Misteri generazionali

Il volto dei giovani protagonisti della comunicazione nello specchio degli adulti.

di Mario Morcellini

Sono stati definiti parte di una generazione invisibile, insensibile, media, disimpegnata o virtuale. A differenza del passato, in cui bastava una sola parola per indicarli, oggi ci si limita a inserirli in un’ipotetica generazione “senza”: senza lavoro, certezze, fiducia nelle istituzioni e valori. Oppure li si ingabbia in generiche lettere dell’alfabeto che non a caso segnalano delle incognite. X, per esempio, è la generazione pessimista e nichilista successiva al baby boom. Quella dei nati tra gli anni Sessanta e i Settanta, senza identità e senza nulla di rilevante da dire.

Y, invece, è la categoria di giovani “tutti virtuali”, il cui universo di riferimento è il Web e il linguaggio quello di sms, blog e communities online come MySpace e SecondLife. Si tratta, in questo caso, della definizione usata per dare un’identità ai ragazzi del XXI secolo, i Technosexual, come li definisce un marchio con tanto di copyright registrato da Calvin Klein.

Più recente, ma altrettanto ipersintetica, la “generazione U” di Mario Adinolfi: “U” come U2, you too, inversione di marcia, Unica moneta, Unità Europea, o anche come Ultima chiamata per le generazioni assenti e politicamente invisibili dei nati negli anni Settanta.

Quiet (in senso dispregiativo) è, invece, la generazione “Q” del columnist del “New York Times” Thomas Friedman, quella dei giovani contemporanei «apatici, passivi e computerizzati», incapaci di compredere che le vere rivoluzioni non si combattono nel mondo virtuale, ma nelle piazze.

Forse perché le lettere dell’alfabeto sono quasi finite, ora si parla di now generation, quella «gioventù che, a causa della velocità delle trasformazioni sociali e tecno-economiche, enfatizza l’immediatezza e il presente, poiché il futuro è pervaso da un senso di nebulosità e di incertezza. Oggi e domani infatti non hanno più la distanza di un giorno, ma sono 24 ore di tempo nelle quali i mutamenti possono avvenire in maniera del tutto radicale quanto repentina». Anche in questo caso, però, i giovani italiani sono dipinti con tinte fosche. La now generation che emerge dall’VIII Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza è quella di bambini e ragazzi “padroni”, in un’accezione sia positiva che negativa. Padroni delle nuove tecnologie, che rovesciano il loro sapere su genitori poco avvezzi all’uso di Internet e dei moderni strumenti di comunicazione, ma anche “figli-padroni”, aggressivi con il gruppo dei pari, con i professori e con gli stessi genitori.

Al di là della volatilità di alcuni epiteti e della consueta drammatizzazione operata dagli adulti, è piuttosto chiaro che oggi si fatichi a trovare un termine adatto per descrivere la nuova generazione.

Altrettanto lampante è la percezione di un certo disorientamento giovanile, unito spesso alla convinzione del “debito di socializzazione” a fronte di una scuola e una famiglia in difficoltà.

Nonostante la pluralità di etichette, il dibattito sulla questione giovanile sembra caratterizzato da qualche forma di rimozione. Pochi intellettuali o politici elaborano seriamente la riflessione sulla nuova generazione, al di là di facili slogan impressionistici. Il discorso pubblico si limita a essere superficialmente intorno ai giovani, non su di loro, né con loro. La negazione della possibilità di risposta, d’altronde, rende autoreferenziale e isolata la comunicazione di esigenze, pensieri e orientamenti giovanili.

La stessa politica è chiusa alla partecipazione di nuove leve, ciclicamente temuta/auspicata e periodicamente annunciata. Quella giovanile rischia di restare solo una questione, almeno in ambito politico: l’età media dei deputati è infatti di 51 anni e di 58 quella dei senatori. La “riscossa dei trentenni” in politica, poi, non solo non c’è mai stata, ma è diventata, nel frattempo, la “questione dei quarantenni”. Non a caso proprio a questi ultimi dedica un’attenta riflessione, corredata da espressive interviste, Michele Cucuzza.

Persino nei media i giovani hanno poco spazio. Eppure tenerli lontani dalla comunicazione è un chiaro infortunio in termini economici e di marketing: in fondo, il generalismo è in crisi perché mancano i giovani, che sono là dove c’è spazio per la comunicazione e la partecipazione, dove si può esprimere un’originale soggettività. Non dove ci sono margini solo per l’ascolto.

Tutto diventa un po’ più chiaro se si osserva l’intreccio tra cambiamenti nell’uso della “vecchia comunicazione” – e cioè il mainstream rappresentato dalla televisione e dalla telepolitica – e l’affermazione graduale della Rete. Anche se la transizione dal vecchio al nuovo si presenta più come continuità che come frattura, il continente giovanile tende a voltare le spalle ai media tradizionali. Così, la comunicazione diventa sempre più un deposito, gonfiato da bisogni di mediazione in larga misura insoddisfatti e dalla crisi di un “paese spaesato” (secondo l’efficace formula utilizzata del presidente della CEI Bagnasco).

