Scienziati e/o Ingegneri?

A proposito delle polemiche sulla immortalità

di Gian piero Jacobelli

Aubrey de Grey ci promette il massimo: di vivere, se non per sempre, almeno quasi quanto Matusalemme. Promessa seducente oltre ogni altra, anche se il problema non consiste in quanto si vive, ma in come si vive e, forse, in come si muore.

Le polemiche suscitate da questa promessa di una mortalità differita, che potrebbe sfociare in una sorta di immortalità – in fondo, cosa è l’immortalità se non la dimenticanza della propria nascita? – dimostrano come sulla vita e sulla morte non si possa scherzare, perché concernono problemi relativi non soltanto ai saperi, ma anche ai significati che ciascuno di noi conferisce alla vita e alla morte. Non a caso, lo stesso de Grey, nonostante rivendichi spesso un ruolo sostanzialmente ingegneristico, di implementazione dei saperi, non rifugge da atteggiamenti quasi profetici, caratterizzati dalla supponente intolleranza di chi si rappresenta la scienza più come una missione che come una ricerca.

Tuttavia, queste polemiche prescindono dalle stesse posizioni oltranziste e predicatorie di de Grey per mettere in luce quanto lo stesso pensiero scientifico, nelle sue intrinseche articolazioni, sia strutturali sia funzionali, resti condizionato dalla propria intrinseca incapacità di rappresentarsi come un luogo comune, condizionato e condizionante, piuttosto che come una sorta di società segreta, riservata a pochi eletti e soprattutto vincolata a rituali talvolta mortificanti. Evidentemente la ormai matura consapevolezza delle ragioni comunicative della ricerca scientifica, di quello che è stato anche chiamato “modello retorico della scienza”, con la connessa esigenza di un controllo sociale della scienza stessa, continua a cadere nel vuoto.

Forse è vero che, al di là delle sue crisi vere o presunte, la scienza continua a porsi come la religione del nostro tempo, se non altro nella misura in cui spesso e volentieri rivendica un fondamento assoluto, per altro apparentemente estraneo alla sua vocazione relativistica. Questa sostanziale contraddizione trapela con sufficiente evidenza nei risultati della singolare “sfida” di cui si parla nella pagine che precedono e che mirava proprio a evidenziare, in maniera scientificamente attendibile e non frutto di opinabili valutazioni soggettive, eventuali aporie implicite nel progetto, o forse sarebbe meglio dire nel programma di de Grey.

In effetti, come ha rilevato la giuria della sfida, anche gli studiosi che con maggiore impegno e serietà hanno cercato di confutare il “senso” di SENS – così si chiama il programma per allungare la vita, ritardando l’invecchiamento – hanno finito per cadere in un equivoco caratteristico della ideologia scientifica, quello di “etichettare” come “pseudoscientifico” ciò che per definizione non è scientifico. De Grey, infatti, non si presenta come il fondatore di una nuova scienza, né tanto meno di una pseudoscienza, categoria epistemologica che dovrebbe accomunarla all’astrologia, alla telepatia, alla precognizione e via dicendo. SENS si propone semplicemente – si fa per dire – di ingegnerizzare alcune ipotesi (sette, per la precisione, come si evince dalla intervista pubblicata dalla edizione italiana “Technology Review”, nel terzo fascicolo del 2005, e se mai ci sarebbe da chiedersi perché, se non per qualche cabalistico condizionamento, sette e non otto o nove) già variamente emerse o affermate nelle scienze biologiche. Ingegnerizzare comporterebbe, quindi, che tali ipotesi si rivelassero corrette e affidabili, che uscissero dai laboratori e si trasferissero negli studi medici, che soprattutto si rivelassero fra loro compatibili e complessivamente sufficienti a raggiungere il mitico obiettivo in cui de Grey si è riconosciuto.

Ovviamente si può, anzi si deve discutere se il progetto di ingegnerizzazione di de Grey risulti attendibile e praticabile, non soltanto in teoria, ma anche alla prova dei fatti (il computer continua a correggere in “fati” e forse significa qualcosa). Tuttavia, come sottolineano gli esperti di “Technology Review”, chiamati a valutare le critiche che i gruppi concorrenti avevano mosso a de Grey, questa operazione di verifica e di controllo non ha realmente avuto corso, mentre si è preferito ricorrere a obiezioni di tipo epistemologico – che cosa sia la scienza, la non-scienza, la pseudoscienza – che facilmente tracimano verso posizioni di tipo ideologico, relative, per esempio, a chi abbia facoltà e capacità di giudicare un caso del genere. Perché a ben vedere – e questo è l’argomento di queste riflessioni a margine – il problema di SENS è quello di attraversare longitudinalmente molte discipline che restano tradizionalmente arroccate nei loro laboratori e che, nonostante la loro comune appartenenza alla scienza della vita, restano insediate su livelli epistemologicamente diversi e talvolta estranei, dalla genetica alla biologia molecolare, dalla fisiologia cellulare alle patologie metaboliche, concernenti non questo o quel sistema corporeo, ma il corpo nel suo insieme.

