Tissue engineering

di Alessandro Ovi

Fino a dieci anni fa si pensava che i tessuti umani potessero essere rimpiazzati solo con trapianti diretti da donatori, o con parti completamente artificiali, fatte di metalli, plastica e circuiti elettronici. Per far fronte alla scarsità di organi umani da trapiantare, ci si orientava a utilizzare organi di animali.

Anche se le prime ricerche erano iniziate già negli anni Settanta, l’idea di utilizzare organi ibridi, combinazione di cellule viventi e di polimeri artificiali o naturali che facessero loro da supporto, non era ancora emersa in modo concreto. Poi all’inizio degli anni Novanta, grazie al lavoro molto creativo di ricercatori provenienti dal mondo della medicina e della ingegneria, si è cominciato a prendere coscienza del fatto che la costruzione di «bioibridi» era possibile; è così nata l’ingegneria dei tessuti, tissue engineering, che è diventata, rapidamente, non solo un importantissimo filone di ricerca, ma anche oggetto di rilevanti investimenti.

Normalmente si considerano come appartenenti all’ingegneria dei tessuti tutti quei processi che: combinano cellule viventi e biomateriali; utilizzano cellule viventi per terapia o diagnostica; generano tessuti o organi in vitro per poi impiantarli in vivo; forniscono materiali e tecnologie per rendere possibili questi processi (tra questi sono inclusi la clonazione terapeutica, la medicina rigenerativa e l’organogenesi basata sulle cellule staminali).

Sono definiti «biomateriali» quelli che vengono utilizzati per dare un sostegno fisico alle cellule e per guidarle nella loro crescita tridimensionale; debbono fornire tutti i segnali necessari alle cellule per differenziarsi e interagire, attorno alla struttura desiderata, e, allo stesso tempo, debbono lentamente degradarsi in composti fisiologici man mano che il nuovo tessuto si forma e si integra nei tessuti del paziente.

Vi sono tre modi diversi di rifornirsi di cellule: dal paziente (cellule autologhe), da un donatore diverso dal paziente (cellule allogeniche), da specie diverse (cellule xenogeniche).

Un tipo specifico di cellule, quelle staminali (definite anche progenitrici perché in grado di generare molti tipi di cellule in quanto non ancora differenziate), possono derivare dal paziente o da un altro donatore (cellule staminali adulte) o da embrioni.

La caratteristica che ha reso l’ingegneria dei tessuti diversa da molti altri settori high tech, è stata che il suo sviluppo iniziale non ha tratto beneficio tanto dalla ricerca accademica, quanto soprattutto da quella industriale, finanziata dal venture capital.

Una idea di questo fenomeno la danno pochi dati significativi: all’inizio del 2001 la ricerca e lo sviluppo in tissue engineering erano arrivate a impegnare 3.300 ricercatori in più di 70 nuove società, 16 delle quali in Europa e Australia, con una spesa complessiva di 600 milioni di dollari nel 2000 e una crescita annua del 16 per cento a partire dall’inizio degli anni Novanta. Il 60 per cento delle nuove società si occupa prevalentemente dello sviluppo di applicazioni strutturali (pelle, cartilagine, ossa, protesi cardiache eccetera); il secondo segmento per importanza è quello della terapia cellulare che segue due linee distinte: l’utilizzo di cellule staminali per clonazione terapeutica e organogenesi in vitro e il processamento cellulare extracorporeo.

Nel 2002, come in tutto il mondo high tech, è scoppiata la crisi; la borsa è crollata, la raccolta di capitale di rischio è diventata praticamente impossibile e le spese di ricerca hanno dovuto subire pesanti tagli o rinvii. I fallimenti, alla fine del 2002, di Advanced Tissue Sciences e di Organogenesis, società leader nello sviluppo di pelle prodotta con l’ingegneria dei tessuti, è stato il segnale più visibile che le cose non andavano bene. Ci si è accorti che il tempo necessario per arrivare a nuovi prodotti era stato sottostimato e così i costi; si era rapidamente creata una spaccatura tra le attese espresse dai business plans e la concreta realizzazione dei progetti su cui i venture capitalists avevano puntato. Molti si resero conto allora che erano necessari un maggior sforzo di ricerca di base e un contributo accademico più profondo.

