con gli avvocati. Se si vuole invece sapere cosa ha significato l’«innovazione», si può parlare con chiunque altro. La storia dell’invenzione coincide con la storia delle controversie legali, non con l’innovazione. Non dobbiamo confonderle.

Non c’è correlazione tra un’invenzione coronata da successo e una innovazione vittoriosa sul mercato. Nel modo più assoluto.Per questa ragione non posso fare altro che sospirare quando leggo di un’imminente rinascita dell’invenzione o di un nuovo fiorire, sostenuto dalla tecnologia, di inventori professionisti multidisciplinari e di giovani di talento. Il ruolo dell’invenzione nell’innovazione è largamente esagerato. è credibile che sia un semplice incidente della storia che così tante scoperte scientifiche o invenzioni tecnologiche emergano contemporaneamente da diversi laboratori di ricerca? C’è qualcuno che rimane ancora sorpreso se l’inventore «originale» vince la partita all’ufficio dei brevetti, ma perde quella del mercato?

La verità è che l’economia dell’invenzione è profondamente differente dall’economia dell’innovazione. Essere il «primo a registrarsi» non ha nulla a che fare con l’essere il primo ad arrivare sul mercato. Essere primi sul mercato non ha nulla a che fare con il primato nella redditività. Questo primato non ha in effetti alcun rapporto con quanto rapidamente, profondamente e globalmente un’innovazione si diffonde. In altri termini, non esiste correlazione significativa – a parte la causalità – tra un’invenzione «coronata da successo» e un’innovazione «vittoriosa» sul mercato. Nessun tipo di correlazione.

Perché dovremmo sorprenderci? I trionfi commerciali di «vincitori» come Edison e Marconi sono stati frutto più di una procedura aziendale ben oliata che dell’ispirazione dell’inventore. Non si deve confondere la creazione di un’idea con la sua commercializzazione, non più di quanto si possa confondere un aeroplano con una linea aerea o un telefono con una rete.

Di tanto in tanto i mercati se ne rendono conto. Negli anni 1980 IBM è stata una fabbrica di brevetti. Purtroppo, il suo enorme patrimonio di «proprietà intellettuale» con tanto di garanzia governativa non si è tradotto in ritorni d’investimento superiori per l’azienda che una volta è stata la più importante al mondo nel settore dell’IT. La redditività del brevetto è una misura scarsamente efficace nel caso di innovazioni di valore.

è sufficiente riandare non oltre la bolla di Internet per notare la totale separazione sul mercato tra invenzione e innovazione. Internet non ha sofferto di una scarsità di idee realmente creative; sfortunatamente, si trovavano pochi utenti e clienti disposti a pagare per sfruttarle. In quelle giornate felici tra il 1995 e il 2000, le imprese dot-com svendevano letteralmente i frutti delle loro invenzioni nella speranza di conquistare il mercato e successivamente di garantirsi la sopravvivenza. Ma, anche quando le nuove invenzioni erano del tutto «gratuite», molte di esse hanno fallito.

Il mondo non sta soffrendo per una mancanza di inventiva. In effetti, una delle regole fondamentali dell’economia dice che quando il tasso d’offerta supera considerevolmente il tasso di domanda, l’offerta si abbassa di valore; si ha un’eccedenza. Se il governo americano incrementasse di dieci volte il numero di brevetti in concessione, crediamo che le invenzioni acquisterebbero – in media – un valore superiore? Quasi certamente non sarebbe così. Allo stesso modo, l’idea romantica che aumentando esponenzialmente il numero di inventori di qualità si moltiplichi la quantità di innovazioni importanti significa non comprendere né la genesi dell’invenzione né il processo innovativo. Il collo di bottiglia reale non è l’invenzione, ma l’incapacità di trasformare in modo efficace dal punto di vista dei costi le invenzioni più valide in prodotti commerciali.

Senza voler sminuire il genio dello spirito inventivo, il mio consiglio è di adottare una prospettiva più neugebaueriana: la perfezione tecnologica di un’invenzione conta assai meno della disponibilità economica del cliente o dell’utente intenzionato a sfruttarla. La prontezza dell’utente a innovare è ciò che rende l’invenzione possibile. Per questa ragione «Technology Review» è la rivista dell’innovazione del MIT, non dell’invenzione.

Michael Schrage, ricercatore e consulente di economia dell’innovazione, è autore di Serious Play (Harvard Business School Press, 2000).

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