Sotto il libro, qualcosa

La protesta degli studenti che usano i libri come scudi riguarda la formazione,
ma anche la mediamorfosi che stiamo attraversando.

di Gian Piero Jacobelli 

Dopo avere diviso in sequenze il suo genoma, James Lupski ha scoperto le mutazioni che hanno causato una malattia neurologica di cui egli e i suoi tre fratelli soffrono.

FOTOGRAFIA: MATTHEW RAINWATERSTutti i giornali l’hanno pubblicata, quella grande fotografia in cui i giovani della protesta studentesca si riparavano dietro scudi di legno, cartone e gommapiuma, sui quali erano raffigurate le copertine di alcuni libri famosi. A parte il senso della protesta, sempre sul bilico delicatissimo della negoziazione tra diritti e doveri, e a parte la nostra spontanea adesione a ogni iniziativa che comporti comunque una rivendicazione a favore dell’interesse e dell’impegno culturale, proprio la spettacolarità di quella sorprendente attualizzazione di segni apparentemente ormai obsoleti può suscitare qualche perplessità in chiunque, sulla scorta della classica opera di Guy Debord, ritenga che, nella società dello spettacolo, anche le contestazioni contro lo spettacolo diventino una componente dello spettacolo stesso. Tuttavia, non si può non riconoscere come, ogni qualvolta i giovani passano da un ruolo subordinato a un ruolo antagonistico, anche nel contesto accademico, la loro creatività assuma una incisività e una apertura di orizzonte che raramente si ritrova negli stessi professionisti della comunicazione promozionale. Chi non ricorda la Pantera e l’Onda di qualche anno fa? Allora il movimento studentesco s’ispirò a una natura che simbolicamente sembrava rialzare il capo per confortare e corroborare la reazione di una generazione che sempre più chiaramente si sentiva condannata a diventare perduta. Oggi questa generazione non ha più voglia di restare fuori, nella sauvagerie di riferimenti ecologicamente connotati (la pantera e l’onda, appunto), ma cerca di recuperare un sacrosanto diritto alla parola dall’interno stesso di quegli apparati strumentali che ormai da duemila anni quella parola hanno monopolizzato e che Michel Foucault chiamava l’ordine del discorso.

Dove sono i classici antichi e moderni?

Tutti i commentatori hanno rilevato la originalità del farsi scudo con la cultura contro chi la cultura vorrebbe se non conculcare, certamente irreggimentare, ma pochi si sono davvero soffermati su quale cultura fosse scesa in campo grazie alla fantasia e alla intraprendenza dei giovani studenti delle nostre università, forse ancora più vituperate che decadute. Persino gli stessi protagonisti di quella singolare opposizione si sono limitati ad affermazioni piuttosto generiche, che sorprendentemente, invece di affermare una qualche logica reattiva nei titoli prescelti, si riferivano a una sorta di casualità, espressione forse della inevitabile prevalenza delle culture famigliari, ai quali i nostri giovani continuano a fare riferimento, o della editoria culturale che sempre più spesso e un poco avventurosamente affolla le edicole, facendo concorrenza a quotidiani e periodici con sorprendenti rivisitazioni dei magazzini culturali. Insomma, a scorrere i titoli che hanno fugacemente sfilato nelle strade delle nostre città già imbrattate dalle schizofreniche scritte dei writers e dalle fatue, ma arroganti messaggerie pubblicitarie, questa sollevazione culturale a difesa della cultura esponeva un volto in maschera: la maschera della occasionalità o addirittura della convenzione e non tanto, come si è scritto e letto, perché vi si poteva trovare di tutto e di più, quanto perché al contrario vi si trovava assai poco e quel poco con il tenue sentore di muffa dei libri ripescati in cantina.