Questo è successo in modo straordinariamente rapido e le grandi università sono entrate in campo con varie linee di ricerca. Il maggior bisogno di nuova conoscenza si è sentito nella biologia cellulare. Il tissue engineering, infatti, si era creato una base solida di conoscenze nei biomateriali, ma non abbastanza nelle bioscienze delle cellule.

Il cambiamento di rotta ha trovato una spinta particolare da due fatti nuovi; il primo è stato la mappatura del genoma umano che assicura una conoscenza molto più completa delle cellule e del loro comportamento. Fino a oggi le culture di cellule erano state più un’opera di artigianato che di scienza, e questo dopo il genoma è destinato a cambiare.

Il secondo è la comprensione più profonda del fenotipo delle cellule, ovvero del modo in cui avviene la loro differenziazione verso quelle di un organo specifico. Si era sempre pensato che una cellula che avesse cominciato a differenziarsi non potesse cambiare cammino. Poi si è capito come effettuare il trasferimento del nucleo, è diventata possibile la riprogrammazione del DNA per esprimere più cammini di possibile differenziazione.

La conseguenza di questi sviluppi nella biologia cellulare è che si fa molta più ricerca di base rilevante per l’ingegneria dei tessuti, e viceversa. Da questo incremento della ricerca di base ci si aspettano conoscenze assai più solide che nel passato per procedere allo sviluppo di applicazioni utilizzabili commercialmente. La speranza è che questo processo riesca a far uscire gli investitori in tecnologie biomedicali dalla quasi apatia in cui sono caduti. I primi segni di ottimismo sono percepibili, ma comunque è bene secondo molti puntare su tipi di sviluppo che portino la ricerca accademica, non commerciale, più vicino a prodotti utilizzabili nella pratica medica, al fine di dare all’investitore privato un orizzonte di pianificazione più limitato e meno incerto di quelli del passato.

Sul fronte della ricerca, quello della ingegneria dei tessuti è un campo dove non esiste un distanza significativa tra Europa e Stati Uniti. Il grafico nella figura 1 che riporta il numero delle pubblicazioni scientifiche originate in UE, USA, Giappone lo mostra chiaramente. Guardando il dato degli istituti universitari e di ricerca, con il maggior numero di autori, la leadership è chiaramente americana con Harvard, MIT, Michigan University e Pittsburg University ai primi posti. In Europa 12 istituzioni di tre stati membri sono presenti tra le prime 50: Regno Unito (University College London), Germania (Humboldt University, Università di Monaco, Heidelberg, Friburgo, Amburgo, Rosenburg, Hannover Medical School, TH Aachen), Olanda (Università di Nijimnegen, Erasmus University).

Un secondo confronto interessante è riportato nella figura 2 dove viene riportata l’analisi del numero di collaborazioni tra pubblico e privato, e quindi sostanzialmente tra università e aziende. Per gli Stati Uniti la percentuale di lavori fatti in cooperazione supera a partire dal 2000 il 30 per cento mentre in Europa non arriva al 15 per cento e in Giappone è attorno al 5 per cento. Le ragioni alle spalle di questo dato non sono chiare e forse vanno ricercate nella mancanza in Europa e Giappone di una organizzazione forte della comunità dell’ingegneria dei tessuti. Comunque, i lavori in cooperazione stanno crescendo in modo rilevante sia in Europa sia negli Stati Uniti e questo dovrebbe significare che la multidisciplinarità necessaria a progredire nell’ingegneria dei tessuti richiede una crescente collaborazione nella ricerca tra istituzioni diverse.

