Un disegno creativo

Nell’ambito di una natura che si crea e si ricrea incessantemente, a quale ruolo è chiamata la tecnologia? A rendersi interprete della natura o a procedere oltre, in una nuova dimensione creativa?

di Gian Piero Jacobelli

Le parole sono pietre, come suggeriva Carlo Levi: pietre che possono colpirci, ma che restano comunque indispensabili per “costruire” la realtà. Lo rilevava Jean Starobinski a proposito di due parole cruciali che hanno presieduto alla nascita della scienza moderna, “azione” e “reazione”, che per lungo tempo hanno continuato a “determinare le nostre emozioni”, anche se non sempre nello stesso modo. In effetti, se “è stato il successo scientifico di queste parole a diffonderle”, a “mescolarle al vocabolario dell’esperienza vissuta” ha provveduto “il modo in cui i romantici hanno trattato l’azione e la reazione”, nel “tentativo di reincantare il mondo a partire dai termini che avevano contribuito a disincantarlo” (Azione e reazione, 2001, p. 284).

Considerazione di grande rilievo culturale, che si addice anche all’altra diade terminologica del pensiero scientifico occidentale, quella di “forma” e “forza”: dalla forza di gravità newtoniana (con il connesso paradosso dell’azione a distanza, che tanto ha fatto speculare sulla natura eterea o corpuscolare della forza stessa) alla geometria einsteiniana (che ha capovolto i termini del problema, concependo le relazioni tra i corpi come la espressione delle caratteristiche spazio-temporali del mondo).

La natura e la tecnica

Anche nel caso della forma e della forza, lo scambio dei ruoli consente di cogliere tanto la reciproca inerenza dei due concetti, quasi che l’uno rappresenti l’ombra dell’altro, quanto la funzione ideologica di cui le parole si fanno carico, quando rappresentano emblematicamente le diverse visioni del mondo. Per esempio, di forma ha parlato Denis Diderot, in quello snodo culturale tra illuminismo e romanticismo, in cui si manifesta, come recita il titolo di una mostra assai suggestiva attualmente allestita al parigino Musée d’Orsay, L’ange du bizarre, vale a dire il coté noir che dal secolo dei Lumi si proietta sulle ambigue convulsioni postmoderne.

Da un lato, la forma come espressione dell’ordine sostanziale, che garantisce la possibilità della conoscenza, dall’altro lato la forza come espressione della occasionalità dell’evento, che garantisce la possibilità di procedere oltre la gabbia dell’autoreferenzialità, perché “non vi è che una maniera di essere omogenei, mentre vi è una infinità di maniere possibili di essere eterogenei”. Cogliendo la contraddittorietà del processo conoscitivo, che può conoscere la realtà soltanto “formalizzandola” e disconoscendone la “difformità”, Diderot prospetta la tensione dialettica tra natura e tecnica, che ancora oggi ci interpella: se cioè le operazioni della tecnica non possano “portare più oltre”, verso quanto la natura “abbandonata a se stessa” non ha mai sperimentato in “alcuna combinazione”.

La relazione tra la forma e la forza tende dunque a trascorrere dalla forza della forma, che cristallizza il mondo come le ali di una farfalla sul vetrino del microscopio, alla forma della forza, alla capacità di rimodulare le potenzialità della realtà non andando contro natura, ma oltre natura, verso soluzioni a cui la natura forse non sarebbe mai pervenuta senza la capacità tutta umana di concepire la natura stessa come un progetto: come, scrive Diderot con un’altra delle sue affascinanti metafore, ” una donna che ama travestirsi, e i cui differenti travestimenti, lasciando sfuggire ora una parte ora un’altra, danno qualche speranza a quelli che la seguono con assiduità, di conoscere un giorno tutta la sua persona”.

Su questa strada, senza illudersi che la natura/donna possa mai manifestarsi completamente, si sono da tempo avviati gli studiosi del rapporto tra forma e forza, ovvero del “disegno” nei sistemi complessi e in particolare nella vita. Così suona il titolo di una cospicua raccolta di saggi apparsa recentemente in lingua inglese e intitolata Origin’s of Design in Natura. A Fresh, Interdisciplinary Look at How Design Emerges in Complex System, Especially Life (a cura di Liz Swan, Richard Gordon e Joseph Seckbach, Springer 2012).

Non sarebbe possibile fornire un adeguato riscontro dei tanti argomenti trattati da 42 autorevoli studiosi di ogni parte del mondo, che s’interrogano sulla emergenza del disegno in tutte le espressione della vita, sia in quelle “organiche”, sia in quelle “organizzative”, dalla vita sociale, che organizza la convivenza, alla vita culturale, che organizza la conoscenza.

Possiamo in questa sede ricordare unicamente le sette sezioni di questo straordinario volume: “Origin of Design”, “Philosophical Aspect of Design”, “Theological Aspects of Design”, “Darwinism as the Backbone of the Life Sciences”, “Critical Discussion of Design in What Lies Beyond Darwinism”, “Design in the Physical Sciences”, “Design in the Social Science”.

E possiamo segnalare la significativa presenza di tre studiosi italiani: Marcello Barbieri dell’Università di Ferrara, Pier Luigi Luisi, dell’Università di Roma Tre, Massimo Negrotti dell’Università “Carlo Bo” di Urbino. In particolare, l’intervento di Negrotti, intitolato “Technological Design of Natural Exemplars”, ripropone il problema dei “naturoidi”, che in varie occasioni ha affrontato anche in questa rivista e che riecheggia l’interrogativo proposto da Diderot: se cioè la tecnologia proceda oltre la natura, assumendo uno specifico ruolo creativo, o se della natura vada progressivamente rivelando opportunità ancora inespresse.

In altre parole, se l’uomo sia chiamato a collaborare alla creazione o ad assumersi un’autonoma e specifica responsabilità creativa.

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