Se il primo nodo cruciale della questione giovanile è nel gioco di rappresentazione con il mondo adulto, il secondo è nel dibattito sulla passività politica dei giovani. Quella dell’apatia, infatti, è una metafora senza contenuto.

Parlare di crisi vuol dire non avere parole migliori per descrivere il cambiamento. E questo vale anche per l’apparente distanza dei giovani dalla politica. I dati di indagini nazionali e internazionali (come la European Values Survey, la World Values Survey e le ricerche Eurobarometro) smentiscono, per esempio, l’idea diffusa che esista tra i ragazzi e la generazione dei loro genitori una forte cesura in termini di valori. Il paragone tra il gruppo giovanile (16-24 anni) e quello adulto (dai 54 anni in su) evidenzia un’evoluzione lenta e legittima, non una rottura, né alcuna crisi. Dai dati si desume che i ragazzi sono convinti, per esempio, della necessità dell’autorità, ma vogliono, in modo più sentito rispetto al gruppo adulto, che il comando sia giustificato; riconoscono la distinzione tra bene e male, ma pensano che non sia sempre facile applicare tali categorie a situazioni date; hanno fiducia nella democrazia, ma sono più desiderosi di partecipare attivamente alla gestione politica del paese, pur avendo poca fiducia nelle istituzioni.

In generale, i giovani hanno gli stessi valori degli adulti, pur sembrando più sicuri di sé, più critici e più sensibili alla complessità dei fenomeni. Il tanto discusso gap generazionale sembra superato dalla convergenza negli atteggiamenti e nelle opinioni. E probabilmente la percezione della distanza è influenzata dalla distorsione della lettura dei ragazzi tradizionalmente operata dagli adulti.

Un ulteriore indizio dell’inconsistenza dell’apatia politica dei giovani è nella vittoria del centro sinistra alle politiche, legata a un reimpegno giovanile probabilmente decisivo. Del resto, la Rete non determina in alcun modo la passività della nuova generazione. L’invito di Friedman a mettere da parte le e-mail, le petizioni on line e i click del mouse, per scendere nelle piazze, è cieco ai mutamenti della contemporaneità. Discutibile e anacronistica è anche l’idea che l’attivismo possa funzionare solo alla vecchia maniera perché «la politica virtuale è, appunto, soltanto quello. Virtuale».

Il Web ha favorito, piuttosto, un rigonfiamento dell’attenzione per la politica, soprattutto a ridosso del voto. è da lì che passano nuove forme di comunicazione e voci alternative.

Il mediattivismo giovanile, inteso come insieme di pratiche di azione diretta che usano le tecnologie della comunicazione per promuovere finalità sociali e politiche, contribuisce a smentire l’idea dell’apatia.

Così, se ci sono prove che la nuova generazione non è politicamente invisibile e insensibile, allora significa che sono i linguaggi e gli stili della comunicazione politica che non funzionano. Il cortocircuito comunicativo che la politica italiana sta vivendo in questa stagione diventa più evidente di fronte alla difficoltà di rintracciare elementi di novità nella produzione comunicativa dei partiti, di fronte al protagonismo giovanile negli spazi mediali.

Certo, capire i giovani è complicato. E comunicare con loro è ancora più complesso. Questo accade perché da sempre gli adulti accentuano le distanze dalle nuove generazioni. Ed è così che una comprensione limitata finisce per far apparire le loro azioni come espressioni quasi meccaniche, prive di senso perché comunicate in una lingua che appare straniera.

è vero che i ragazzi assomigliano sempre meno a “come eravamo”, ma lo stacco che registriamo, soprattutto in termini di linguaggi, è allarmante solo se continuiamo a tentare di rimuoverlo.

La crescente distanziazione nelle aspettative di vita e nei valori “praticati” rende necessaria una nuova e più efficiente conoscenza reciproca tra giovani e adulti, soprattutto nel loro ruolo di genitori, insegnanti, decisori pubblici. Non a caso, su questo impegno di rimarginazione dei linguaggi tra le generazioni si impernia la nuova rivista a cui abbiamo dato vita da pochi mesi (“In.formazione. Studi e ricerche su giovani, media e formazione”, Editore Falzea).

Da qui, l’opportunità di comprendere opinioni, aspettative e orientamenti culturali, anche dal punto di vista della loro ambivalenza, ben oltre le apparenze e gli aspetti di superficie o i titoli da “prima pagina”. è urgente l’esigenza di accettarne le contraddizioni, la discontinuità e i segnali deboli rispetto ai protocolli di analisi più consolidati. Non solo per cogliere il volto dei nuovi giovani – quei tasselli di realtà così sfuggenti dietro la rutilante rappresentazione che le nuove generazioni offrono di sé – ma anche per contribuire all’elaborazione di politiche più avanzate e, di fatto, a un dibattito culturale che sappia promuovere la qualità dello scambio intergenerazionale, il gusto quotidiano del gioco delle parti.

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