Di fatto, alla frontiera più avanzata della integrazione tra ricerca accademica e lo sviluppo industriale si collocano due grandi scienziati, entrambi, oggi, attivi a Boston: Robert Langer al MIT e Joseph Vacanti al Massachussetts General Hospital.

Robert Langer, docente di chimica e di ingegneria biochimica può essere descritto con pochi numeri: vincitore nel 2002 del Draper Prize, considerato il premio Nobel per gli ingegneri, per essere uno degli inventori più prolifici al mondo nella ingegneria biomedica, ha pubblicato 775 articoli e depositato più di 500 brevetti. La sua influenza si estende grazie ad allievi in tutto il mondo che anche giovanissimi sono in grado di riprodurre nei loro laboratori la sua grande creatività. Tra questi Jennifer Elisseeff, 29 anni, già professore al Department of Biomedical Engineering della Johns Hopkins University di Baltimora. Elisseeff sta sviluppando una tecnologia, giudicata tra le dieci più importanti innovazioni, qualche mese fa, da «Technology Review»; una tecnica che permetterà di ricostruire cartilagini nelle giunture affette da artrite, con iniezioni di polimeri e cellule staminali senza interventi chirurgici.

Joseph Vacanti, Jay per i colleghi, 55 anni, è direttore del laboratorio di tissue engineering e di fabbricazione degli organi del Mass General Hospital, oltre che capo chirurgo, direttore della chirurgia pediatrica e dei trapianti pediatrici. è il maggiore di quattro fratelli, tutti medici e tutti operanti ad altissimo livello, ai confini tra medicina e ingegneria. Un gruppo di famiglia incredibile, completato da tre sorelle, nato da una coppia siciliana emigrata a Omaha in Nebraska. Vacanti ha scritto 190 articoli e detiene 88 brevetti. Con lui ha collaborato anche Nadia Rosenthal, italiana, scienziato di punta nell’ingegneria dei tessuti nel nostro paese, coordinatore del programma di ricerca sui topi dello European Molecular Biology Lab di Monterotondo.

Un cenno infine a uno degli aspetti che potranno essere più critici per lo sviluppo dell’ingegneria dei tessuti: la regolamentazione del settore presenta non solo aspetti rilevanti dal punto di vista della protezione del consumatore, ma anche dell’etica e del rapporto con diverse posizioni religiose nel mondo.

In Europa al momento non vi sono regole specifiche per i prodotti derivati dall’ingegneria dei tessuti ma il dibattito, soprattutto sull’uso delle cellule staminali embrionali, è molto acceso. Nel 2002 la Commissione Europea ha pubblicato una proposta di direttiva per definire standard di qualità e di sicurezza per la donazione, l’acquisto, la sperimentazione, la produzione e la distribuzione di cellule umane e di tessuti da utilizzare nell’uomo. Anche le cellule staminali embrionali, se il loro uso verrà autorizzato, ricadranno in questo quadro di regole.

Negli Stati Uniti la Food and Drug Administration ha iniziato già nel 1997 un Tissue Action Plan, per inquadrare in un contesto omnicomprensivo la regolamentazione esistente . Nel 2001 ha pubblicato Human Cells, Tissues and Cellular Based Products; Establishment, Registration and Listing che richiede a tutti i produttori di essere registrati e di depositare una lista dei propri prodotti. Vengono fissate regole per lo screening di fattori di rischio legati a malattie contagiose, sulle cellule e sui loro donatori; vengono poi definiti standard per i metodi utilizzati, le attrezzature e i controlli di qualità.

Nel suo complesso la regolamentazione americana non solo è più organica di quella europea ancora in via di definizione, ma ha anche il vantaggio, essendo una sola in tutto il paese, di offrire un mercato omogeneo assai più ampio. Ancora una volta, anche in un settore completamente nuovo come quello dell’ingegneria dei tessuti, si vede la necessità di «più Europa» per essere competitivi a livello globale.

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