Una pubblicità molto privata

Facebook è uscito indenne da uno scandalo sulla privacy ed è diventato la futura promessa del mondo pubblicitario on line. Il suo obiettivo è trasformarci tutti in “venditori”.

di Robert D. Hof

David Fischer, vicepresidente per il settore pubblicitario di Facebook, mira ad attirare gli inserzionisti con nuovi messaggi pubblicitari di tipo sociale.

Foto: Gabriela HasbunTre anni fa 1-800-Flowers, da lungo tempo al vertice del commercio su Internet, è diventata la prima azienda di fiori a livello nazionale a creare una fan page su Facebook. In questo spazio intrattiene rapporti con i clienti e vende prodotti selezionati, ma investe cifre irrisorie per la pubblicità sul sito. A gennaio, l’azienda ha cominciato a puntare su un diverso tipo di annunci pubblicitari su Facebook. Le cosiddette “storie sponsorizzate”, come sono comunemente chiamate, prevedono che i venditori di pubblicità paghino per trasformare le azioni che gli utenti intraprendono su Facebook in contenuti promozionali. Se, per esempio, un utente clicca su un pulsante per segnalare che un prodotto o una marca sono di suo gradimento, questo semplice messaggio pubblicitario appare sulle pagine degli “amici”: “a Julia Smith piace il sito 1-800-Flowers.com”. Questi amici possono a loro volta cliccare sul pulsante “Mi piace”, per fare apparire il messaggio sulle pagine dei loro “amici” e via di seguito.

In parte grazie a questi annunci pubblicitari, l’azienda ha ora più di 125.000 fan su Facebook, più del doppio di quanti ne avesse all’inizio dell’anno. Il presidente di 1-800-Flowers non ha dubbi: «Facebook è l’anima del nostro programma di sviluppo commerciale».

La stessa politica stanno seguendo decine di brand importanti, come Ford, Procter & Gamble, Starbucks e Coca-Cola. In breve tempo, aziende di questo calibro hanno intrapreso campagne pubblicitarie miliardarie su Facebook. Zynga, il nuovo piccolo colosso dell’intrattenimento videoludico, e Groupon, il sito Web dedicato ai gruppi d’acquisto, hanno promosso iniziative pubblicitarie simili, anche se più modeste, e nella stessa direzione si stanno muovendo centinaia di migliaia di imprese locali, come centri benessere e laboratori fotografici. Lo scorso anno, gli annunci pubblicitari su Facebook hanno fatto entrare nelle casse aziendali circa due miliardi di dollari, secondo la società di ricerche commerciali eMarketer, e un documento trapelato da Goldman Sachs ha rivelato che l’azienda ha realizzato un profitto di circa 500 milioni di dollari nello stesso periodo. Quest’anno, le entrate sono vicine ai 4 miliardi di dollari, rendendo più credibili la valutazione del valore di Facebook intorno ai 75 miliardi di dollari.

Diventare una delle protagoniste del mercato pubblicitario è una dimostrazione di grande vitalità per un’azienda che molti osservatori ritenevano poco profittevole (si veda Un affare ancora da fare, “Technology Review”, edizione italiana, n. 5/2008). Ma Mark Zuckerberg, amministratore delegato e uno dei fondatori dell’azienda, e i responsabili del settore pubblicitario sono ancora all’inizio dell’opera. Il direttore operativo Sheryl Sandberg e David Fischer, vicepresidente per le operazioni globali e la pubblicità, intendono dare vita a qualcosa di differente dai due tipi dominanti di pubblicità on line: la campagna a pagamento per click su Google e gli spazi pubblicitari a pagamento all’interno di siti Internet.

Buona parte degli attuali annunci pubblicitari su Facebook – a forma di piccoli rettangoli che scorrono nella parte destra della pagina, con una minuscola immagine e 160 caratteri di testo – non forniscono neanche un’idea approssimativa della scommessa di Sandberg e Fischer. Facebook non vuole solo ospitare annunci pubblicitari, ma intende costruire un modo del tutto nuovo di fare pubblicità, che sfrutti la potenza delle reti sociali per creare e amplificare il contenuto del messaggio. L’azienda sta spingendo in direzione di una versione altamente sofisticata del “passaparola”, già da molto tempo considerato il metodo più avanzato di marketing perchè le persone ritengono più credibili i consigli degli amici rispetto a quelli di chi vuole vendere loro un prodotto.