Per altro, al di là di considerazioni specialistiche afferenti all’uno o altro dei campi di ricerca chiamati in causa, lo stesso programma di de Grey sembra rimuovere, a livello pratico e a livello teorico, il problema della “commistione dei generi”, che ne costituisce il fattore qualificante: a livello pratico, perché molti dei necessari sviluppi disciplinari, da lui ipotizzati, rappresentano poco più che utopie scientifiche; a livello teorico, perché ciò che sembra mancare è proprio una visione globale del corpo vivente, nei suoi diversi equilibri non soltanto biologici, ma anche sociologici e in genere antropologici. Da questo punto di vista, l’uomo immortale, o quasi, propugnato da de Grey, appare più simile al mostro di Frankenstein, composto di arti e organi disparati, assemblati insieme a congegni artificiali, che dovrebbe funzionare solo grazie a qualche intervento, questo si, peseudoscientifico.

Ciò non toglie, tuttavia, che sia inutile e inopportuno rispondere alla sua provocazione arroccandosi sulle più scontate assunzioni corporative ed evitando di coglierne l’indicazione più pertinente, anzi una duplice indicazione. La prima, relativa alla inevitabile integrazione di linee di ricerca che cominciano a manifestare i danni di una eccessiva specializzazione, in parte dovuta a autonomi sviluppi concettuali e metodologici ma in parte legata anche a esigenze di finanziamento che infeudano questa o quella linea a logiche di settore. La seconda, che si riassume in una parola chiave della polemica suscitata da de Grey, quella di “ingegnerizzazione”, cioè l’esigenza che la ricerca si proietti prima o poi sulle esigenze concrete della vita, dandosi obiettivi comprensibili a tutti e con cui tutti possano confrontarsi. Per esempio, alcuni recenti dibattiti, anche in Italia, ci lasciano intendere come la vita non sia sempre degna di essere vissuta e come talvolta la morte possa rivendicare una dignità maggiore della vita: tutti dibattiti che valgono nella misura in cui escono dai laboratori per attingere alle coscienze individuali.

Il discorso sulla ingegnerizzazione chiama in causa istanze che non si limitano alla finalizzazione degli investimenti, ma concernerono la logica stessa di questi investimenti, in ordine a quella nozione di “responsabilità” che, dopo i mea culpa degli scienziati atomici negli anni Cinquanta e le ripetute predicazioni sul debito ecologico verso le generazioni future, non sembra avere fatto molti passi avanti, se non nella magistrale, ma piuttosto inascoltata riflessione di Hans Jonas. Anzi, questa istanza etica, che tende ad accomunare i suoi protagonisti nel tempo e nello spazio, viene spesso rimossa e sostituita da una istanza meramente morale, che tende invece a dividere, come purtroppo si può constatare sempre più frequentemente.

A proposito della deontologia degli “ingegneri”, di quanti impersonano e interpretano il mito di Dedalo, si diceva una volta che le ali di Icaro non soltanto devono funzionare, ma devono pure resistere al calore del sole. In altre parole, non basta produrre cose utili, ammesso che nel caso di de Grey l’immortalità sia una cosa utile, ma bisogna fare in modo che queste cose resistano al lavoro da compiere. Per questo motivo, l’obiettivo degli ingegneri appare assai diverso da quello dei ricercatori, sia perché agli ingegneri è richiesta una sintesi tra teoria e prassi che nella ricerca potrebbe rivelarsi persino dannosa, sia perché – ed è questa la considerazione eticamente più importante – gli ingegneri sono tenuti a guardare lontano: lontano, nel senso di uscire dai laboratori per ritrovare nei valori d’uso la portata antropologica di ciò che si propone al mercato; lontani, nel senso di sforzarsi di prevedere le conseguenze di ogni innovazione. Come si diceva una volta, infatti, la complessità è sempre in agguato, con i suoi colpi di coda, le sue contraddizioni in termini, i suoi feed-back imprevedibili.

Insomma, la finalizzazione assume in ogni caso un valore trasgressivo, perché si muove attraverso ripartizioni consolidate, perché pone in discussione il senso immediato delle allocazioni di risorse. Perché, infine, affida lo scioglimento dell’alternativa tra il sic e il non – per riprendere il celebre titolo delle questiones medioevali di Abelardo – più al futuro che al passato.

Trattandosi di de Grey, sarebbe persino inutile concludere affidando ai posteri l’ardua sentenza, visto che per de Grey i posteri potremmo essere noi stessi. Ma, fuori di celia e anche di ogni giudizio di carattere tecnico e scientifico, va sottolineato come il giudizio salomonico degli esperti di “Technology Review” rifletta non tanto il caso in sé, ma quello di chi, chiuso nel proprio particolare, giudica con difficoltà qualcosa che mette in questione questo stesso particolare. Succede a tutti. L’errore da evitare – un errore che, nel suo mettere insieme, neppure de Grey evita – è quello di credere che tante prospettive particolari possano comporre una prospettiva generale.

Non si dimentichi, a questo proposito, che quando Aristotele sentenziò, entrando in proverbio, che una rondine non fa primavera, non si riferiva alle successioni stagionali, ma al consolidamento del nostro modo di essere, perseverando e promuovendo una creativa amicizia con gli altri. Non voleva dire, infatti, che tante rondini facessero primavera, ma che è la primavera a portare con sé le rondini.

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