Registriamo in proposito la interessante e pertinente considerazione di Maurizio Ferraris, filosofo tra i più brillanti della generazione di mezzo, che, sulla Repubblica, notava l’assenza della cultura mediatica, televisiva e giovanile: un’assenza, tuttavia, che non farebbe pensare tanto alla intenzione di sottrarsi all’assedio della volgarità della comunicazione di massa, quanto al gesto rapido e inconsulto di chi, non sapendo cosa mettersi, prende a caso un maglione nell’armadio del padre – in questo caso nella libreria del padre – e via di corsa perché gli amici ne sollecitano la presenza al quartier generale. Insomma, per quanto si può giudicare dai riscontri fotografici, non ci sembra di cogliere alcuna meditata risposta generazionale al ricorrente interrogativo su cosa siano i classici: dal canone occidentale, per dirla con Harold Bloom, ai grandi libri della Enciclopedia britannica, dai Classici della Utet alla Collana Ricciardi, per tornare a casa. Tra l’altro, si tratta in questo caso di selezioni significative anche perché filosofia e letteratura si spartiscono l’onore della ribalta con quelle “scienze naturali” che, per quanto possiamo vedere, risultano sorprendentemente assenti dall’antologia dei nostri studenti, anche quando si sarebbero decisamente prestati, avendo contribuito alle epocali rivoluzioni culturali del Medioevo, del Rinascimento e della modernità.

Anche la scienza latita tra i libri della rivolta

Tra i “libri della rivolta” se ne trovano alcuni che possono venire concepiti come rivoluzionari soltanto perché sono, appunto, dei libri, in un momento in cui il libro viene considerato dai frenetici smanettatori elettronici come un residuo archeologico di difficile interpretazione. Repubblica di Platone insieme al Satyricon risulterebbero gli unici rappresentanti del pensiero classico per antonomasia, anche se, evidentemente, secondo due inconciliabili punti di vista: quello istituzionale, nel primo caso, quello trasgressivo nel secondo. Il boccaccesco Decamerone, il machiavellico Principe e il sempreverde Don Chisciotte s’iscrivono nell’età di mezzo, quella della nascita del libro come noi lo concepiamo, ma con un diverso equilibrio dal momento che questa volta la trasgressione è quella istituzionale e la istituzione è quella trasgressiva. Per il resto, davvero titoli da edicolanti della domenica, in cui Il tropico del cancro di Henry Miller si spartisce gli onori della cronaca con Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcìa Marquez e con l’ormai inevitabile Gomorra dello showman Roberto Saviano. Forse il vero colpo di genio è quello di Moby Dick di Herman Melville, senza dubbio il testo più sconvolgente dei tempi moderni nella prospettiva della stessa postmodernità, con quella balena bianca che tormenta ancora i nostri sogni e i nostri segni, perché dobbiamo mantenerla in vita per poterla continuare a combattere. Facevano la loro comparsa anche alcuni romanzi del secolo breve, in particolare L’isola di Arturo di Elsa Morante , forse per la ricorrenza della scomparsa, che ne sta rilanciando una fama meritata , o Q del collettivo Luther Blisset di “destabilizzatori del senso comune”, che se non altro allude a quel discorso da farsi insieme in cui si può individuare davvero un principio di rinnovamento culturale.

Per altro, e questo è il punto che più ci ha sorpreso perché più ci riguarda, non c’è un solo testo di scienza o comunque afferente al pensiero scientifico, di quelli che hanno rivoluzionato la conoscenza non soltanto dell’Occidente: dal Dialogo dei massimi sistemi di Galileo Galilei a L’origine delle specie di Charles Darwin, facilmente reperibili anche in edizioni economiche. Non si trova traccia di Sigmund Freud o di Albert Einstein, per citare le pietre miliari della rivoluzione moderna dell’uomo e del mondo, né di Georg Simmel o di Ferdinand de Saussure, per restare nel campo più a portata di mano delle scienze umane. C’è Gilles Deleuze, senza Félix Guattari come ha fatto notare Ferraris, chi sa perché, ma anche la filosofia appare largamente assente e altrettanto assente, sorprendentemente, ci sembra la poesia. Purtroppo i nostri giovani forse leggono ancora qualcosa che noi chiamiamo classici, ma quando si tratta di sentimenti in versi preferiscono dichiaratamente i cantautori, che per altro anche i nostri media culturalmente più accreditati non disegnano di definire geniali, preferendoli spesso non solo a Eugenio Montale, ma anche a Giovanni Pascoli.