Il tradizionale passaparola raggiunge solo un numero limitato di persone. Facebook, con 600 milioni di utenti attivi collegati in media con 130 amici, ha una portata d’azione molto più estesa. Tutto ciò che l’utente fa sul sito viene automaticamente trasmesso ai suoi amici. «è il Santo Graal del commercio: il cliente diventa venditore!», commenta Sandberg, che è entrata in Facebook agli inizi del 2008, dopo avere portato il settore delle divisioni vendite pubblicitarie di Google da 4 a 4.000 dipendenti. «Per la prima volta, il passaparola viene sperimentato su larga scala».

In altri termini, quando entra in Facebook, l’utente non guarda gli annunci pubblicitari, ma diventa egli stesso il messaggio. Questa considerazione spaventa alcune persone, anche per la continua sfida di Facebook alle norme sociali sulla privacy e sull’utilizzo dei dati personali. In effetti, una delle ragioni per cui gli inserzionisti preferiscono Facebook è che gli annunci pubblicitari si possono indirizzare a un pubblico specifico sulla base di preferenze, interessi, localizzazioni ben determinati. «I dati vengono raccolti e monetizzati da Facebook e i suoi inserzionisti, senza che gli utenti ne siano consapevoli», afferma Jeff Chester, direttore esecutivo del Center for Digital Democracy, un’organizzazione senza scopo di lucro per il controllo del commercio digitale.

Zuckerbeg ritiene che queste nuove forme, molto più personalizzate, di commercio siano il solo modo per gli inserzionisti pubblicitari di stare dietro alla natura sempre più sociale di Internet. In media, gli utenti trascorrono oltre sei ore e mezza al mese su Facebook, buona parte delle quali per comunicare con i loro amici; questo tempo è decisamente superiore a quello dedicato ad altri siti. Secondo un implicito contratto in vigore nei media sociali, l’interruzione dell’attività dell’utente con messaggi pubblicitari è fuori luogo come provare a vendere i prodotti Tupperware senza prima avere offerto un pranzo per dimostrare il loro valore, sostiene Ted McConnell, a lungo direttore commerciale di P&G e ora vicepresidente per il settore digitale di Advertising Research Foundation. Queste riflessioni implicano che la pubblicità basata sulla suggestione dell’immagine che ancora domina su televisioni, riviste e qualche importante sito Web potrebbe essere un tipo di prodotto legato soprattutto ai media unidirezionali, vale a dire a tutti quelli precedenti a Internet.

In Rete, i consumatori non solo possono criticare gli annunci pubblicitari, ma hanno anche la possibilità di parlare tra loro e scambiarsi opinioni su prodotti, servizi e brand. Lo scorso anno, Ford ha cercato di sfruttare queste potenzialità, presentando il SUV Ford Explorer 2011 non in un salone automobilistico, ma su Facebook. «Volevamo evitare la confusione tipica di queste manifestazioni», spiega Scott Monty, responsabile per i media sociali di Ford. L’azienda ha inserito una ricca pagina su Facebook, con video, fotografie, un concorso per vincere un’automobile e, nel giorno della inaugurazione, una chat dal vivo con l’amministratore delegato Alan Mulally e altri dirigenti. Allo stesso tempo sono apparsi annunci pubblicitari che invitavano a “provare” l’Explorer. Secondo la rete di siti Web automobilistici Jumpstart Automotive Group, la quota di acquirenti di SUV sui siti Jumpstart che hanno contattato Ford sono saliti del 52 per cento, più del triplo dell’aumento registrato da altre case automobilistiche che hanno investito 2 milioni e mezzo di dollari a testa per 30 secondi di spot pubblicitari televisivi durante il Super Bowl.

