Netval: L’impatto del trasferimento della conoscenza

Nel delicato processo che vede l’innovazione passare da semplice idea a progetto concreto, l’impatto giocato della ricerca pubblica è fondamentale.

di Matteo Ovi

Laddove lo scorso anno Netval aveva descritto una transizione dal puro trasferimento tecnologico a un più sofisticato trasferimento della conoscenza, quest’anno ha parlato dell’impatto che la ricerca pubblica ha sulle società.

Netval, ricordiamo, è l’associazione che racchiude in sé 54 università italiane, il Centro Italiano di Ricerche Aerospaziali (CIRA), il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), il Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura (CRA), l’ENEA e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN); lo scopo è supportare e valorizzare i risultati delle ricerche condotte presso i vari atenei costruendo un ponte con istituzioni, mondo delle imprese e della finanza. È dunque importante parlare dell’impatto che i suoi membri hanno in questa elaborata rete di contatti.

Se ne è parlato ampiamente in occasione della Summer School 2015 organizzata da Netval, che ha riunito rappresentanti dei principali TTO (Technology Transfer Office) italiani e beneficiato del confronto con esperti di diversi altri paesi.

“Vogliamo generare impatto positivo sulla società, e ne stiamo generando più di quanto raccontiamo”, ha detto in apertura Andrea Piccaluga, Presidente di Netval. “Nell’ottica della valutazione dei finanziamenti da indirizzare ai vari progetti, la capacità di valutarne l’impatto gioca un ruolo fondamentale”.

“Il tema dell’impatto è la ragion d’essere del trasferimento tecnologico, ma dovrebbe essere trasversale a tutti i settori e andrebbe trattato in modo più continuativo, al pari della fluidità con cui avvengono i contatti e le ‘contaminazioni disciplinari’ fra reparti amministrativi e scientifici all’interno dei Knowledge Transfer Office”, ha detto Luca Bardi, Direttore Generale della Scuola Superiore Sant’Anna.

Riccardo Pietrabissa ha espresso la sua perplessità verso la visione diffusa delle università come ‘problem solver pubblico’. “La conoscenza non può essere interpretata come una ruota di scorta dell’innovazione, né come una soluzione a un problema contingente, ma come motore e sistema di anticipazione dei problemi”.

Il monito lanciato da Pietrabissa è stato ribadito a più riprese da diversi ospiti della Summer School. Uno dei principali deterrenti al sano sviluppo tecnologico in Italia è la scarsità di fondi investiti nella ricerca, che limita le possibilità dei ricercatori e porta a progetti conservatori, a basso rischio e con poche possibilità di innovare.

Eppure, per citare l’esempio offerto da Tom Hockaday dell’Università di Oxford, nel caso delle università del Regno Unito, il 20% dei progetti sviluppati ha portato a impatti su economia, società, cultura, policy pubbliche o servizi, ambiente o qualità della vita. È per questo motivo che dal 2014 il REF (Research Excellence Framework), sistema adottato per valutare la qualità della ricerca nelle facoltà universitarie del Regno Unito, presenta fra le voci il fattore ‘impatto’. “L’impatto si può e si deve misurare per ogni stakeholder e territorio, non solo in UK! Le università devono migliorare molto la comunicazione, le pubbliche relazioni e il networking”, ha detto.

Secondo il Dr. Khoen Verhoef del Netherlands Cancer Institute, il problema delle università è che si focalizzano esclusivamente sull’impatto economico e non considerano anche quello sociale. “Ma quale output diamo veramente in cambio dell’input di finanziamenti? La combinazione fra la promozione dell’impatto e il trasferimento tecnologico è una grande opportunità per KTO ed università”, dice.
Occorre quindi identificare gli attori chiave, valutarne l’impatto e raccontarne le vicissitudini, al fine di promuovere e valorizzare l’operato delle università e i risultati della ricerca.

L’impatto è “il contributo dimostrabile della ricerca alla società e all’economia”, ha detto all’inizio della sua presentazione la Prof.ssa Irene Hardill della Northumbria University. Hardill ha sottolineato l’importanza del passaggio dal KT al Knowledge Exchange, che implica co-working, interazione e scambio tra scienziati sociali e stakeholders con una coproduzione di risultati della ricerca. “L’impatto è multidimensionale, funzionale o variabile in funzione delle policy. Si basa su un meccanismo di comunicazione bidirezionale che coinvolge gli stakeholders fin dall’inizio, per cui la comunicazione deve essere semplice, in particolare per i policy makers, al fine di essere realmente efficace”.

Allacciandosi al ruolo della comunicazione, Mario Calderini (Politecnico di Milano e MIUR) ha descritto come l’arrivo di vincoli finanziari abbia spinto verso una necessaria accountability della ricerca nei confronti della società ed una misurazione dell’impatto in senso allargato. “Occorre spostare l’attenzione verso la politica della domanda, con una sfida sociale e la condivisione con tutti gli stakeholders. L’esempio inglese con il passaggio da RAE a REF, cioè dai numeri allo storytelling, impone una revisione degli strumenti anche per la valutazione nazionale”.

La valorizzazione della ricerca è cruciale, ha detto Alberto Silvani del CNR. “Bisogna imparare a brevettare meno, semmai, ma brevettare meglio. Dobbiamo fare un passo in avanti verso la professionalizzazione, e questa non può essere oggetto di decisione autarchica”.

Il concetto è stato ribadito dal Dott. Andrea Paolini, di Toscana Life Sciences. “Dobbiamo poter influenzare il decisore politico, cambiando però il modo di approcciarci ed escludendo istanze personali. Si deve parlare di progetti di sistema. Il cluster e i KTO devono essere facilitatori di sistema, fare piccole cose con forti competenze specializzate. Occorre poi essere presenti sui vari tavoli in modo rappresentativo, con persone competenti che siano dedicate a svolgere dei ruoli strategici per il paese”.

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