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I soldi non fanno la felicità. Neanche la tecnologia aiuta

La tecnologia ci rende felici?

I tecnologi, gli uomini d’affari e molti politici la pensano così, celebrandone la capacità di migliorare le nostre persone, di favorire le conoscenze e di semplificarci la vita. Anche il comportamento quotidiano degli esseri umani sembra rispondere indirettamente alla domanda: se la tecnologia non ci rende felici, perché spendiamo tanto tempo, soldi e fatica per progettare e comprare tutti questi prodotti? Ma la risposta non è così semplice, come James Surowiecki spiega nell’articolo Tecnologia e Felicità, a pag. 46. Le persone sono irrazionali su ciò che favorisce il loro benessere e non possiedono una grande abilità nell’anticipare le loro future preferenze. Considerando quante decisioni sulla scelta delle nuove tecnologie sono basate su poche (e spesso errate) informazioni, non è sorprendente che ci si ritrovi in mano tecnologie che non ci soddisfano.

Le scienze sociali sono rimaste pressoché silenti sull’argomento. Dal 1974, quando Richard Easterlin pubblicò un articolo intitolato Does Economic Growth Improve the Human Lot?

E ancor più di frequente nell’ultimo decennio, gli economisti hanno invece volto la loro attenzione alla delicata questione del complesso rapporto tra ricchezza e felicità. Alcune delle loro riflessioni possono comunque essere utilmente applicate alla tecnologia. Easterlin e i suoi seguaci hanno dimostrato che anche se esiste una forte correlazione tra povertà e sofferenza, non si può comprare la felicità. Malgrado il fantastico sviluppo della prosperità negli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra mondiale, la maggior parte degli americani non è più felice ora che nel 1947 (quando sono cominciate le ricerche sulla felicità). In effetti, secondo i sociologi, il numero di americani che dice di essere «molto felice» è in diminuzione sin dagli anni 1970, anche se i redditi medi di chi era nato nel 1940 erano incrementati del 116 per cento. Ciò dimostra che, quando il reddito personale cresce, la percezione soggettiva dei requisiti minimi per la felicità si dilata a sua volta.

Gli psicologi definiscono questo meccanismo «adattamento edonistico» e sembra funzionare bene anche per la tecnologia. Noi non ci rendiamo più conto della nostra fortuna. Quando hanno fatto la loro comparsa le telefonate internazionali, gli aviogetti di linea, l’accesso a banda larga su Internet, tutti abbiamo pensato che erano cose meravigliose che facilitavano la nostra vita, ma, appena i loro prezzi sono caduti e sono diventate di uso comune, hanno perso quell’aura di unicità che avevano. In un breve volgere di tempo abbiamo iniziato a irritarci se non funzionavano perfettamente.

Siamo quindi veramente più felici con le nuove tecnologie? Da una parte, sì (immaginate di fare a meno, voi che siete edonisticamente adattati a questo mondo, di tutte le vostre cose). Dall’altra parte, no. Gli economisti che si occupano di felicità hanno mostrato che all’aumento dei redditi non corrisponde altrettanto benessere. A eccezione dei più ricchi (i «Forbes 400» riferiscono di essere veramente molto contenti), le persone che lottano strenuamente per raggiungere la ricchezza non mostrano alcun significativo aumento del loro stato di benessere. Alcuni economisti della felicità avanzano l’ipotesi che il «consumo quasi invisibile» , cioè gli investimenti in salute, famiglia o comunità , abbia un maggior ritorno in termini di felicità dell’acquisto di case o macchine.

Lo stesso accade con le nuove tecnologie. Comprare l’ultima versione di un apparecchio non garantisce soddisfazione: già si sa che entro pochi mesi ci sarà un modello ancora più avanzato di quell’oggetto. Ma alcuni consumi tecnologici hanno delle caratteristiche differenti. Le tecnologie Internet di ricerca o di rete comunitaria sono legate all’informazione e toccano sfere che riguardano le nostre conoscenze e le nostre relazioni sociali. La biotecnologia e la sanità garantiscono una qualità migliore della vita. Un acquisto che non delude mai.

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