Il nuovo oggetto del desiderio

Sheryl Sandberg, direttore operativo di Facebook, è arrivata da Google, dove si occupava di strategie pubblicitarie. Il suo obiettivo è di trasformare il commercio pubblicitario della azienda in qualcosa di completamente innovativo.

Foto: Heisler / ReduxFacebook si distingue dalla concorrenza, in modo particolare da Google, perchè i suoi messaggi pubblicitari non mirano a influenzare l’acquisto immediato, ma sono finalizzati alla promozione del brand; una tecnica quasi sconosciuta on line. «Non ci interessa soddisfare chi ha già deciso cosa vuole acquistare, che è un lavoro prevalentemente di ricerca», spiega Sandberg, avvicinandosi a una lavagna e tracciando un cerchio sulla parte inferiore della classica rappresentazione a imbuto delle strategie di mercato, che indica lo stadio finale dell’acquisto. Indicando la parte superiore dell’imbuto, che mostra la fase in cui il consumatore prende consapevolezza del brand e considera l’idea di acquistare un prodotto, Sandberg aggiunge: «Il nostro obiettivo è raggiungere il consumatore prima che abbia deciso di acquistare un prodotto».

Se le strategie di Sandberg e Fischer si riveleranno vincenti, Facebook potrà conquistare una buona fetta dei 500 miliardi di dollari del mercato pubblicitario televisivo, che al momento ha una posizione dominante nel settore dei brand. Di recente Dwayne Chambers, responsabile delle attività di mercato di Krispy Kreme, ha per esempio dichiarato alla rivista “Advertising Age” che Facebook, su cui l’azienda produttrice di frittelle ha più di tre milioni di fan, sembra un luogo più adatto della TV per il lancio di messaggi pubblicitari.

Ma queste trasformazioni non avvengono dall’oggi al domani. Buona parte della pubblicità attuale su Facebook non presenta particolari innovazioni. Anche Facebook ammette, in parte, che i suoi messaggi pubblicitari non si possono ancora definire “sociali”; promuovono un brand o forniscono un collegamento al sito della marca, come fanno altri spazi pubblicitari, ma non riportano i consigli degli amici o un pulsante del tipo “Mi piace”. Inoltre, molti annunci pubblicitari non sono legati direttamente al brand, ma chiedono agli utenti di fare un gioco o di registrare l’e-mail. La capacità di Facebook di suddividere l’utenza in base agli interessi e alle attività portate avanti sui siti rende questa forma di pubblicità interessante per gli inserzionisti, anche se non è la caratteristica che distingue l’azienda; le reti pubblicitarie di Google e Yahoo sono in grado di fare altrettanto.

Un altro problema è che poche persone cliccano sugli annunci pubblicitari di Facebook. Webtrends, leader di mercato nell’analisi statistica dell’uso di siti Web, ha calcolato che questi annunci vengono cliccati una volta su duemila, vale a dire la metà della media per gli spazi pubblicitari industriali. Anche se i messaggi pubblicitari con il nome di un amico sono cliccati più spesso, le loro prestazioni non si avvicinano neanche lontanamente a quelle della pubblicità su Google, che si attestano su una media di un click ogni 50 volte che vengono visti. Questa differenza così marcata è legata alla natura dei messaggi pubblicitari, che sono offerti a utenti che hanno già segnalato la loro disponibilità all’acquisto con le parole che hanno inserito nella casella di ricerca. In ogni caso il risultato finale è che, nel 2010, Google ha guadagnato in un mese più di quanto abbia fatto Facebook in un anno, anche se gli utenti passano molto più tempo su Facebook.