Mediamorfosi e molteplicità dei media

Ma allora, se almeno dal punto di vista delle scelte culturali non si tratta di una protesta contro la cultura mediatica né contro la cultura popolare, di quale protesta si tratta? O almeno, al di là della sua portata contingente di carattere politico, cosa può dirci questa protesta comunque singolare in merito alla mediamorfosi contemporanea? Per riprendere il titolo di un recente supplemento domenicale del Sole 24 Ore nel nuovo formato tabloid, potremmo ipotizzare che la protesta concerna proprio il “mondo e-book”. In effetti, come rileva in quel supplemento Gino Roncaglia, il libro non è soltanto “un meraviglioso strumento per la trasmissione della cultura”, ma anche “un prodotto tecnologico le cui caratteristiche si sono evolute nel tempo” e questa è stata ed è la sua vera forza. In effetti, il libro come oggi lo conosciamo, nella sua consistenza cartacea, è già di fatto un prodotto di tecnologie digitali e anche la sua distribuzione potrebbe avvenire e talvolta avviene per il tramite della Rete, che ne consente una stampa per così dire privata e domestica.

Non avrebbe senso combattere una tendenza che ormai sta facendo passi da gigante e che soprattutto allungherà ulteriormente il passo quando, invece di limitarsi a trasferire digitalmente ciò che è ancora pensato per la carta, si cominceranno a vedere i veri e-book e verranno risolti gli attuali problemi normativi e di-stributivi. Ma forse è un altro il problema che trapela dal gesto quasi istintivo dei giovani studenti che si difendono dietro a qualcosa che tende a diventare marginale nella loro esperienza quotidiana, ma che evidentemente resta intuitivamente im-presso nella loro domanda di conoscenza: il problema della “memoria”, che un altro brillante filosofo, Roberto Casati, ha segnalato nello stesso contesto. Perché, se ha ragione Marshall McLuhan che “il medium è il messaggio”, il passaggio dal libro cartaceo al libro elettronico non sta comportando soltanto una metamorfosi comportamentale, ma anche una metamorfosi epistemologica. Nel problema della memoria la pratica della lettura tradizionale si associa a quella della rielaborazione e della sistematizzazione della informazione, che richiede di “cambiare formato, come quando si prendono appunti a margine, o si ricopia a mano, o si stila un riassunto, o anche soltanto si legge ad alta voce”. La memoria richiede una commutazione di codice a cui la convergenza digitale minaccia di sottrarre occasioni e strumenti, nel contesto di una multimedialità che in realtà si riferisce a un solo medium per “messaggi e massaggi” intenzionalmente diversi.

Se questo è il problema, e noi pensiamo che lo sia, allora quegli straordinari simulacri di libro, più che a una cultura convenzionale e tutto sommato assai poco eversiva, fanno riferimento alla volontà di non lasciarsi omologare dal potere, sia quello politico, sia quello tecnologico, nei confronti del quale è importante conservare una possibilità di diversità e di scelta. Non soltanto in merito a cosa leggere, ma anche e forse soprattutto a come leggere: in piedi, seduti, camminando, ma anche riflettendo, ripensando, rielaborando, nella programmatica libertà di una pratica che per la sua stessa natura ha sempre presupposto una presa di distanza dalla fonte della informazione e, in questo caso, anche dal suo supporto. Perché, se il medium è il messaggio, non bisogna dimenticare che, almeno per quanto concerne la nostra vita di relazione, il messaggio è il medium.

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