Molti inserzionisti si stanno ora avvicinando a Facebook perchè il ritorno economico è soddisfacente e per il timore di rimanere indietro. «I media sociali sono il nuovo oggetto del desiderio», afferma Jascha Kaykas-Wolff, vicepresidente per le attività di mercato di Involver, che fornisce tecnologie ai brand più famosi per la gestione della loro presenza sui media sociali. Ma altri inserzionisti rimangono prudenti e non a torto. La pubblicità sulle pagine dei siti delle reti sociali implica in larga misura la perdita del controllo. Un messaggio pubblicitario potrebbe essere inserito accanto a un giovane che fa uso di droghe o “una storia sponsorizzata” su Facebook potrebbe suscitare commenti negativi da parte di qualche utente. «Comprate un annuncio pubblicitario e non mettetevi a scriverlo», dice con il sorriso sulle labbra Sandberg, pensando a come gli inserzionisti possano reagire a questo “suggerimento”. Alcuni venditori di pubblicità vorrebbero essere più creativi con i loro messaggi pubblicitari di quanto sia possibile su Facebook, che si limita semplicemente a evitare di disturbare gli utenti. «Vorrei messaggi pubblicitari più eloquenti e ricercati», afferma Seth Greenberg, vicepresidente di Intuit per i media globali e il commercio digitale.

Se i dirigenti di Facebook hanno l’intenzione di creare un nuovo mercato nell’era dei siti sociali, è chiaro che devono ancora persuadere chi vende beni e servizi – e le persone che questi venditori vogliono raggiungere – che il marketing sociale ha un valore reale. Ma i primi tentativi in questa direzione dimostrano le difficoltà dell’operazione intrapresa.

La debacle della privacy

Il 6 novembre del 2007, Mark Zuckerberg organizzò un evento al Loft Eleven, a New York, durante il quale dichiarò che il mondo della pubblicità sarebbe cambiato nei secoli a venire, a iniziare da quel momento. I suoi esperti avevano lavorato giorno e notte a «forme completamente nuove di pubblicità on line», i cosiddetti Facebook Ads. Aziende del calibro di Coca-Cola, Blockbuster e CBS avevano già dato la loro adesione. Il sistema prevedeva che gli inserzionisti attivassero pagine di brand importanti aperte al contributo di gruppi di utenti. I “messaggi pubblicitari sociali” avrebbero messo insieme suggerimenti di iscritti a Facebook, per esempio su un prodotto da acquistare o su un ristorante, con l’annuncio dell’inserzionista. Inoltre, un sistema chiamato Beacon avrebbe avuto il compito di trasmettere aggiornamenti costanti agli amici dei membri di Facebook ogni volta che l’utente intraprendeva un’azione su uno di altri 40 siti, come l’acquisto di un biglietto del cinema su Fandango o la selezione di un articolo in vendita su eBay.

Le persone potevano anche rifiutare di usufruire dei servizi di Beacon, ma questa opzione non è stata sufficiente a prevenire un’ondata di accuse da parte dei difensori della privacy e degli utenti. Alcuni erano furiosi, per esempio, di scoprire che era stato comunicato al destinatario il regalo che avevano comprato. Coca-Cola, insieme ad altri inserzionisti, rinunciò immediatamente a Beacon. Un mese dopo l’annuncio, Zuckerberg si scusò pubblicamente e modificò il sistema per garantire agli utenti un maggiore controllo su come venivano monitorate le loro azioni. Ma le ripercussioni negative costrinsero l’azienda a modificare le strategie intese a sfruttare le attività degli utenti per la creazione di messaggi pubblicitari mirati. Anche se, secondo i resoconti ufficiali, nel 2008 le entrate di Facebook raggiunsero i 300 milioni di dollari, il risultato apparve insoddisfacente rispetto a quello del suo rivale MySpace che aveva raccolto 600 milioni di dollari per gli annunci pubblicitari.

In ogni caso, Facebook continuò a puntare sui messaggi pubblicitari che sfruttavano il “grafico sociale”, l’espressione utilizzata da Zuckerberg per descrivere la mappa delle relazioni sul sito. L’azienda fornì anche agli utenti la possibilità di cliccare su un pulsante per indicare l’apprezzamento o meno dell’annuncio pubblicitario. Ad agosto del 2008, Facebook lanciò una forma di pubblicità interattiva, gli engagement ads, che prevedeva il contributo attivo dell’utente in termini di commenti, iscrizione a gruppi di sostenitori del prodotto pubblicizzato e partecipazione ai sondaggi. Queste nuove modalità pubblicitarie stentarono ad affermarsi, inducendo Facebook nel 2009 ad aggiungere nuove caratteristiche per attirare gli inserzionisti. Tra queste un nuovo design delle pagine pubblicitarie di brand importanti per farle sembrare più simili alle pagine dei profili degli utenti, avvicinando in tal modo i brand alle persone.

Queste iniziative convinsero in parte gli inserzionisti, senza creare particolari contraccolpi tra gli utenti. A gennaio del 2010, dopo avere partecipato a un incontro tra alcuni finanziatori e i dirigenti di P&G, David Hornik, un socio di Augusta Capital, scrisse che P&G riteneva Facebook «un capisaldo della pubblicità digitale e della promozione dei brand» per i cui servizi «è giusto pagare un prezzo adeguato». Il mese successivo, per dare un forte segnale della sua volontà di promuovere modelli di pubblicità sociale, Facebook pose fine al suo accordo triennale con Microsoft sui banner pubblicitari e annunciò al tempo stesso di volere abbandonare i tradizionali avvisi pubblicitari, sostenendo che «i formati pubblicitari legati alle caratteristiche sociali delle attività on line raggiungono risultati superiori e incontrano il favore dell’utente».

Ora che gli inserzionisti si stavano avvicinando a Fecebook, era giunto il momento di rafforzare la sua divisione vendite, senza perdere tempo. A marzo del 2010, mentre scalzava Google dal primo posto della classifica dei portali più visitati (secondo la società di ricerche Hitwise), l’azienda assumeva l’esperto di vendite Fischer, portandolo via a Google, dove era stato vice di Sandberg e suo successore. L’obiettivo era chiaro: attirare talenti del settore vendite nel mondo di appassionati di Internet e nuovi media di Facebook. Fischer ha allargato il raggio d’azione internazionale e ha portato i dipendenti del settore vendite a oltre 500 unità. Il mese successivo, Facebook alzò ulteriormente il tiro: Zuckerberg annunciò Open Graph, vale a dire una serie di tecnologie che definì «l’iniziativa più coraggiosa mai intrapresa sul Web». Open Graph avrebbe integrato gli altri siti che collaboravano con Facebook con modalità del tutto originali. In particolare, l’azienda spiegò che stava rendendo disponibile il pulsante “Mi piace” a qualsiasi sito avesse accettato di aggiungerlo; se si cliccava questo pulsante su una qualsiasi pagina dei siti, si sarebbe generato un collegamento da condividere con gli amici negli aggiornamenti personali di Facebook. Gli utenti di Facebook che si collegavano al sito della CNN avrebbero potuto vedere quali articoli avevano letto e apprezzato gli amici. Il servizio di musica personalizzata, Pandora, avrebbe inserito negli annunci pubblicitari le canzoni e i gruppi musicali selezionati dall’utente con il pulsante “Mi piace”. Allo stesso tempo, i diversi passaggi dell’utente nei vari siti sarebbero stati visibili su Facebook. Il pulsante universale “Mi piace” è da allora diventato il punto di forza dei tentativi di Facebook di rendere il marketing qualcosa di più del semplice rapporto tra consumatore e brand (si veda Indicizzazione sociale, pag. 7).

In estate, la base di utenti di Facebook raggiunse i 500 milioni di utenti e il numero di inserzionisti, secondo i dati dell’azienda, si erano triplicati in 18 mesi. Molti di questi inserzionisti erano di piccole dimensioni, ma non si trattava di un fattore necessariamente negativo. La rete pubblicitaria di Google è stata costruita su aziende di piccola e media grandezza per ottimizzare i costi. Su Facebook è ora più semplice per queste aziende pubblicizzare con efficacia i loro brand. Come dice Fischer: «Stiamo allargando la fascia alta del mercato dei brand in modi prima impensabili, espandendo le fila dei venditori».

A settembre, per spiegare le potenzialità di Facebook nelle tradizionali campagne pubblicitarie dei brand, Sandberg è intervenuta a una conferenza di promotori pubblicitari e agenzie, organizzata a New York da Interactive Advertising Bureau, che raccoglie i più importanti operatori della pubblicità on line. «Il grafico sociale», ha detto Sandberg sviluppando la definizione di Zuckerberg, «non esprime solo un collegamento tra le persone, ma anche tra le persone e le cose che amano». Se si fornisce agli utenti la possibilità di contribuire a dare forma ai prodotti e alle immagini dei brand, ha spiegato la dirigente di Facebook, gli annunci pubblicitari non saranno più vissuti come interruzioni commerciali, ma come una stimolante richiesta di collaborazione.

Sandberg è venuta armata dei dati della Nielsen, che negli anni passati ha lavorato insieme a Facebook per confrontare l’impatto dei messaggi pubblicitari sociali e di quelli tradizionali nella stessa campagna pubblicitaria. In una ricerca condotta su 14 di queste campagne, la Nielsen ha scoperto che le persone che ricevevano un annuncio pubblicitario spedito da un amico avevano il 68 per cento in più di probabilità di ricordarsi di questo messaggio rispetto a chi ne vedeva uno normale. Inoltre, queste persone sostenevano in percentuali quattro volte superiori alle altre che avrebbero probabilmente acquistato il prodotto pubblicizzato.

Una squadra competitiva

Al di là dell’entusiasmo di Facebook, rimangono dubbi sulla sua capacità di persuadere i grandi brand ad aprire i cordoni delle loro borse; un problema di non poco conto, considerando le aspettative degli investitori. Maurice Lévy, amministratore delegato di Publicis, un’importante agenzia pubblicitaria francese, ha dichiarato questa primavera al “New York Times” di non essere in grado di dire se qualche modello commerciale legato ai media sociali sarà in grado di avere «lo stesso successo del sistema di ricerca di Google». Comunque, la recessione ha indotto i brand a trovare sistemi più economici per raggiungere i consumatori e i media sociali rispondono a questi requisiti. Sandberg cita una lunga serie di aziende che hanno costruito il valore del loro brand utilizzando le pagine di Facebook e il pulsante “Mi piace”. Il problema di Facebook è che queste servizi sono gratuiti.

Lo scorso anno Intuit, per promuovere il suo applicativo fiscale Turbo Tax, ha introdotto nella sua applicazione un pulsante “Mi piace” sul quale l’utente può cliccare quando ha completato la dichiarazione dei redditi. Circa 100.000 persone hanno selezionato questo pulsante o quello sulla pagina Facebook. Chi ha visto che un suo amico aveva espresso apprezzamento per Turbo Tax ha cliccato su un collegamento al prodotto con una percentuale quattro volte superiore a chi era stato esposto a una pubblicità tradizionale. Circa il 30 per cento di coloro che avevano cliccato sul prodotto hanno comprato il programma e il 79 per cento erano nuovi clienti. Ottimi risultati per Intuit, che non ha dovuto pagare Facebook per questo servizio.

«In campo commerciale si ripete la storia di Moneyball», dice Cory Treffiletti, presidente dell’agenzia pubblicitaria Catalyst S+F, con sede a San Francisco, riferendosi al libro del 2003 di Michael Lewis, in cui si parla degli Oakland Athletics, una squadretta di baseball di terza fascia che arriva più volte alle fasi finali pur cedendo sistematicamente i giocatori migliori per far quadrare il bilancio.

Una potenziale fonte di guadagno per Facebook potrebbe essere una rete pubblicitaria, che dovrebbe vendere i suoi annunci pubblicitari agli altri siti Web in cambio di una percentuale sulle entrate generate. Lo scorso anno, per esempio, la rete AdSense di Google ha incassato 9 miliardi di dollari. Ma l’azienda dice di non avere in cantiere progetti per una rete di questo tipo. La sfida più grande di Facebook rimane quindi quella di affidarsi a campagne pubblicitarie innovative che siano apprezzate da inserzionisti e utenti.

Sandberg e Fischer ammettono di non avere ancora trovato il bandolo della matassa. Se vuole renderci tutti aspiranti venditori, Facebook dovrà riuscire a mettere insieme la scienza dei grafici sociali con l’arte dei messaggi pubblicitari, che sta cercando di rinnovare radicalmente.

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